Per una pedagogia della complessità

La fase storica che stiamo vivendo ci espone a un grado di complessità che non siamo in grado di governare né di comprendere tramite i criteri interpretativi consolidati. A un modello economico generale ancora basato sul capitale corrisponde una rete di relazioni produttive, sociali, culturali e affettive liquefatta e multidimensionale, non ancorata a strutture stabili né proiettata chiaramente verso un sistema diverso e definito, per di più resa ancora più complicata dal sovradosaggio di informazioni e di immagini da cui siamo costantemente bombardati. La nostra specie ha invece bisogno di schemi interpretativi e modelli di relazione quanto meno comprensibili, per riuscire a dare senso alla propria esistenza materiale, anche quando questo senso sia conflittuale.

Così, tra difficoltà concrete e spaesamento cognitivo, ci troviamo ad annaspare, cercando appiglio in ciò che sappiamo o in ciò che ci sembra di sapere, con la tentazione di chiuderci in noi stessi, nelle nostre certezze minime e basilari, semplificando all’inverosimile la varietà del mondo e i fenomeni nuovi. Tanto più questa deriva è drammatica quanto più insiste su un contesto di suo fragile e destabilizzato come quello sardo. Non aver ereditato dei punti di riferimento solidi, almeno come termine di paragone spendibile, costringe a una vita di improvvisazione, di credulità e di randagismo teorico, senza nemmeno disporre di un armamentario concettuale e critico sufficientemente articolato o in qualche modo collegato al proprio contesto fisico e relazionale.

Niente di strano che da noi imperversino a tutti i livelli venditori di fumo, spacciatori di illusioni, fanfaroni truffaldini, mestieranti, cercatori di occasioni, avventurieri di ogni risma. Nel disorientamento generalizzato, ogni punto apparentemente fermo sembra una stella polare, anche quando esiste il fondato sospetto che conduca al baratro. Così è facile che si formino grumi di consenso intorno a idee e aspettative che non reggerebbero a un’analisi razionale, ma che la povertà di strumenti a disposizione e l’ansia di ancoraggi sicuri fa apparire come certezze a cui affidarsi.

Lo vediamo ad esempio in occasione delle tornate elettorali. Nel 2009 un improbabilissimo personaggio come Cappellacci riuscì a convincere una larga fetta dell’elettorato sardo di avere qualcosa di buono da offrire. Un abbaglio non da poco. Ma anche la precedente avventura politica di Soru aveva assunto i connotati dell’aspettativa messianica, della fede nel leader illuminato. Dinamiche di natura escatologica, più che politica, fondate su una inconsapevolezza storica diffusa e profonda, sulla pressoché totale mancanza di coscienza di sé nel mondo da parte di moltissimi sardi.

Dalla delusione suscitata da questi due modelli di affidamento fideistico è derivata ultimamente la disgregazione sociale e politica a cui stiamo assistendo. Nell’incertezza generale, ogni categoria fa gioco a sé, ogni nucleo di interesse cerca di forzare le cose a proprio favore (spesso finendo nelle grinfie di interessi ben più grandi e famelici). Alla lotta politica declinata secondo categorie ideali di tipo generale, alla contrapposizione sociale secondo gli schemi novecenteschi, si è sostituita una forma di rivendicazionismo settoriale, egoista e poujadista, non alieno da sentimenti reazionari.

Questa deriva è stata assecondata, anziché essere contrastata, dai partiti maggiori, quelli di matrice italiana, che rispondono ad un assetto di potere dipendente e subalterno, ma anche dalle formazioni sindacali, dalle rappresentanze di categoria e persino da una buona fetta dell’ambito politico indipendentista. Improvvisamente lo scenario è stato occupato non da problemi strutturali e generali, dal dibattito strategico, ma dalla pura e semplice adesione tattica a situazioni estemporanee (i problemi degli agricoltori esecutati, le richieste dei padroncini sopraffatti dal fisco, la protesta dei pastori, le vertenze di operai e minatori, ecc.). Chi non si faccia carico per intero delle pretese di questa o quella categoria è automaticamente un nemico. Spesso molto più di quanto lo sia – agli occhi degli ineressati – la reale controparte sociale. In questo momento, a conferma di questa dinamica, la fissazione collettiva che domina la scena è quella sulla Zona Franca, vero feticcio retorico e politico, ostentato come baluardo degli interessi fondamentali dei sardi e propagandato secondo modalità degne dei più consumati predicatori millenaristi.

In un contesto simile, fare esercizio di pensiero complesso e cercare di pronunciare parole di verità (la verità relativa e contingente a cui possiamo attingere nella nostra dimensione concreta, beninteso) risulta dunque difficile e in certi casi persino pericoloso. Eppure non ce ne possiamo esimere. Nell’impazzimento generale, è il savio a sembrare folle. Eppure questo non cambia le cose: i pazzi sono pazzi e i savi sono savi. La ragione e il torto non mutano solo perché la maggioranza ha torto.

Occorre una pedagogia della complessità che sia profondamente rispettosa delle difficoltà materiali e culturali di tanti, troppi cittadini, che non si ponga su un piano di superiorità, fuori dal conflitto, in una condizione di purezza autoreferenziale. Non esistono spazi incontaminati, piani paralleli e incomunicanti. Tutti siamo connessi gli uni agli altri e tutti insieme col mondo in cui esistiamo. A partire dalle comunità minime cui apparteniamo, al fascio di relazioni più strette in cui si articola la nostra vita. È là in mezzo che deve essere esercitata la pedagogia della complessità, innanzi tutto con l’esempio e poi naturalmente con la condivisione generosa del sapere, della consapevolezza. Non siamo padroni delle nostre idee e non possiamo pensare che ci basti salvare noi stessi, individualmente. Questa è una pretesa antievolutiva, prima ancora che antistorica.

Naturalmente questo approccio non elimina il conflitto. Non lo elimina nemmeno retoricamente. Anzi, se ne nutre. Ignorare l’attrito tra gli elementi del sistema non ne elimina gli effetti. Quel che serve però è una visione ampia, su un livello superiore rispetto alla conflittualità intrinseca di ogni collettività umana. Cancellare ogni “noi” contrapposto artificiosamente a ogni “loro” strumentalmente evocato non significa dimenticare che siamo tutti un “noi” e un “loro” per qualcuno e che non esiste storicamente una condizione di pace generalizzata in cui gli opposti si annullino e le differenze scompaiano. Nondimeno, tenuto conto di questa intrinseca eterogeneità dialettica, va assunto come compito politico fondamentale il far prevalere uno sguardo ecumenico, in cui dal conflitto e dal confronto tra elementi diversi emerga una condizione di equilibrio su un altro livello. Non una volta per tutte, ma come tensione continua veso il contemperamento di spinte opposte. L’alternativa è una qualche forma di totalitarismo, imposta magari come soluzione alla conflittualità permanente, la vigenza di una narrazione in cui si scarica su un nemico esterno la conflittualità interna che non si intende affrontare nelle sue cause reali. Sono cose già successe, niente di originale, in fondo.

In Sardegna non ci rimane molto tempo per acquisire gli strumenti e organizzare le forme politiche della nostra resistenza attiva alle spinte della storia. Siamo in una situazione estremamente fragile, alimentata ad arte da chi ha qualcosa da guadagnare dallo status quo o dalla confusione che deriva dalla sua degenerazione incontrollata. La tentazione di affidarsi a leader carismatici (o presunti tali) e l’adesione a retoriche semplicistiche e ricette di facile consumo mediatico, associate alla generalizzata ignoranza di sé e del mondo che ci circonda, contrastano con la nostra esigenza primaria della sopravvivenza collettiva. Non è affatto detto che i mesi e gli anni a venire ci consegnino a una sorte benevola. L’unica via per chi abbia a cuore una sfera di interessi che vada oltre la propria convenienza individuale immediata è prendere consapevolezza del momento, allentare la propria fede nei paradigmi a cui ci si è affidati fin qui, e mettersi a disposizione di una rigenerazione materiale e culturale rivolta non solo e non tanto al breve periodo ma innanzi tutto al lungo termine. Viceversa non resta che la dissoluzione fisica, demografica, economica, ed anche morale.