È significativo che in Italia si celebrino insieme l’Unità dello stato e le forze armate. Al solito, in questo paese ipotetico, prevalgono la retorica sulla memoria, la narrazione tecnicizzata sull’onesta contabilità storica. Cosa ci sia da festeggiare in una faccenda così dolorosa e piena di violenza come l’unificazione italiana può saperlo solo chi da tale evenienza storica ci ha guadagnato qualcosa. Associare all’idea dell’unità statuale italiana l’elemento militaresco ha inoltre un che di patetico, oltre che di ipocrita, dato che le forze armate italiane non si sono mai distinte – come invece vorrebbe far credere la versione dominante – per maggiore umanità e per particolare eroismo, bensì hanno sulla coscienza orrori e nefandezze non minori – e in quache caso decisamente peggiori (Debra Libanos dirà poco a tanti, temo) – di altre forze armate nazionali.
Il tutto assume i contorni della bassa propaganda normalizzatrice se applicato alla Sardegna. Il 4 novembre, da noi, vede riemergere con toni sempre più fuori luogo alcuni elementi decisivi del nostro mito identitario, prima di tutto riguardo alla Brigata Sassari. Politicanti a corto di argomenti ma in cerca di legittimazione approfittano dell’occasione per promuovere se stessi a spese della memoria collettiva e della buona creanza. Mass media compiacenti indulgono in cedimenti sentimentali piuttosto grotteschi, convalidando un mito anti-emancipativo che continua a perseguitarci, con un retrogusto beffardo per tutti coloro che hanno subito le conseguenze dirette e indirette della tragedia del primo conflitto mondiale. Senza contare la truffaldina connessione narrativa tra le imprese dei Dimonios nelle trincee del Carso o dell’Altopiano di Asiago e le missioni “di pace” dell’attuale Brigata Sassari, con tanto di incoraggiamento ai giovani sardi – per altro sempre più deprivati di opportunità, di competenze e di strumenti critici – a tentare la via dell’arruolamento.
Su queste pratiche di manipolazione delle coscienze si è espresso in questi giorni il sindacato studentesco Scida e non aggiungo altro alla loro analisi. Vorrei però far notare come in questo periodo dell’anno in Sardegna si accumulino sempre le iniziative o gli eventi che rilanciano la nostra appartenenza all’Italia come un destino ineluttabile e sacrosanto. Una specie di appuntamento fisso per la classe dominante sarda che mantiene posti di rilievo decisivi nei mass media, nelle università, negli apparati del potere economico-finanziario. Così, quest’anno, ecco elargita a un pubblico sardo sempre più scettico e disincantato la bella fiaba della nazionale italiana di tennis, quella femminile, che proprio a Cagliari trionfa in una grande manifestazione internazionale (col significativo corollario dell’edificazione di tribune ex novo nell’impianto sportivo ospitante, in pochi giorni e senza tante questioni di permessi e di procedure: il che è decisamente sorpredente, se si pensa a vicende analoghe di questi stessi mesi). Ovviamente la vittoria italiana trova un posto di rilievo sui mezzi di informazione più pervicacemente dipendentisti. Da notare – a conferma – che per la ricorrenza del 30 ottobre scorso – anniverario della repressione dell’ultimo tentativo rivoluzionario sardo (la cosidetta Congiura di Palabanda, 1812) nessun mezzo di informazione ha speso una sola riga.
Difficile non trarre da quest’insieme di fatti delle conclusioni politiche. Politiche in quanto attinenti alla sfera pubblica, alla questione della formazione dell’immaginario collettivo e a quella della manipolazione del consenso. Sappiamo bene quanto sia precaria la situazione socio-economica in Sardegna, quanto sia debilitato il tessuto culturale isolano, quanto abbia perso credibilità l’ambito politico istituzionale. In una tale fase di disgregazione chi ha da guadagnare qualcosa nel mantenimento dello status quo non lesina mezzi e stratagemmi per adeguarsi alle spinte sociali montanti e al contempo incanalarle verso una nuova normalizzazione senza tanti scossoni.
Molto di quello che succede in giro è frutto del tentativo di grumi di interessi consolidati e di forze opache della nostra società di mantenere posizioni favorevoli, magari cavalcando proprio il malessere da loro stessi creato per trarne nuova legittimazione. Pensiamo alla presentazione in pompa magna del nuovo Piano Paesistico “dei Sardi”, o alla questione della Zona Franca, espedienti populistici dannosi sia quanto ai loro esiti diseducativi sia quanto alle possibili conseguenze pratiche. Espedienti che solleticano la primordiale e istintiva pulsione all’autodeterminazione dei sardi, esattamente come il ricorso alla retorica dei Dimonios, e che però sanciscono di fatto la perpetuazione della nostra subalternità.
I sardi non hanno nulla da festeggiare, in questo 4 novembre. Non l’unità dello stato italiano, non i valori militareschi e nemmeno provvisorie e del tutto insignificanti vittorie sportive italiane, benché ottenute su suolo sardo. Ciò che a suo tempo potremo festeggiare sarà l’inversione della tendenza al “genocidio controllato” a cui siamo avviati, se e quando tale inversione di tendenza avverrà. Se avverrà, non sarà certo grazie a chi oggi si appropria dei miti tossici che ci ammorbano lo spirito e ce li rivende, con fare da pusher smaliziato, confidando nella nostra astinenza da elementi di identificazione forti. La dipendenza va curata, non alimentata, e prima di tutto è necessario allontanare da noi tanto le sostenze nocive quanto gli spacciatori.