Se la Sardegna fosse un posto approssimativamente vicino agli standard culturali, sociali e politici europei, in questo momento avremmo una assemblea legislativa e un governo regionale al lavoro. Potremmo dunque discutere di questioni politiche serie e non di pasticci nelle operazioni di spoglio o di raccapriccianti trattative per la formazione della giunta regionale. Uno dei temi sul tappeto dovrebbe essere l’Europa, sia nella prospettiva elettorale (il 25 maggio si rinnoverà il parlamento europeo) sia in una prospettiva storica più ampia.
Facciamo finta che le condizioni di fatto lo consentano e proviamo a vedere in che termini la questione “Europa” può essere affrontata sull’isola. Qualcuno ha già provato a farlo, meritoriamente. Ma rimane il dubbio che si stiano applicando cornici concettuali sbagliate a una questione che invece – come altre – non può prescindere da un giusto inquadramento, per poter essere compresa e avviata su un terreno propositivo. Serve una riflessione non ideologica e non di parte su quale potrebbe essere la possibile declinazione sarda di una partecipazione alle elezioni europee.
Intanto c’è il nodo del collegio elettorale. In molti in questi giorni si affrettano a sollevare il problema, come se lo avessero scoperto solo oggi. Il problema, lo sappiamo, esiste da anni. L’unico ambito politico che se n’è fatto carico fin qui è stato quello indipendentista. Il che è perfettamente comprensibile, dato che ai partiti italiani in Sardegna interessa partecipare e vincere come partiti, nel contesto italiano, a prescindere dalla rappresentanza territoriale dell’isola. Se il PD fa un buon risultato alle europee, il PD sardo se ne fregerà come di un risultato proprio. Idem per Forza Italia o per altre formazioni con baricentro e interessi piantati in Italia. In definitiva, non c’è da aspettarsi né da Pigliaru né dai suoi omologhi di centrodestra (facendo finta che rappresentino posizioni diverse e alternative) una assunzione di responsabilità sul tema.
Diversa è la condizione dei sovranisti, o neoautonomisti o paraindipendentisti della coalizione che ha vinto le elezioni sarde. In quel caso dichiarazioni e proclami risultano semplicemente velleitari. Servono solo a preservare la propria nicchia politica dentro la coalizione, non certo a risolvere il problema. Più intelligente l’azione intrapresa da alcuni volenterosi circa un ricorso diretto alle istituzioni europee, per il riconoscimento del diritto dei sardi ad essere rappresentati in Europa, se non altro come minoranza linguistica (condizione per altro nominalmente riconosciuta dallo stesso stato italiano, con la L. 482 del 1999).
Il problema della rappresentanza è certamente rilevante ed attiene a una sfera anche simbolica, oltre che politica e giuridica. Nondimeno, non è questione che, da sola, può dirimere l’annoso problema del nostro isolamento. Servirebbe maggiore azione politica a Bruxelles e maggiore attenzione per il contesto internazionale, cose che si possono fare comunque, con o senza rappresentanti nel parlamento europeo, possibilità che solo la cattiva volontà o la vergognosa inadeguatezza della nostra classe politica ci hanno tolto in questi anni. Per dire, la partecipazione del PSdAz all’Alleanza Libera Europea (associazione tra partiti rappresentanti di nazioni senza stato, regioni storiche e minoranze, riconosciuta a livello istituzionale) non è mai stata proficuamente utilizzata come sede di promozione o amplificazione delle questioni che ci riguardano.
C’è poi il discorso più ampio sulla natura dell’Unione Europea e sui vantaggi o svantaggi che comporta il farne parte. Al netto delle vagonate di complottismo che ammorbano il dibattito pubblico (specie sui social media), è doveroso mantenere viva la critica ai centri di potere che oggi occupano le istituzioni europee. La critica e la proposta alternativa. È stupido e in certi casi interessato accusare l’Europa (sic! non l’UE o i suoi uffici, ma l’Europa, come continente) di ogni possibile nefandezza. Si tratta spesso di argomentazioni a supporto di posizioni nazionaliste, reazionarie e anche fasciste. Come se fosse davvero auspicabile un ritorno agli stati-nazione ottocenteschi! È comunque altrettanto stupido o interessato negare che il funzionamento attuale dell’UE garantisca solo alcune ristrettissime fasce sociali e alcuni centri di interesse privato molto forti, benché largamente minoritari. Il discorso deve quindi vertere sulle possibilità di riformare l’UE, di trasformarne le istituzioni in termini più democratici, di allargare la sfera della partecipazione alle scelte comunitarie, di ampliarne la trasparenza, di garantire maggiormente i diritti civili e sociali delle popolazioni e delle loro fasce più svantaggiate.
Su questo piano si pone in modo interessante la proposta della Lista Tsipras. È utile e anzi auspicabile una vasta mobilitazione a livello continentale che sottragga la critica al modello dominante alle pulsioni populiste e destrorse (stile Lega o neofascisti o M5S, per rimanere all’ambito italiano). Della Lista Tsipras si parla anche in Sardegna. Giustamente, aggiungo subito. Alcune forze politiche e alcuni circoli culturali si stanno spendendo per promuovere adesioni e candidature in questa lista anche sull’isola. Qualche nome è già saltato fuori (penso a Elena Ledda). Tuttavia proprio in questo caso si evidenzia la carenza di impostazione del discorso. La Lista Tsipras si presenta in Sardegna nella sua declinazione italiana. Ossia, esattamente come qualsiasi altro partito italiano in Sardegna, con una visuale, un apparato comunicativo e un orizzonte che hanno il loro centro in Italia, e in Sardegna al più una succursale periferica.
Non risulta che all’interno del dibattito aperto da promotori e simpatizzanti sardi di questo raggruppamento sia stata posta con forza la questione del collegio elettorale. A ciò si aggiunge la freddezza, se non l’ostilità, di varie componenti della lista al tema dell’autodeterminazione dei popoli. Il che a sua volta depotenzia l’apparato teorico su cui questo progetto basa la sua proposta. È quanto mai anacronistico e anche piuttosto astratto, nonché troppo diluito con eccessive dosi di giacobinismo, perorare la causa di un’Europa dei popoli, democratica, socialmente giusta, fondata sui diritti, ignorando o peggio osteggiando le rivendicazioni delle nazioni senza stato e delle minoranze storiche, pure ampiamente sul tappeto proprio in questi stessi mesi.
Alla fin fine, anche questa della Lista Tsipras sembra un’occasione persa, per la Sardegna. Chi ne anima la campagna di adesione sull’isola in fondo sono forze piccole e marginali della vecchia sinistra italiana: niente di vitale o di proiettato nel futuro, niente per cui, in Sardegna, valga davvero la pena spendersi. Detto con molto rispetto per le candidature pure di rilievo (in alcuni casi di grande spessore) che persino nella sua versione italiana questo raggruppamento ha saputo attrarre.
La partita europea, per la Sardegna, resta tutta da giocare. Così come la partita del nostro ruolo mediterraneo. Ruolo quanto mai delicato e strategico, visti i chiari di luna geopolitici e sociali che animano questa porzione di pianeta, tra il Portogallo e l’Ucraina, passando per la Catalogna, la Scozia, il Nord Africa, il medio Oriente e la stessa Grecia di Alexis Tsipras. O entriamo nell’ottica che tutto ciò che accade in Europa e nel Mediterraneo ci riguarda e dobbiamo occuparcene, in una prospettiva nostra, oppure continueremo ad essere una piccola pedina in mani altrui. Qualche caramella ricoperta di orgoglio posticcio e qualche vaga promessa basteranno a comprarsi il nostro consenso a fare di noi ciò che altri vorranno. Con l’assenso servile del sistema di potere dominante e della sua rappresentanza politica. La quale – pur definitivamente screditata e evidentemente minoritaria – farà carte false (come ha già fatto) pur di mantenere i propri privilegi ingiustificati. A nostro danno.