C’è qualcosa di estremamente irritante nel profluvio di polemiche e commenti a proposito del Teatro Lirico di Cagliari e della nomina della nuova sovrintendente. Come si sa, nei giorni scorsi, in virtù delle prerogative del suo ruolo, il sindaco di Cagliari Massimo Zedda ha nominato la nuova dirigente dell’ente lirico cagliaritano, Marcella Crivellenti. Ne sono seguite feroci diatribe, soprattutto da parte dei lavoratori dell’ente e dei sindacati, amplificate da una battaglia politico-mediatica dai toni incandescenti.
Senza entrare nel merito della questione, sui cui contorni e contenuti il materiale abbonda, sui giornali stampati e in Rete, la cosa che colpisce molto è proprio il clamore sollevato dai media sul caso e l’insistenza nel considerarla una faccenda di rilevanza assoluta.
In questo atteggiamento emerge da un lato un certo cagliaricentrismo, che fa ritenere rilevante qualsiasi fatto accada o riguardi Castel di Calari; da un altro lato (rovescio della stessa medaglia) si manifesta tutta la distanza e l’ignoranza di sé di cui soffre una vasta parte degli operatori dell’informazione in Sardegna.
Chiariamo una cosa: il teatro lirico e la lirica in generale vanno benissimo, sono importanti, attengono a un ambito che ormai è parte integrante del patrimonio culturale dell’umanità, come tale di casa pressoché ovunque sul pianeta, dove le condizioni socio-economiche e gli strumementi cognitivi diffusi lo consentano. Nello specifico della Sardegna, si tratta anche di un settore in cui molti sardi hanno trovato la propria forma di espressione creativa e altri una occupazione. I nomi dei cantanti lirici sardi non sono sconosciuti al grande pubblico internazionale e le opere allestite in Sardegna hanno un loro seguito affezionato.
Il problema nasce nella sopravvalutazione della questione e nei giochi di potere che la denotano. La gestione del Teatro Lirico di Cagliari è una grana tra centri di interesse e di potere locali, a loro volta collegati con altri centri di potere extra-sardi, cui fanno riferimento, il tutto condito dal solito familismo amorale. Un pasticco all’italiana in salsa sarda insomma. Pretendere che sia una questione culturale fondamentale per l’intera Sardegna sembra a dir poco eccessivo.
La cultura in Sardegna ha mille facce e mille risvolti. Possediamo un patrimonio di creatività, narrazioni, capacità che si è stratificato nei millenni e ha prodotto a più riprese bellezza e senso, in tutti gli ambiti, dall’architettura, alla pittura, dalla musica alla letteratura. Un patrimonio nostro che con difficoltà riusciamo a condividere col resto dell’umanità. E non per scarso valore intrinseco di quel che la nostra civilizzazione ha prodotto, bensì per ragioni per lo più estranee al patrimonio culturale sardo in quanto tale.
La mentalità che porta a privilegiare un ambito tra i tanti, e possibilmente quello che appare meno nostro, è una mentalità in tutto e per tutto provinciale, da subalterni. Non mi pare che ci sia stato tutto questo accanimento quando, ad esempio, venne bloccato il progetto del museo Betile; progetto discutibile da alcuni punti di vista, sul quale anche io avrei avuto delle obiezioni, ma che comunque rispondeva a una visione di noi stessi meno gretta e frustrata, anzi di respiro decisamente internazionale.
Allo stesso modo non si scatenano campagne giornalistiche per il pessimo stato del nostro patrimonio storico-archeologico (pure unico al mondo) e si sorvola sulla gestione dei musei, sullo stato del sistema bibliotecario, o ancora sul degrado del sistema scolastico e universitario, sulla questione del plurilinguismo. Eppure stiamo parlando di risorse culturali fondamentali, vitali, in termini assoluti, generali ed evidenti.
Non si dovrebbero fare paragoni e mettere ambiti culturali in conflitto tra loro, ma è assurdo ritenere il Teatro Lirico di Cagliari la più importante risorsa culturale della Sardegna e sacrificare sul suo altare qualsiasi altra cosa. La cattiva politica purtroppo, come si vede, alla fine non giova a niente e nessuno. Di sicuro non giova al nostro patrimonio culturale. Ancor più in generale, quel che produce più danni è la nostra incapacità di concepirci come una collettività storica portatrice di una sua civilizzazione, ma al contrario solo come espressione periferica, dialettale, di forme di civilizzazione esterne. La stessa incapacità che ci fa sentire frustrati perché non siamo contemplati nella storia della cultura italiana, dall’arte, alla musica, alla letteratura, anziché rivendicare il valore e la riconoscibilità della cultura prodotta in Sardegna e dai sardi nei secoli e fino al presente.
Come detto più volte, questo è un serio problema con risvolti macroscopici molto materiali, economici, sociali. Non farne una battagia collettiva di ampio respiro è uno dei fallimenti più grandi che le nostre istituzioni e la nostra intellettualità (al solito silente, in attesa degli eventi, fatte salve le solite, esigue, eccezioni) hanno a loro carico.