Aleggiano due fraintendimenti o mistificazioni (a seconda di come li si consideri) nello scenario politico e mediatico sardo. Riguardano in particolare l’ambito indipendentista, ma non solo.
Il primo fraintendimento attiene all’estensione di quest’ambito politico medesimo e alla sua capacità/possibilità attrattiva, ai suoi obiettivi e ai suoi metodi. Secondo alcuni militanti esiste un orizzonte politico e ideologico indipendentista fondamentalmente omogeneo, la cui frammentazione attuale dipenderebbe dalla colpa o dal dolo di qualche leader o di qualche organizzazione specifica. Per chi assume questa posizione, esiste una contrapposizione netta e insanabile tra gli indipendentisti e “gli altri”, variamente denominati. La nettezza non è data dalla diversità delle scelte di fondo, dalla discordanza degli obiettivi pragmatici o dei valori, ma da un’appartenenza antropologica: o sei indipendentista o non lo sei, senza possibilità di incontro. Si mettono insieme in questo giudizio sia le singole persone, sia le articolazioni informali della nostra società, sia le organizzazioni politiche, in un calderone semplificatorio tendenzialmente nazionalista e di destra. Nazionalista e di destra, perché incline a negare l’eterogeneità e la complessità intrinseca della nostra società, della collettività storica sarda, assunta come un monolite minacciato da nemici esterni (lo stato italiano colonizzatore) attraverso i suoi agenti sull’isola (che dunque sono traditori o rinnegati). Tale visione manichea finisce in realtà per avvantaggiare lo status quo, dato che privilegia il proprio bisogno di autoriconoscimento (noi siamo indipendentisti) rispetto agli obiettivi storici pure dichiarati (l’indipendenza della Sardegna): pur di esistere in quanto indipendentisti, sembra di poter arguire, è sacrificabile l’indipendenza stessa. Ovviamente questo è un esito paradossale e come tale non è ammesso da chi ne è tacito portatore, spesso perché non ne è consapevole. Tuttavia è un esito inevitabile, se si sposta un processo storico come quello dell’autodeterminazione dei sardi dall’ambito pragmatico a quello delle categorizzazioni antropologiche o ideologiche. Così, coerentemente con le premesse, tale posizione politica rifiuta l’apertura di un dialogo e ancora di più di una collaborazione politica con tutti quei sardi che – provenendo da percorsi diversi – ammettono la rilevanza della questione dell’autodeterminazione e scelgono di contribuire a un percorso in tal senso. È insomma un rifiuto di aprire il processo di autodeterminazione a coloro che ne devono essere i soggetti agenti, oltre che i destinatari: i sardi stessi. Un errore politico non da poco.
L’altra mistificazione (qui forse tale definizione è più corretta) riguarda invece il senso e la scelta dei destinatari di tale apertura politica. Non aiuta, in questo caso, la fantasia terminologica mostrata da chi ha interesse a mantenere intatti certi assetti di potere e certe modalità di formazione del consenso, pur presentandosi come innovatore, magari anche radicale. Di qui il fiorire di eufemismi o neologismi (il principale dei quali è “sovranismo”), atti a favorire non tanto una inclusione di fasce sociali e di forze vive della nostra collettività in un percorso emancipativo, quanto invece la propria cooptazione nei ranghi dei centri di potere che hanno dominato fin qui la situazione. Per questo tale narrazione ha come interlocutori prevalentemente i partiti italiani in Sardegna, ossia i depositari dello status quo. Status quo che non si vuole sovvertire ma semplicemente contribuire a gestire. Un’operazione trasformista, che a parole si presenta come di rottura, ma di fatto è tesa a perpetuare i rapporti sociali e culturali esistenti, semplicemente sostituendosi in tutto o in parte al personale politico espresso dal blocco storico dominante.
Per decostruire le false narrazioni che stanno alla base di tali equivoci (e dunque scongiurarne gli effetti storici più deleteri) bisogna andare a vedere quali obiettivi dissimulino, di quali rapporti sociali e di quali dinamiche culturali siano promotori. L’autoinganno, in questo senso, non è meno pericoloso dell’inganno altrui. L’uso disinvolto da un lato e sclerotico dall’altro di parole d’ordine senza referente concreto è un sintomo chiaro di inadeguatezza politica. Inadeguatezza che sconfina nella inutilità, se non nella dannosità.
La necessità storica dell’emancipazione collettiva dei sardi non può da un lato negare la dialettica interna e la complessità intrinseca della nostra società, né da un altro lato i legami della nostra classe dominante con il sistema di potere italiano e internazionale (magari, per proporsi come nuovo intermediario). Non può nemmeno istituire discriminazioni e diritti di primogenitura nel percorso di autodeterminazione. Il percorso deve essere aperto e ospitale per chiunque vi creda e vi si voglia cimentare, quale che sia la propria provenienza politica e/o geografica. Beninteso, in quanto cittadini e formazioni sociali spontanee, non in quanto partiti organizzati con sede e baricentro politico posti altrove.
L’equilibrio è difficile, da trovare e da mantenere. Ma nella fase di transizione in cui ci troviamo la bussola devono essere i valori, i comportamenti e gli obiettivi. La coerenza tra ciò che si professa e ciò che si fa. Il senso etico dell’agire politico. Lo sguardo rivolto sempre verso gli altri e non ossessivamente su se stessi. Ci vuole una buona dose di onestà intellettuale e politica per barcamenarsi tra spinte opposte e comunque distruttive. E ci vuole quella che una nostra antica legislatrice chiamava la “virtù dell’amore” per fare le cose con senso di dedizione a qualcosa che vada oltre le nostre singole persone e le nostre convenienze individuali immediate. L’ottimismo della volontà suggerisce di confidare nella larga presenza di tale virtù, presso i sardi, e di lavorare affinché emerga e faccia massa critica, in un tempo ragionevolmente rapido.