Tra le tante cose che succedono, sembrerà di ben poca importanza l’incontro chiesto dai parlamentari sardi al ministro dell’Interno, su iniziativa del deputato PD nonché docente universitario di lungo corso Guido Melis. Scopo dell’abboccamento, sensibilizzare il ministro (o la ministra che dir si voglia) sul problema degli attentati intimidatori ai sindaci in Sardegna.
Cito dall’articolo della Nuova (per inciso, giornale con cui lo stesso Melis collabora):
«Un dossier completo degli attentati agli amministratori sardi ancora non esiste – sostiene l’esponente del Pd [Guido Melis] – Si calcolano in un numero di circa 80 in media ogni anno, apparentemente slegati l’uno dall’altro per località, circostanze, motivazioni e modalità, ma in realtà uniti da un filo comune, riconducibile a quella che una sociologia ormai vecchia di quasi 40 anni ha definito come l’ “anomìa” della Sardegna di estrazione agropastorale, cioè il suo vivere in sostanziale estraneità rispetto all’ordinamento dello Stato e alle sue leggi». « Quel che domina è una logica individualistica per la quale l’atto oggettivo assunto dall’amministratore in nome dell’interesse pubblico viene interpretato come rivolto, per inimicizia o antipatia privata, a colpire persone “nemiche”, sia per ragioni familiari che personali, oppure a favorire persone “amiche”, per gli stessi motivi», rileva ancora Melis.
Questa la cronaca. Non sappiamo come sia andato l’incontro, né quale sia stata la risposta ministeriale. D’altro canto è vero che le intimidazioni rivolte alle amministrazioni locali sono una costante nella storia recente dell’Isola. È un fenomeno grave e come tale andrebbe affrontato in modo sistemico e a vari livelli di intervento, a partire da quello educativo per arrivare a quello più propriamente politico.
Il punto è che la questione, al solito, è stata pensata e presentata in termini fondamentalmente errati e nella sede sbagliata. La circostanza è significativa perché ci spiega molto di come la nostra classe dominante si occupi dei problemi della Sardegna. Vediamo per punti gli aspetti problematici di quest’approccio.
1) L’analisi del fenomeno si basa non su uno studio e una elaborazione di modelli e una verifica sul campo (“un dossier completo ancora non esiste”), ma solo su tesi poste come assiomi non bisognosi di verifica, elementi di una narrazione che lo stesso Melis definisce “vecchia”. Nondimeno viene riproposta sic et simpliciter, senza nemmeno curarsi dei cambiamenti intercorsi negli ultimi quarant’anni (e negli ultimi dieci/quindici soprattutto), evocando la cultura “agropastorale” e l’individualismo, i soliti luoghi comuni su cui si basa da centocinquant’anni qualsiasi approccio ai problemi della Sardegna, con esiti che sono sotto i nostri occhi. Manca insomma qualsiasi segnale di voler capire realmente il fenomeno e di volerlo inquadrare nelle dinamiche contemporanee.
2) Rivolgersi direttamente al ministero dell’Interno segnala una visione del problema tutta schiacciata sulla risposta repressiva, a livello di ordine pubblico, e una inadeguatezza politica imbarazzante. Anziché lavorare a uno studio del problema e alla sua risoluzione chiamando in causa le risorse sociali e culturali, le agenzie formative e la politica espresse dal territorio, cercando risposte condivise e coordinate nei luoghi interessati e con le comunità coinvolte, si passa direttamente alla richiesta di aiuto al sovrano, da semplici sudditi. In epoca spagnola a simili richieste i re dell’impero iberico, di cui eravamo parte, rispondevano seccati che i sardi dovevano risolversi da sé le loro magagne, avendone piena facoltà e disponendo di un loro proprio ordinamento. A quanto pare le cose da allora sono peggiorate.
3) Nel modo diffuso in cui, in politica e sui mass media, si presentano le nostre questioni all’esterno c’è sempre una forma abbastanza evidente di autorazzismo e di autocommiserazione. L’applicazione sistematica del nostro mito identitario fallimentare è un riflesso ormai spontaneo, a volte più forte delle stesse buone intenzioni di chi lo ripropone. Tale approccio arriva a trasformarsi in una profezia che si autoavvera: noi sardi siamo una collettività minus habens incapace di badare a se stessa e priva della luce della civiltà, dunque non possiamo risolvere da noi alcun problema. E i problemi non si risolvono, infatti. Chiaramente, a chi gode di una posizione privilegiata questo processo di identificazione così menomato e debilitante fa comodo.
Come al solito, dunque, la nostra classe politica, espressione del blocco storico che domina la Sardegna da due secoli, non sa né intende assumersi alcuna responsabilità, limitandosi – secondo quanto impone il proprio ruolo di intermediazione e di contollo per conto terzi – a investire della cosa il centro di potere da cui dipende. Una forma di deresponsabilizzazione e di affidamento subalterno a un’autorità esterna che inevitabilmente – come è sempre successo – non consentirà di risolvere nulla e nemmeno di capire qualcosa del problema sollevato.
Nel momento in cui i sardi cominciano a dare segnali espliciti alle forze dominanti, come dimostra la scarsissima affluenza alle “primarie” del centrosinistra italiano, la nostra classe politica si attesta da par suo su posizioni di retroguardia, più a tutela delle posizioni di potere e degli interessi strutturati che in termini proattivi e costruttivi, sempre con lo sguardo strabico di chi non riesce a guardare a se stesso senza contemporaneamente guardare al proprio padrone lontano, come se il centro del nostro orizzonte fosse sempre altrove.
Questo è un grosso nodo storico, di natura culturale e politica ma con nessi profondi al livello economico e sociale. La mancanza di una vera classe dirigente nazionale è una delle zavorre più pesanti che le nostre vicende storiche degli ultimi duecento anni ci hanno consegnato. Sostituire l’attuale blocco di interessi e di potere che ci ha portato a questa condizione materiale e morale non sarà certo facile ma nondimeno è ineludibile. Dovranno pensarci i sardi stessi, senza scappatoie e senza cercare facili capri espiatori.