La crisi attuale non è iniziata nel 2008, come l’egemonia mediatica ci ha fatto interiorizzare in questi anni, ma tra 1971 e 1973.
Come variamente segnalato da diversi storici e analisti economici (Braudel, Hobsbawm, Arrighi, tra gli altri), in quel giro di anni, o addirittura di mesi, vengono al pettine alcuni nodi decisivi della nostra contemporaneità e si pongono i presupposti per gli sviluppi successivi, quelli in cui siamo immersi adesso.
La denuncia degli accordi di Bretton Woods e l’abbandono della convertibilità in oro del dollaro (amministrazione Nixon, 1971) furono i prodromi della finanziarizzazione incontrollata dell’economia capitalista, con le conseguenze che sappiamo.
Nello stesso periodo (1972) il Club di Roma pubblicava uno studio commissionato a MIT di Boston, basato sulle teorie di Jay W. Forrester e la dinamica dei sistemi, intitolato I limiti dela crescita (erroneamente tradotto in Italia con I limiti dello sviluppo); un’analisi puntuale delle dinamiche in corso a livello globale con previsioni sugli esiti futuri (a certe condizioni): un testo rivelatosi drammaticamente preciso.
Nel 1973, poi, come molti ricorderanno, fu la volta del primo choc petrolifero, dovuto alla decisione dei paesi aderenti all’OPEC di alzare il prezzo del barile di petrolio grezzo.
Si trattò di segnali precisi e abbastanza chiari su dove stesse andando il mondo. Eppure mai segnali così espliciti furono altrettanto mal colti. Una cappa di disinformazione ed enfatizzazione di false priorità coprì la concretezza di uno snodo storico che evidentemente poteva creare problemi politici, sociali e culturali su vasta scala.
Era chiaro, già allora, che la parabola storica del capitale, e con esso della modernità europea come apparato economico, politico e culturale dominante sul mondo, stava imboccando la china discendente.
L’Età dell’oro del secondo dopoguerra era finita e non era probabile che tornasse a presentarsi in tempi rapidi (in termini umani). Ciò che ne seguì fu una corsa all’accaparramento delle risorse e dei vantaggi da parte di chi poteva controllare e gestire le informazioni e i capitali.
La polarizzazione sociale ed economica che ha colpito tutte le società capitaliste da quegli anni a oggi non ha fatto altro che accentuarsi (una frazione minoritaria della popolazione controlla la maggior parte della ricchezza globale), trovando giustificazioni teoriche e politiche di vario genere, imposte da una nuova egemonia culturale, che poi è quella che domina tutt’oggi.
Alla bisogna vennero rispolverate, rinfrescandole con un po’ di matematica contemporanea, alcune teorie economiche del secolo precedente, come reazione al keynesianesimo imperante (feticcio ideologico contro cui fu facile scagliarsi), ma in realtà, più profondamente, avendo come bersaglio l’apparato di diritti, conquiste sociali e costruzioni teoriche che negli ultimi cento anni avevano consentito di opporre al dominio brutale e totalitario della logica del capitale contrappesi sociali e politici efficaci.
D’altra parte le variabili nei sistemi complessi sono molte e nella nostra percezione dei fatti hanno molto peso fattori sovrastrutturali, armamentari mentali, processi intellettivi conservativi che inibiscono la precisa consapevolezza del diverso peso degli avvenimenti e dei processi ad essi sottesi.
Non è stato difficilissimo indorare la pillola amara che una larga fetta dell’umanità, anche dell’umanità privilegiata, da metà anni Settanta del Novecento stava cominciando a ingoiare.
Dato che la storia non procede in modo isotropo (allo stesso modo ovunque), la Sardegna è stata investita dal mutamento di fase in un modo del tutto particolare.
Da un lato le intelligenze più avvertite in quegli anni avevano cominciato ad avvalersi delle acquisizioni teoriche maturate nel periodo precedente, grazie all’accesso di massa quasi subitaneo all’istruzione superiore, per ridefinirsi nel tempo e nello spazio.
D’un tratto era possibile osservarsi attraverso la lente delle scienze sociali più all’avanguardia, vedersi nel momento stesso in cui subivamo gli ultimi esiti di un processo di acculturazione e subordinazione duraturo.
Da un altro lato, in modo dissonante, la Sardegna era investita da una narrazione e da scelte macroscopiche di tipo economico e politico che perpetuavano la sua subalternità acquisita.
Gli stessi intellettuali sardi che imparavano allora a riconoscere i processi in cui eravamo immersi non riuscirono poi a ricondurli a una contro-narrazione efficace e subirono passivamente o comunque con rassegnazione i vari Piani di Rinascita industriali, la militarizzazione, la disarticolazione sociale e culturale. Non ci fu una risposta teorica e politica generalizzata all’altezza del momento.
Ai guasti che una modernità esogena, calata dall’alto e dall’esterno, aveva già prodotto, se ne aggiungevano degli altri, destinati a prolungare la nostra agonia. La stessa agonia che sta finendo di sfibrarci attualmente. È come se a un malato, portato alla debilitazione con dosi continuative di veleno, si fosse somministrata un’ulteriore dose tossica, presentandola come una cura.
Il nostro problema è che dobbiamo affrontare la nostra patologia, arrivata a uno stadio molto avanzato, nel momento in cui le cure scarseggiano e sarebbe necessario trovarne delle altre, mai sperimentate. Quelle del passato o sono inefficaci o sono dannose.
Così, a differenza di altre porzioni dell’umanità, corriamo il rischio di trovarci più poveri e impotenti quando invece sarebbe stato necessario essere in forze e animati da spirito combattivo, per di più in una condizione di dipendenza economica e politica che ci sottrae la piena facoltà di decidere come (re)agire per il nostro bene collettivo.
La situazione dunque è questa. Le vicende che occupano le cronache quotidiane non sono che vaghe manifestazioni di processi profondi e duraturi, per altro facilmente manipolabili da chi controlla l’informazione, e per giunta calate su una popolazione in fase di invecchiamento e di instupidimento (dispersione scolastica e bassissimo tasso di laureati non sono certo fattori di potenziamento del nostro sistema immunitario culturale, sociale ed economico).
Il mutamento di paradigmi necessario, anzi ineludibile, non sarà facile né lo si può attendere dalle forze sociali e politiche che hanno dominato fin qui. La loro posizione è in fase di ridimensionamento, a causa delle dinamiche generali in corso, ma da un lato godono ancora di una grossa rendita di posizione, maturata negli anni, da un altro la loro sostituzione non potrà essere comunque repentina e del tutto indolore.
Nondimeno, è evidente come non ci sia più spazio, in Sardegna più che altrove, per autoinganni o illusioni.
Le forze che animano la nostra struttura sociale e culturale sono in fase di assestamento, ma la creatività propria della nostra specie (anche nella sua variante locale), spinta del resto dalla necessità, è già all’opera. Bisogna che trovino il modo di fare sistema, connettendosi con le reti circostanti, ma costituendosi come soggetto collettivo a sé stante.
Questo è possibile e storicamente non ci è estraneo. È già successo. Tutto sta a far emergere i nuovi paradigmi prima che il disastro sia troppo radicale.
Questo compito spetta a noi che esistiamo adesso. Non è un compito che potremo disinvoltamente scaricare sulle generazioni a seguire.
Sapere come collocarci nel tempo e nello spazio anche in relazione al resto del mondo, con cui è inevitabile interagire, non sarà una condizione sufficiente ma è senz’altro una condizione necessaria. Fuori dai cliché di comodo e squarciando il velo della narrazione malata che ci ha condotto fin qui.