
Archivio storico di Cagliari
Nel giorno in cui ad Arborea l’incontro pubblico tra SARAS, funzionari regionali e cittadini può sancire una svolta importante nella scelta dei nostri modelli economici, merita di essere evocato un altro aspetto della questione. Non si tratta in questo caso di stabilire quali siano i paradigmi produttivi e decisionali in ambito industriale ed energetico, bensì di prendere coscienza della rilevanza strategica che rivestono i beni culturali e assumere una posizione conseguente.
Di questi giorni è la notizia della proposta di riforma degli archivi statali in fase di discussione presso il ministero competente, a Roma. Se la riforma fosse approvata e resa operativa così com’è, secondo quanto si apprende, l’archivio storico (statale) di Cagliari, antico di quasi sette secoli, subirebbe un declassamento amministrativo che di fatto ne comprometterebbe la funzionalità. Stiamo parlando di un taglio rilevante nei fondi che ne assicurano l’apertura e la gestione. Per l’Italia, insomma, l’archivio storico di Cagliari non ha una rilevanza tale da meritare una cura speciale, come invece meritano altri archivi sul territorio italiano.
La reazione preoccupata degli operatori culturali e del personale coinvolto è scontata ed anche comprensibile. Tuttavia mi pare molto debole la soluzione che da questa preoccupazione discende: perorare la causa dell’archivio cagliaritano affinché rimanga nel novero degli archivi di stato, dunque direttamente curato e finanziato dal governo italiano.
È vero che – da un punto di vista pragmatico e realistico – nell’immediato questa soluzione sembra la migliore possibile ed anche la più realizzabile. Ma essa pecca in modo irrimediabile sia dal punto di vista della cornice generale in cui si inserisce, sia in realtà proprio dal punto di vista pragmatico.
Si parte sempre dall’assunto – continuamente smentito ma continuamente reiterato – secondo cui ciò che è strategicamente rilevante per la Sardegna lo è per lo stato italiano e viceversa. Come nel caso delle infrastrutture, dell’energia, del turismo, dell’agroalimentare, anche nel campo dei beni culturali tale aspettativa si rivela per quello che è: il frutto di un paralogismo, di un ragionamento errato nelle premesse da cui dunque discendono conclusioni altrettanto errate (e dannose). Si tratta di evidenze oggettive, non di costrutti retorici di natura ideologica. Basta guardare e si vedono le cose per quelle che sono.
Così, pensare che l’Italia possa avere un interesse strategico nel mantenere e valorizzare il patrimonio archivistico sardo è una pia illusione. Così come presumere che lo stato italiano abbia una qualsivoglia convenienza a mantenere a un livello di efficacia e di rispondenza alle nostre necessità strutturali l’istruzione pubblica e l’università in Sardegna, o a valorizzare compiutamente il settore dei beni storico-archeologici. E questo anche facendo la tara delle carenze profonde, di natura culturale e politica, che da sempre caratterizzano la cura di questi ambiti in Italia. Se ci aggiungiamo che il periodo è decisamente di vacche magre, appare in tutta la sua prevedibilità il sacrificio di ciò che è sardo a vantaggio di ciò che è ben inserito (geograficamente, storicamente e culturalmente) nel continuum italiano.
La vera carenza, in questo come in altri campi, è tutta nostra. Constatare a quale grado di decadenza siano gli enti culturali sardi, o che sorte infausta colpisce il nostro patrimonio storico e artistico, dovrebbe portare a farcene carico, ad assumerci la responsabilità pubblica della loro gestione e della loro valorizzazione. Si tratta di fattori dalla enorme rilevanza economica, non solo di ambiti preziosi dal punto di vista della memoria collettiva. Solo chi è abituato a guardare il mondo attraverso la cornice deformante della politica culturale italiana può seriamente pensare che investire in cultura, in archivi, in biblioteche, musei, aree archeologiche, in storia e arte, sia una perdita netta di risorse e non un efficace impiego del denaro dei cittadini.
Ciò che andrebbe fatto è acquisire al più presto tutti i settori strategici della formazione e della valorizzazione culturale già nella vigenza dell’ordinamento giuridico attuale, così come si è fatto per la sanità e (di fatto ma non di diritto) per le strade. È necessario sottrarre allo stato centrale potestà, competenze e ultima parola in tali ambiti, che in fondo attengono alla nostra sopravvivenza come collettività storica e alla qualità della nostra vita. Le risorse ci sono o si possono reperire (dal taglio netto degli sprechi e delle clientele nella spesa pubblica, all’accesso efficace e pianificato ai fondi europei, al coinvolgimento di investitori privati). Le formule e le soluzioni sono da tempo operative in molte aree del mondo, basterebbe studiare e decidere a lume di ragione.
Ma per prendere coscienza di questo ed agire di conseguenza è necessario che vi sia una visione di noi stessi diversa da quella dominante, e che ci percepiamo, dentro il flusso della storia umana e dentro lo spazio geografico in cui esistiamo, come un soggetto pienamente responsabile di se stesso. È la politica a doversi fare carico di tutto ciò. Esattamente com’è la politica a dover dare risposte alla popolazione di Arborea nel suo confronto con la SARAS, o alla popolazione del Montiferru nel suo confronto con chi intende fare lì prospezioni geotermiche, o alle altre comunità sarde, lasciate in balia di speculazioni, saccheggi, privazioni di risorse proprie. In queste occasioni i sardi si trovano sistematicamente senza voce in capitolo e senza uno sguardo generale, una scelta di campo strategica, da far valere. E la colpa è della nostra politica e, alla fin fine, di tutti noi. Perciò è esattamente là il nodo da sciogliere. E dobbiamo scioglierlo noi, finché siamo in tempo.