Come sempre accade nei periodi di crisi politica, economica e culturale, l’eventualità di un rimescolamento dei rapporti di forza produce azioni e reazioni di vario segno nel corpo sociale. Certe strutture di potere vacillano e finiscono per disgregarsi e nel vuoto che si apre si infilano altri soggetti, pronti a cambiare le carte in tavola, a modificare i rapporti precedenti, oppure a ripristinarli sotto altre forme.
Naturalmente per legittimarsi i soggetti individuali o collettivi che in questi frangenti intervengono nello scenario pubblico devono servirsi di elementi mitologici e narrativi, attinti da un repertorio dato, per lo più già familiare ai destinatari della nuova narrazione. Una nuova narrazione, in ogni caso, di per sé non esprime sempre un reale cambiamento, anzi, spesso maschera una sostanziale conservazione o addirittura una reazione delle forze dominanti fino a quel momento. Vanno sempre osservati e valutati i valori di fondo, le cornici concettuali usate, la coerenza tra parole e prassi, gli obiettivi reali al di là di quelli espressi, i referenti economici e sociali.
In questi anni, in giro per l’Europa ed anche in Italia e in Sardegna, stiamo assistendo a una caduta dei punti di riferimento consolidati. Da qualche parte è un fenomeno tutto recente e quasi improvviso, che però affonda le sue radici nell’ultimo quarantennio (diciamo dalla fine dell’”Età dell’oro” di Hobsbawm, quindi grosso modo dalla prima metà degli anni Settanta del secolo scorso). Ma capita che i segnali di questa transizione storica altrove siano più evidenti. L’Italia è uno di questi luoghi, vero laboratorio politico e sociale (quasi sempre in senso deleterio: pensiamo alla “strategia della tensione”, al terrorismo, ala corruzione sistemica, alla criminalità organizzata, allo schiacciamento della sfera politica sugli interessi economici particolari, ecc.).
Ma anche la Sardegna fa la sua parte, in questo senso. Fin dai primissimi anni Settanta del XX secolo, l’isola ha conosciuto situazioni di crisi e una lunga stagione di carenze politiche evidenti. Non che siano mancate letture lucide della realtà (basti pensare alla grande elaborazione intellettuale – quasi tutta extra-accademica – dei vari Antoni Simon Mossa, Mialinu Pira, Bachis Bandinu, Eliseo Spiga, Placido Cherchi), tuttavia all’analisi non è mai seguita una sintesi compiuta. Allo sforzo di comprensione dei processi in corso non si è associato un altrettanto lucido tentativo di risolverli in termini politici. Anzi, si può dire che tutto l’apparato di potere sardo (economico, politico e accademico) abbia lavorato a negare la portata dei problemi e a evitare di risolverli, preferendo una costante manipolazione dell’opinine pubblica e un utilizzo dei ruoli decisionali in termini di mantenimento dello status quo, svolgendo fino in fondo, dunque, il proprio ruolo di intermediazione con i veri centri di potere, tutti esterni, cui questo blocco storico dominante sull’isola ha sempre dovuto rispondere per la propria legittimazione.
Oggi la crisi è più evidente e investe con maggior forza le vite delle persone e delle comunità, cosicché è più difficile far valere gli stessi mezzi del recente passato per tenere a bada gli umori diffusi. Non è più tempo di mezzi ordinari e anche la richiesta che nasce dal profondo delle varie collettività si fa più forte. Laddove ci sia un tessuto sociale, culturale e politico più strutturato e solido i processi si traducono in fenomeni che rientrano in qualche modo in una cornice narrativa ordinaria (almeno in apparenza). Le formazioni sociali tengono meglio, la coesione interna alle comunità garantisce una transizione meno problematica (relativamente, s’intende). Dove invece manchino strutture sociali e culturali forti (è il caso dell’Italia) la transizione è più disordinata e traumatica e può dare adito a soluzioni di tipo conflittuale, violento, e poi a normalizzazioni altrettanto dolorose (l’esempio del fascismo è il più didascalico). L’Italia del resto è un paese smemorato, che non ha mai fatto i conti con la sua storia, e dunque è destinata a ricadere nelle stesse brutture (a differenza di altri contesti, in cui dalla storia si è saputo imparare qualcosa, vedi Germania).
In Sardegna, alla debolezza economica e sociale a cui siamo stati destinati fin dai tempi della Restaurazione post-rivoluzionaria (duecento anni fa), si somma una profonda debolezza culturale e una coesione interna della nostra collettività costatemente minata e sabotata da chi ha interesse a dominare la situazione senza dover rendere conto ad altri che non siano i propri padroni e/o garanti esterni. In questa situazione generalizzata è estremamente facile che prendano piede componenti sociali di natura reazionaria o violenta o comunque anti-emancipativa, presentandosi però come soluzione alla crisi e come risposta forte, popolare, liberatoria ai problemi con cui una popolazione abituata per almeno due generazioni a un certo grado di benessere consumistico si è trovata a fare i conti quasi all’improvviso.
Perciò, un po’ dovunque, assistiamo al moltiplicarsi di forze di tipo rivendicazionista, nazionalista, populista che adottano retoriche ribelliste, individuano obiettivi seducenti e creano odiosi capri espiatori da abbattere. Pensiamo alle varie congreghe anti-signoraggio, ai gruppi più o meno informali che osteggiano l’Europa (sic!) prendendosela con un facile bersaglio come l’euro e le banche, ai razzisti di ogni latitudine e longitudine, ai complottisti internettiani, agli odiatori della politica tout court (che in Italia ha trovato l’efficace etichetta della Casta a suggellarne lo stigma da nemico numero uno). Varie sigle incarnano queste pulsioni. A volte si tratta di formazioni apertamente fasciste o parafasciste, a volte si dichiarano di ispirazione rossobruna, non mancano i nazionalisti (come gli improbabili “indipendentisti” inglesi), spesso non si identificano con alcuna posizione ideologica dichiarata ma anzi rivendicano una equidistanza tra destra e sinistra (pensiamo, in Italia, al caso Movimento 5 stelle). Anche l’indipendentismo e il rivendicazionismo di stampo etnico o localistico sono una facile copertura per questo genere di pulsioni: un esempio clamoroso – anche per il suo successo – è la Lega Nord, sempre in Italia non a caso. In realtà le connotazioni politiche di queste organizzazioni e gruppi informali emergono molto facilmente alla prova dei fatti, quando si tratta di esprimersi su questioni concrete o su problemi reali: razzismo più o meno esplicito, chiusiura culturale, violenza (a volte solo verbale, a volte anche fisica), ostilità per i centri di potere istituzionalizzato (a cui però si strizza l’occhio e si tiene bordone, se capita), sostanziale funzione di normalizzazione e di mantenimento del controllo sociale.
In Sardegna non siamo esenti da questo fenomeno. Anche una parte sia pur minoritaria del variegato movimento indipendentista ne è vittima (o complice). Ne è caratterizzato fortemente il movimento per la Zona Franca (una sorta di succedaneo depotenziato, manipolato e demagogico dell’indipendentismo). Inevitabilmente ne è pesantemente infiltrato il Mov. 5 stelle sardo. Gli stessi esponenti del centrodestra italiano in Sardegna, a corto di credibilità e risorse politiche, cavalcano quest’onda, incuranti del proprio ruolo istituzionale e dei danni che stanno provocando, a vario livello.
Il problema è che all’analfabetismo funzionale di una gran parte della popolazione corrisponde un altrettanto forte analfabetismo politico. Maggiore è questa lacuna culturale, maggiori sono i rischi che populismi e ricette semplicistiche mettano radici. La complicità di grossi centri di interesse (pensiamo all’accaparramento di suolo fertile, alla gestione dei beni comuni come l’acqua e l’energia, agli investimenti immobiliari) e dei mass media, che spesso ne dipendono, favorisce la visibilità e il successo delle organizzazioni più o meno formalizzate che impersonano il fenomeno. In Sardegna esso ha la particolare caratteristica di risultare un ottimo espediente contro la montante consapevolezza dell’inaccettabilità della nostra condizione di dipendenza. Proprio sull’isola dunque la funzione normalizzatrice di queste derive politiche si mostra in tutta la sua evidenza.
L’antidoto di lunga durata sarebbe ovviamente un grande sforzo educativo e pedagogico, un investimento massiccio in cultura, in istruzione, in elementi aggreganti ed emancipativi. Sul breve periodo bisogna invece prendere prima di tutto coscienza del pericolo e poi rispondere con la proposta di una buona politica. Non con l’anti-politica, gli allarmismi, le chiamate alle armi (retoriche o meno che siano). Semplicemente una buona, responsabile e costruttiva politica, fatta di proposte serie, di analisi attente ma anche di soluzioni, di comprensione dei fenomeni, di disinteresse personale nella sfera pubblica, di ricerca di una via per l’abbattimento dei vincoli sociali, delle diseguaglianze, dei comportamenti rapaci verso gli altri esseri umani e verso l’ecosistema. Una politica che si opponga alla dipendenza e alla subalternità ma non in termini ideologici e omologanti, bensì dinamici, nel rispetto delle diversità e secondo il principio di responsabilità.
Se una tale politica non troverà il modo di farsi egemone, di conquistare spazi culturali e istituzionali, il pericolo di una accelerazione della nostra crisi sarà molto concreto. Le ricette facilone e populiste che ci vengono quotidianamente propinate non saranno la soluzione di alcun problema, bensì la causa del nostro declino definitivo. Non è un destino auspicabile. Né per la Sardegna, né per nessun altro.