Si fa un gran parlare di suicidi in Sardegna, attribuiti – spesso frettolosamente – a cause economiche. Non si approfondisce invece mai l’analisi dei motivi strutturali della crisi. Il sensazionalismo giornalistico, buono per vendere qualche copia in più o alzare l’audience del tiggì della sera, non si nutre di informazioni complesse, né ama solleticare lo spirito critico di lettori e telespettatori, ma caso mai il loro lato emotivo. Sarebbe opportuno compensare questa tendenza della società dello spettacolo (di cui l’infotainment giornalistico è piena e funzionale realizzazione) con dosi massicce e didascaliche di approfondimenti seri, documentati e obiettivi, eliminando dalla scena il ricorso a capi espiatori sfuggenti, sempre esterni e rigorosamente deresponsabilizzanti (le banche, le tasse, il signoraggio, la Casta, le scie chimiche, ecc.).
Faccio senz’altro mie le osservazioni spese da Michela Murgia sul gossip necrofilo a proposito dei recenti suicidi e il ragionamento politico di Claudia Zuncheddu sui motivi sistemici del nostro disagio sociale (e culturale). È verissimo che offrire letture semplicistiche di situazioni complesse ne inibisce la comprensione, anziché agevolarla. Ed è altrettanto vero che a una crisi sistemica non possono essere date risposte individuali, di parte o estemporanee, ma debba invece essere la politica a farsene carico, in termini progettuali e di ampio respiro.
Il problema è che la Sardegna è poco attrezzata alla bisogna. Non per una sua debolezza congenita, ma per via dell’apparato di dominio che ne controlla le istituzioni, le risorse, la comunicazione. La politica sarda vivacchia di tatticismi e soluzioni tampone, buone quasi solo come trovate propagandistiche (la legge finanziaria di Cappellacci ora in discussione in consiglio regionale ne è un esempio lampante). Le forze politiche che dominano la scena sono espressione non di interessi generali, di visioni ideali o di prospettive storiche definite, bensì di centri di interesse specifici, quasi sempre tributari e strumentali verso grumi di potere esterni, comunque mai limpidi. È la caratteristica della politica sarda degli ultimi duecento anni, lo sappiamo. Un blocco storico a cui la dipendenza da un sistema socio-economico e culturale altro fornisce le condizioni per la propria esistenza.
Nella vigenza del sistema economico attuale, fondato sulla brutale logica del capitale, ormai senza mediazioni politiche di sorta, la Sardegna – in questo come in altre cose pioniera indiscussa – è destinata ad essere sempre più vaso di coccio tra vasi di ferro (o tra vasi di coccio più grandi e robusti). Senza una assunzione di responsabilità collettiva, a cui corrisponda una prospettiva politica diversa, al di là dei diversi riferimenti teorici, non c’è modo di superare questo stallo mortifero. Sia che si aspiri a rovesciare il sistema capitalista fin dalle sue fondamenta, in termini rivoluzionari, sia che si ritenga più proficuo limitarsi a controbilanciarne gli effetti più distruttivi, la scelta da fare è riappropriarsi della sfera politica e porla al di sopra di quella produttiva. La mistificante tesi della fine della storia, figlia delle teorie neoliberiste nonché base teorica per la globalizzazione rapace di questi ultimi vent’anni, va ricacciata prepotetemente nel novero dei miti tossici. La famosa asserzione della poco rimpianta Margaret Thatcher, secondo cui la società non esiste ma esistono solo gli individui e le famiglie, oltre a denunciare una visione mafiosa (in senso puntuale, non metaforico), è la sintesi retorica di un’azione politica reale, storica, che ha avuto e ha pesantissime conseguenze a tutti i livelli della nostra esistenza materiale.
Dal rifiuto consapevole di questa visione deve ripartire la riappropriazione degli elementi costitutivi della nostra vita. Che ha senso e può svolgersi in termini non traumatici, non debilitanti, solo dentro una sfera collettiva. Ci siamo evoluti come specie sociale e gregaria. Il nostro successo sul pianeta è dovuto alla prevalenza dell’intelligenza comunitaria e dell’interesse collettivo sui desideri individuali. La centralità dell’individuo stabilita dalla egemonia culturale capitalista è un nonsenso storico e biologico.
Naturalmente questo ragionamento deve rimanere ancorato alla realtà concreta. L’astrattismo di cui ha sempre sofferto l’internazionalismo di matrice socialista e comunista, ma anche cattolica, ha sempre prodotto grandi equivoci e innumerevoli fallimenti. Ancora oggi vediamo che in Sardegna tante persone di buona volontà si sentono coinvolte dal destino della Palestina, dalla sorte dei Saharwi o dalle vicende del Tibet, ma non hanno occhi né orecchie né capacità di giudizio sufficienti per dedicarsi con lo stesso trasporto al contesto materiale, culturale e politico in cui vivono.
In questo non siamo aiutati dai mass media, nemmeno dai commentatori meno legati ai centri di potere dominanti (posto che ne esistano). Le analisi della nostra realtà (fatte salve poche e preziose eccezioni) sono assolutamente deficitarie. Il livello dell’informazione politica si ferma al pettegolezzo, estorto magari origliando le voci del Palazzo stesso, quindi, sostanzialmente in funzione degli stessi giochi di interessi che si dovrebbero tenere d’occhio e rendere comprensibili al pubblico. Il tutto, troppo spesso veicolato attraverso cornici concettuali mutuate pari pari dalla comunicazione televisiva italiana. Tanto che alla maggioranza dei sardi sfuggono le dinamiche in corso, quelle in cui essi stessi sono immersi e da cui sono condizionati, senza averne che un vago sentore.
Non è facile spezzare questo apparato egemonico, depotenziarne i dispositivi di manipolzione culturale e sociale. Eppure è uno dei compiti di cui deve farsi carico chiunque intenda contribuire alla nostra emancipazione storica, senza avere paura di prendersi responsabilità anche gravose, comprese quelle politiche. Non ci sono altre soluzioni per evitare la nostra estinzione come collettività storica. E non abbiamo nemmeno molto tempo a disposizione per rendercene conto.