Raccontarsi, essere raccontati, essere

Do un passaggio a una signora marocchina. Si lamenta del fatto che nessuno si sia nemmeno fermato a sentire cosa volesse, lì allo stop, lungo una strada di raccordo con la statale, tra Pergine e Trento. Attribuisce la circostanza al razzismo degli italiani (in generale), poi a quello dei trentini in particolare. Io spiego che i trentini non sono razzisti. Sono un po’ chiusi, diffidenti, riservati. Ma razzisti no, è un’altra cosa. Su questo concorda, ma poco convinta. Si parla di differenze climatiche (non solo in senso meteorologico) e di nostalgia. Io ammetto che, da sardo, pur stando in Trentino da dieci anni, senza alcunché di cui lamentarmi, la nostalgia la sento anche io.

A questo punto, la conversazione ha uno scarto strano. La rivelazione della mia provenienza rassicura la mia passeggera, la fa sentire improvvisamente un po’ a casa. Per lei un sardo è qualcosa di simile a un parente, a un vicino di casa, qualcuno che possa capire precisamente cosa sente. A una signora marocchina a Trento il fatto di incontrare un sardo dà un senso di familiarità. Io, senza sapere bene perché, la trovo una cosa bella.

Questo episodio mi fa pensare alle volte (tante) in cui qualche mio interlocutore norditaliano mi ha detto che i sardi sono brava gente, seria e onesta, aggiungendo che i sardi “non sono meridionali” (eufemismo per “terroni”). Il tutto, con l’intento di rassicurarmi, di farmi una sorta di complimento.

Io non ho mai capito perché dovrei trovare consolante una aggettivazione degna di una categoria servile (“tutto sommato siete accettabili, per essere dei subumani”) o disdicevole l’essere accomunato agli italiani del sud (“quelli sporcano, fanno chiasso, fanno di testa loro, voi no”).

È vero che i sardi sono diversi dai napoletani, dai siciliani e dai pugliesi, ma da qui a farcene un motivo di vanto ce ne corre. Così come non è un vanto essere diversi dagli italiani del nord (e del centro). È una banale constatazione, del tutto neutra. Non c’è nulla di edificante nell’essere presi in mezzo alle beghe razziste o ai pregiudizi campanilistici italiani. Ci bastano già i nostri, per quello.

Poi penso anche a come siamo raccontati dai mass media italiani. Ricordo alcuni episodi. Per esempio, la puntata di un noto programma politico televisivo RAI in cui era ospite Renato Soru, al tempo presidente della Regione. Con lui c’era la solita gentaglia, tra cui Pierferdinando Casini. Non ricordo di cosa parlarono, ma ricordo bene la degnazione e l’accondiscendenza paternalistica con cui un personaggio obiettivamente da poco come Casini rispondeva (quasi mai direttamente) a Soru, da colonizzatore a colonizzato, da portatore di civiltà a subalterno acculturato.

Ricordo alcune campagne pubblicitarie, in cui per un motivo o per l’altro è presente una caratterizzazione del sardo, di solito mal riuscita, forzata, vacua, spesso implicitamente razzista.

Ricordo articoli di grandi quotidiani italiani su questioni sarde di attualità, infarciti di stupore verso l’esotica estraneità di una terra pure per definizione italiana, quando non di cliché da antropologia positivista ottocentesca. E mi fermo qui.

Il paragone tra ciò che si racconta di noi a livello mainstream italiano (ossia il livello a cui si crea immaginario collettivo e si costituisce l’egemonia culturale) e ciò che ci raccontiamo noi stessi sul nostro conto genera spesso in me una sensazione di disagio. Credo avvenga a tanti sardi.

I nostri mass media, benché non veicolino la stessa narrazione veicolata dai loro corrispettivi italiani, tuttavia in qualche modo ne tengono conto, ne sono condizionati. Difficilmente la mettono in discussione. Se proprio devono, chiamano in causa qualche episodio specifico, particolarmente disturbante, per stigmatizzarlo, rivendicando il rispetto per il nostro orgoglio ferito (da qualche dichiarazione di questo o quel personaggio celebre o da qualche scelta dello stato centrale, è lo stesso), sempre però con la massima attenzione a non spiegare mai cosa ci sia sotto, mettendo la questione sul piano bassamente emotivo, appiattendo tutto sulla contingenza.

Molti sardi, traendo la maggior parte delle proprie informazioni dal sistema mediatico italiano o sardo di matrice italiana, hanno di sé un’immagine schizofrenica, scissa, irrisolta. Non riescono a far quadrare i conti tra quel che sanno di sé e della propria esistenza materiale, quel che passa per i mass media principali e l’orgoglio dell’appartenenza di cui si sentono obbligati a fare sfoggio.

Non so a quanti sardi farebbe piacere che una signora marocchina si senta emotivamente e culturalmente molto più vicina a loro che a un italiano del nord. Temo anche che a molti sardi farebbe piacere che un italiano del nord li esoneri dalla comunanza culturale con gli italiani del sud, salvo poi percepirsi da sé come italiani del sud per un sacco di aspetti (arretratezza, povertà, disfunzioni amministrative, incuria, ecc. ecc.), ovviamente mai positivi. E questo, senza avere la benché minima idea di cosa sia l’Italia, sia del nord sia del sud, né di come siamo percepiti noi dagli italiani (del nord e del sud).

Gli italiani danno per scontato che la Sardegna sia in tutto e per tutto una terra italiana. Tuttavia sono rarissimi coloro che negherebbero le differenze evidenti tra sardi e italiani e tra Sardegna e Italia. Anche qui, un atteggiamento ambiguo, confuso, fondato molto più su quel che non si sa che su quel che si sa.

La scissione interiore, l’irresolubilità dell’equazione sardi=italiani, il non sapere mai se guardarci con occhi altrui o con i nostri, la labilità di appigli univoci, non opachi, nei nostri processi di identificazione, sono nostre caratteristiche diffuse e profonde. Il non renderci conto del problema fa parte del problema.

Le difficoltà materiali tra cui ci dibattiamo ne sono un effetto diretto. La responsabilità dei nostri intellettuali, della nostra università e dei nostri mass media nel mancato reperimento di soluzioni è enorme e lampante.

Questo è uno dei nodi fondamentali da sciogliere, se vogliamo avere una prospettiva diversa dall’estinzione come collettività storica. È un nodo che dovremo sciogliere insieme, nella relazione e nel confronto, nel riconoscimento reciproco, specie laddove non si concordi su altre cose, dove non ci sia la facile complicità data dalla condivisione di opinioni e scelte, o da legami di sangue e/o di interesse.

Un nodo da sciogliere al di fuori dei discorsi etnocentrici o nazionalisti, dei giochi di interesse settoriale, delle convenienze private immediate e momentanee. Contro i luoghi comuni debilitanti o megalomani (che è lo stesso), affrancandoci dalla sudditanza verso i dispositivi manipolatori dell’egemonia culturale imperante. Dobbiamo imparare ad essere liberi, insomma, non per una motivazione utilitaristica del momento, ma per la libertà stessa.