Pal noi no v’à middhòri…

Terminata la visita di re Giorgio, si può fare un consuntivo di questa due giorni carnascialesca.

Con un ribaltamento simbolico molto significativo (e replicato ad abundantiam caso mai non fosse chiaro il messaggio), la classe dominante di podatari che governa per conto terzi la Sardegna ha cancellato tutto ciò che di anche solo vagamente problematico potesse interferire con i propri intenti e si è resa protagonista di una sceneggiata penosa, che dovremo conservare con cura nell’archivio delle nostre vergogne collettive.

Da un lato si rimuove la scomparsa di una grande personalità della nostra storia recente, come Giovanni Lilliu, mai troppo accondiscendente verso le meschinità della politica, e si ammaina la bandiera dell’autonomia regionale per far posto a quella del sovrano; dall’altra ci si prostra a turno ai piedi del medesimo, facendo a gara per chi si dimostra più conformista, più servile e più sottomesso.

Perché gli intenti della classe politica dominante (e dei suoi complici e reggicoda) non hanno nulla a che fare con i problemi dei sardi, con le questioni socio-economiche, o quelle tributarie o infrastrutturali che dovrebbero riempire la loro agenda. Hanno invece molto a che fare con l’avidità di privilegi e di potere fine a se stesso. La perpetuazione delle proprie rendite di posizione e l’autolegittimazione come intermediari del vero potere – che per definizione si trova fuori della Sardegna – sono il pensiero fisso dei vari presidenti, sindaci, sindacalisti, rettori ecc. ecc.

I discorsi ufficiali ascoltati in questi giorni sono da brivido. Se quello di Cappellacci era la solita fuffa mal confezionata e incoerente (basta confrontarlo con quanto lo stesso presidente della RAS diceva in consiglio regionale solo pochi giorni prima), quello del sindaco Zedda era agghiacciante per pochezza politica e infondatezza storica, quasi da citarlo in giudizio per danni morali ed esistenziali. Tanta meschinità concentrata in così poche ore è la migliore dimostrazione di quanto male siamo messi in fatto di rappresentanza democratica. Questa gente – ormai deve essere chiaro – non è in grado nemmeno volendo di governare davvero la Sardegna. Non ne ha la capacità politica né l’onestà intellettuale.

I discorsi fatti dalle altre autorità prostratesi al cospetto di re Giorgio non sono stati da meno e non c’è nemmeno da perdere tempo a citarli. Tanto la solfa era grosso modo sempre la stessa.

In parallelo i media si sono soffermati sulle contestazioni di piazza. Anche qui bisogna essere molto attenti nell’analizzare tali episodi. Tra chi li vorrebbe enfatizzare a vantaggio della propria visibilità mediatica e chi li ridimensiona a fenomeno folkloristico circoscritto (come ha fatto, commettendo l’ennesima gaffe, lo stesso Napolitano) c’è di mezzo una realtà decisamente diversa. Approfittare di queste manifestazioni sguaiate, maleducate e politicamente insensate per rimuovere dalla scena i problemi profondi dei sardi è una operazione disgustosa. Prendere tali manifestazioni come una forma sia pure emotivamente agitata di reale rappresentanza politica lo è altrettanto. Entrambe queste letture – apparentemente conflittuali – servono bene allo scopo di depotenziare le prospettive politiche realmente emancipative, quelle che non hanno bisogno per esistere di scendere in piazza a fare chiasso né di prendersela col capro espiatorio straniero di turno.

La contestazione a Napolitano era inutile e controproducente almeno quanto il servilismo delle autorità nostrane, dunque. Ma forse contestare queste ultime era troppo difficile per chi ha contribuito ad affidare loro il potere di cui dispongono. Come ignorare che tra i fischiatori ci fossero molti che alle ultime elezioni regionali hanno votato per Berlusconi e il suo mandatario sardo? E se non hanno votato per lui, hanno votato per i capibastone degli altri partiti maggiori, o delle loro propaggini finto-nazionalitarie e persino finto-indipendentiste. E sono magari gli stessi che seguono pedissequamente le dissennate strategie dei sindacati italiani in Sardegna, capaci magari di rischiare di vincere la gara della subalternità, ma ben decisi a stroncare ogni possibile prospettiva economica che non garantisca lo status quo e con esso il loro piccolo ma concreto potere.

Insomma, la vera contestazione dovremmo farla contro noi stessi. Non possiamo accampare la scusa di non sapere come stiano le cose, non abbiamo nemmeno le attenuanti che già sembravano insufficienti quando certe scelte sono state fatte dai nostri genitori e dai nostri nonni. Dobbiamo infrangere da noi la bolla spaziotemporale che da duecento anni ci condanna alla ripetizione degli stessi errori e delle stesse debolezze. Il paternalismo insofferente di Napolitano non avrebbe avuto ragion d’essere se al suo cospetto avesse trovato dei sardi diversi, coscienti di sé, del proprio posto nello spazio e nel tempo, sia dentro il Palazzo, sia fuori in piazza.

Che ci valga da lezione. I sardi non trovano più alcuna soluzione ai propri bisogni nel vendersi al peggior padrone possibile e hanno necessità di una politica del tutto diversa, sia a livello locale sia a livello generale. Una politica che abbia il proprio centro di gravità in Sardegna e il cui sguardo dalla Sardegna abbracci tutto l’orizzonte e sia rivolto al futuro. Senza egoismi o corporativismi, senza furberie idiote e autolesioniste. Prima lo capiremo, meglio sarà per tutti. Tranne, ovviamente, per chi ha nel servizio a un potere esterno il proprio tornaconto.

Pal noi no v’à middhòri
no’ impòlta cal’à vintu
sia iddhu Filippu Quintu
o Carrulu Imperadori…