Probabilmente a molti sardi avrà fatto piacere la vista della Brigata Sassari in testa al corteo militare del 2 giugno. Una festa della Repubblica italiana davvero fuori luogo e anche alquanto inquietante, se solo si pensa alle condizioni della festeggiata.
Per i sardi la rappresentazione mediatica di ieri ha un sapore ancora più amaro e beffardo. Per l’ennesima volta ci viene propinata la polpetta avvelenata dell’orgoglio identitario e del sacrificio per la grande patria italiana, così benigna da accoglierci nel suo seno nonostante i nostri scarsi meriti. Beffarda, questa messinscena, in quanto volutamente ammiccante al nostro sempiterno complesso da “negri da cortile“, in un momento in cui dovremmo invece essere tutti molto ben concentrati sulla nostra precaria condizione storica, precarietà cui la dipendenza dall’Italia non è affatto estranea.
A poco vale dare risalto al valore e al sacrificio dei sardi per l’Italia medesima, quando poi rimane irrisolta (o in via di peggioramento) la questione delle servitù militari, la carenza di investimenti in infrastrutture, l’esclusione sistematica della Sardegna dalle pianificazioni strategiche in materia di trasporti ed energia o di turismo e cultura. Il che del resto è inevitabile, non solo per la scarsa propensione della classe dominante italiana a curarsi dei beni comuni e farli diventare risorsa di sviluppo diffuso, ma soprattutto perché l’inconciliabilità strutturale degli interessi italiani con quelli sardi è solo resa più evidente, non certo generata, dall’attuale stato di crisi.
Il fatto che molti sardi si lascino incantare così a buon mercato discende anche dalla rimozione forzosa della nostra memoria collettiva, dall’ignoranza profonda della nostra storia e dalle dosi massicce di mitologie posticce fateci ingurgitare nel corso dei decenni. Benché le ferite della Grande Guerra abbiano lasciato cicatrici profonde in buona parte delle famiglie sarde, il mito si è sostituito non solo alla memoria collettiva ma persino al ricordo personale e familiare.
La spiegazione di questo fenomeno (nient’affatto inedito: non siamo speciali nemmeno in questo, non facciamoci illusioni) può risiedere anche nella fatica e nella reticenza con cui i reduci della Brigata Sassari hanno sempre raccontato le proprie vicende, affidando preferibilmente la ricostruzione dei fatti ai bollettini ufficiali e alle rimembranze celebrative. Lo choc e l’orrore che i nostri nonni e bisnonni dovettero sopportare tra 1915 e 1918, tra il Carso, il Piave e l’Altopiano di Asiago, erano indicibili, troppo duri da cancellare ma ancora più duri da rievocare. Chiunque abbia avuto in casa un ex sassarino della Grande Guerra questo lo sa.
Al di là della patina retorica, i fatti furono allora decisamente molto meno esaltanti e poetici di come ci piace ripensarli adesso. Ne sarebbe testimonianza diretta ed efficace il bellissimo romanzo di Emilio Lussu Un anno sull’altipiano, se solo l’autore non avesse scelto di camuffare l’appartenenza dei fanti delle cui gesta e delle cui tragiche sorti raccontava. Tanto che, anche a leggere quelle righe, pure preziose e irrinunciabili, ben pochi sardi riescono ad immedesimarsi, benché parlino del loro stesso sangue. Il libro dunque ha (o meglio, ha avuto) più peso in Italia di quanto ne abbia mai avuto in Sardegna.
La leva obbligatoria che toglieva braccia preziose alle famiglie, il trauma del viaggio in piroscafo e in treno fino al fronte, la demenzialità ottusa della guerra di trincea, la perdita drammatica, violenta, di parenti, amici, compagni, potevano essere compensati solo in scarsa misura dallo spirito di corpo e dal senso di emulazione. La verità è che con le gesta dei sassarini c’entrava ben poco l’eroismo bellico e molto di più la volontà di riportare a casa la pelle o di ottenere la concessione di un pezzo di terra o una buona pensione da medaglia per i familiari. Il sacrificio degli eroici sardi aveva un lato molto materialistico che viene sempre tenuto nascosto. In ogni caso ciò che rendeva accettabile il male era l’idea di combattere per sé, per la propria gente, per la propria terra, non certo per i Savoia né per l’Italia (che i sardi allora, così come in larga parte oggi, non sapevano nemmeno cosa fosse).
L’unico onore che possiamo rendere ai nostri nonni è rispettarne il desiderio di riscatto e il senso della dignità. L’unica cosa che possiamo fare per dare un significato al loro sacrificio è costruire una Sardegna più libera, più forte e più prospera, alla massima distanza possibile da qualsiasi tipo di retorica militaresca e sicuramente su un altro livello rispetto alla nostra identificazione come razza inferiore che può solo sacrificare se stessa per avere diritto ad esistere.