L’Europa e noi

Si parla molto male dell’Europa, ultimamente, confondendo spesso e volentieri il continente con l’Unione Europea, che è decisamente un’altra cosa. Del resto, lo stesso comitato del premio Nobel per la pace è incorso nel medesimo equivoco non più di pochi giorni or sono, che vogliamo farci? A gettare un’ombra sinistra sull’idea stessa di Europa unita e di Europa tout court ci hanno pensato in questi anni i vari centri di potere che hanno trasformato una necessità storica virtuosa (quella dell’integrazione pacifica e della collaborazione tra i popoli del Vecchio continente) in una trappola burocratica e finanziaria del tutto opaca e spesso incontrollabile, a tratti oppressiva.

Eppure, anche la deriva plutocratica e reazionaria degli apparati di governo della UE non può cancellare del tutto gli altri suoi aspetti politici, culturali e pratici. La libera circolazione nello spazio di Schengen o il progetto Erasmus non sono solo funzioni di un sistema economico votato a privilegiare il capitale, ma anche strumenti di emancipazione e integrazione che producono effetti virtuosi ulteriori, rispetto al mero meccanismo di dominio economico cui l’oranizzazione europea sembra rispondere. Così come l’estensione dei poteri del Parlamento europeo  non è solo quel contentino alle opinioni pubbliche che forse qualche gande manovratore riteneva che potesse essere, come abbiamo visto nel caso dell’affaire ACTA. La possibilità concreta di concepire se stessi come “cittadini europei”, veicolata da queste come da altre misure e ormai maturata da una ampia parte delle generazioni più giovani, è di suo un esito storicamente rilevante.

Non esiste solo l’Europa dei burocrati a libro paga dei grandi speculatori internazionali (quelli che i mass media mainstream, complici della politica dominante, definiscono impersonalmente “i mercati”) o quella dei lobbisti al soldo delle multinazionali o quella dei governi espressi da questi stessi centri di interesse o a loro succubi. Esiste anche un’Europa dei diritti e dei popoli, sia all’interno dell’UE, sia al suo esterno.

Di quest’Europa però si parla di meno. Mettere nel calderone solo i mali dell’UE, attribuendoli all’Europa in senso generico, non è un’operazione neutra. È invece una precisa presa di posizione, che esprime, sebbene in modo non esplicito, forme di nazionalismo e particolarismo non sempre presentabili. In quest’ambito troppo spesso pulsioni di stampo fascista e xenofobo si trovano alleate con ideologie anti-sistema di stampo para-marxista o anarcoide, senza che sia possibile orientarsi bene tra sigle, gruppi informali, teste calde e agenti infiltrati di varia ascendenza e committenza.

In questo scenario si manifesta da un po’ di tempo – ma solo oggi i mass media non riescono più ad evitare di parlarne – una tendenza ulteriore. In diverse aree europee prendono la scena i popoli, in particolare le cosiddette nazioni senza stato: collettività storiche che il gioco delle forze in campo, nel corso degli ultimi secoli, ha costretto ad accettare il ruolo di minoranze interne agli stati o che addirittura sono stati sottoposte a vere e durature forme di acculturazione e a tentativi di cancellazione.

Una di queste collettività storiche siamo noi, i sardi. Magari suona strano sentirlo dire in termini chiari, ma è indubitabile che se si parla di nazioni senza stato e si cominciano ad enumerare, dopo baschi, catalani, scozzesi, fiamminghi del Belgio, corsi, bretoni, ecc. ecc., ad un certo punto arriviamo noi. Per la narrazione dominante che ci vuole italiani, sia pure speciali, questa rivelazione risulta scomoda da gestire e neutralizzare, perciò si è fatto a lungo un uso massiccio di eufemismi e formule retoriche depotenzianti. Il succo però non cambia.

La tendenza a cui mi riferisco si concretizza nella nuova capacità mostrata da formazioni politiche autoctone di conquistare consensi e di assumere la guida del proprio territorio, in un processo di autodeterminazione non più auspicato o indicato come obiettivo teorico, bensì attuato come concreto programma politico, per di più fondato su un percorso democratico e pacifico. Ieri erano gli scozzesi dello Scottish National Party, oggi sono i baschi del PNV e di Bildu. Con in mezzo, solo nelle ultime settimane, catalani e fiamminghi. Naturalmente, non è legittima alcuna reductio ad unum di tutti questi eventi. Se presi singolarmente, tutti i casi mostrano le proprie peculiarità. Eppure negare la tendenza generale in atto risulta ormai difficile, se non impossibile.

Ciò dalle nostre parti si traduce in reazioni del tutto incoerenti. L’ambito massmediatico di stampo italiano, che domina anche la Sardegna, è piuttosto refrattario a questi temi, perché è a sua volta controllato dall’egemonia nazional-risorgimentale fautrice indefessa di una narrazione centralista e forzatamente ostile alle diversità culturali. Qui gioca il suo ruolo la radice intima della fondazione storica dell’Italia unita e la sua natura di strumento in mano a un blocco storico, che l’Italia la considera e la tratta da sempre come un oggetto a propria disposizione, per il vantaggio di consorterie più o meno estese e dei centri di interesse più solidi e strutturati. Una guerra di tutti contro tutti, in cui non hanno alcuna cittadinanza cose come il bene comune, un interesse generale e condiviso, l’etica pubblica, il ripudio del malaffare e della corruzione. E nemmeno un diffuso sentimento di appartenenza comune.

Dentro questo sistema di dominio, come sappiamo, la Sardegna ha da sempre il ruolo di ultima ruota del carro, di discarica, di risorsa da sfruttare fino alla consunzione, di pedina di scambio o comunque sacrificabile alla bisogna.  Fino ad oggi tale situazione storica – evidentissima ai più – non ha podotto una coscienza condivisa che consentisse di rifiutare i modelli socio-economici e culturali imposti dalla egemonia italiana con la complicità della classe dominante nostrana. Così oggi ci troviamo dentro questa temperie politica privi di una reale consapevolezza di noi stessi.

Non a caso le reazioni alle notizie che arrivano dalla penisola iberica come dall’arcipelago britannico generano reazioni polarizzate. Da un lato la pressoché totale rimozione del problema dal proprio orizzonte politico da parte di molti che pure di politica si occupano. Tanti sardi in questi stessi giorni sono molto più appassionati agli sviluppi della campagna elettorale interna del PD o alle lotte intestine nel PDL (per dire) che alle grandi manifestazioni dei catalani o ai risultati elettorali dei nazionalisti baschi. In questo sono agevolati dai mass media italiani, solitamente attenti – per le ragioni esposte – a veicolare una visione negativa dell’autodeterminazione delle minoranze europee (per esempio usando di preferenza termini quali “secessione”, “separatismo”, anziché “indipendenza” e “indipendentismo”). In Sardegna lo spauracchio dell’indipendenza politica, esorcizzato a lungo con la folklorizzazione della prospettiva stessa, oltre che dei suoi promotori, fa paura soprattutto a chi lo agita. Una delle soluzioni che ultimamente sembrano aver partorito i nostri padroni del vapore (e dei mass media) è di appropriarsene per piegarlo ai propri fini. Non è una scelta stupida, dal punto di vista pragmatico. Chissà se riuscirà nel suo intento.

Dall’altra parte ci sono gli entusiasti dei risultati altrui. Tanto quelli che ancora rifiutano l’idea stessa dell’indipendenza della Sardegna ma che sarebbero pronti a immolarsi per quella basca o – che ne so – saharawi, quanto gli indipendentisti medesimi, in cerca di legittimazione esterna e di esempi da indicare a se stessi.

Sembra che non si riesca mai ad aprire lo sguardo sulla situazione attuale nel suo complesso, a connettere i fenomeni di nascente autodeterminazione dei popoli con la crisi europea. Eppure lo scenario comprende entrambi i processi. È un limite serio, da superare radicalmente.

Immaginare una prospettiva di autodeterminazione della Sardegna al di fuori dei giochi politici europei e mediterranei è molto fuorviante e per certi versi pericoloso, dato che ci espone a fraintendimenti ed errori di valutazione. Allo stesso modo è del tutto inutile appassionarci a ciò che succede in altre regioni europee quasi che si trattasse di evocare un contagio diretto, tale che prima o poi, anche senza fare niente, il fenomeno ci coinvolgerà. Ignorare o rimuovere la questione poi è la sciocchezza più grossolana che si possa commettere (ed è quello che stanno facendo alcune forze politiche sardo-italiane che pure si candidano al rinnovamento prossimo venturo della Sardegna).

Non è realistico concepire la dissoluzione dell’Unione Europea come se noi sardi da questo evento dovessimo trarre sicuramente giovamento. Allo stesso modo è illusorio sperare che i processi in corso a livello europeo o non ci tocchino o abbiano conseguenze su di noi senza la nostra partecipazione attiva.

La prospettiva in cui è necessario inscrivere una azione culturale e politica di tipo emancipativo per la Sardegna deve essere contemporaneamente nazionale ed europea, locale e globale (come piace dire a molti). Ipotizzare un percorso politico di indipendenza della Sardegna a prescindere da quel che succede intorno può portare solo coseguenze nefaste. Immaginare di poterci liberare a buon mercato dei nostri problemi imitando modelli altrui, idem.

Certo, è molto più difficile anche solo guardare alle cose europee in quest’ottica, tanto più lo è provare a inserirci in questi giochi politici noi stessi come soggetto storico a tutti gli effetti. Eppure è indispensabile conciliare le nostre aspettative di riscatto storico e di libertà, pure irrinunciabili, con quelle di integrazione europea e mediterranea, già a partire dalle condizioni attuali e dentro gli ordinamenti vigenti. La storia esprime un suo horror vacui, una sua resistenza, intrinseca nelle relazioni umane e degli esseri umani con l’ambiente, alle cesure nette e all’azzeramento delle forme e delle strutture. Non sarà possibile edificare niente di virtuoso senza basarsi anche sulle brutture del presente. Per riuscirci è necessario, tanto per cominciare, coltivare degli obiettivi chiari, onesti, credibili, e avere uno sguardo limpido e generoso, non colonizzato né provinciale, su noi stessi e sul mondo.