Pratiche di dominio, coscienza nazionale e coscienza di classe

Nella narrazione storica che va per la maggiore in Sardegna, a un medioevo periferico e coloniale, vissuto nel segno del dominio pisano e genovese, seguì l’epoca buia del dominio spagnolo. La parabola giudicale si inserisce in questa narrazione come un accidente accessorio, quasi casuale e poco significativo, avulso dalla corrente principale della civiltà europea e mediterranea.

L’epoca spagnola è presa di solito come un tutt’uno, dal 1324 fino al 1720, quando il provvidenziale passaggio della corona di Sardegna in capo ai Savoia trasformò una sorta di appendice oltremarina dell’impero spagnolo in uno stato a tutti gli effetti e per di più lo sottrasse alla dominazione “straniera” per riportare la Sardegna nell’alveo della storia italiana, cui evidentemente apparteneva sin dai tempi dei romani. Tutti i fatti e i processi della nostra storia contemporanea, di conseguenza, si inseriscono come episodi marginali, a volte stravaganti ma mai dotati di significato universale, nella vicenda complessiva della storia d’Italia.

Questa, in termini espliciti o impliciti, è la ricostruzione più diffusa della nostra storia degli ultimi mille anni. Il residuo orgoglio di appartenenza dei sardi, non potendo essere annullato del tutto, nel corso dei decenni più recenti è stato incanalato nelle cornici concettuali della “costante resistenziale” di Giovanni Lilliu e poi – con molto minore successo – nella “dottrina della statualità” di F.C. Casula col suo corollario (in realtà, la tesi portante) della discendenza diretta dello stato italiano dalla fondazione del regno di Sardegna da parte dei catalani nel 1324.

La parte che hanno i sardi in tutta questa narrazione è a dir poco marginale e spesso problematica. Non si sa bene dove collocarli. La tesi della costante resistenziale offre una soluzione comoda e tutto sommato indolore: mentre la storia li espelleva dal suo corso principale e toccava la Sardegna sotto forma di dominazioni straniere, i sardi resistevano. Resistevano alla civiltà, si potrebbe pensare. E infatti il retropensiero che viene sollecitato da tale tesi è proprio questo: una atavica e a volte testarda renitenza alla civilizzazione. Tesi perfettamente consonante con le scelte socio-economiche contemporanee, come i Piani di Rinascita e gli annessi esperimenti di ingegneria sociale.

Tuttavia è piuttosto evidente l’enorme fraintendimento che sta alla base di tutto ciò. Intanto l’espulsione dei sardi dalla corrente principale della storia europea e mediterranea è del tutto arbitraria e ingiustificata. La ghettizzazione della storia giudicale nell’ambito delle forme di civilizzazione minore, anacronistiche, dovute al sempre evocato isolamento, è funzionale al disegno complessivo sopra esposto, ma non ha fondamenti storici seri. La Sardegna medievale, persino quella altomedievale (diciamo tra V e IX secolo) è perfettamente inserita nelle vicende storiche principali dell’epoca, con momenti di assoluta centralità. Nel periodo successivo, poi, con l’emergere della civiltà giudicale, l’Isola diventa una terra essa stessa produttrice di storia e, appunto, di civiltà.

Altro fraintendimento mortifero è quello relativo all’epoca “spagnola”. Intanto bisognerebbe chiarire che non è esistita un’unica epoca spagnola, ma che c’è stato un concatenamento di vicende che poi, nel ’400 (e non prima) ha condotto definitivamente la Sardegna a gravitare nell’orbita della potenza iberica. Ma anche qui il vero problema non fu il “dominio straniero”. I termini della faccenda non possono essere semplificati e appiattiti su questa visione, senza farci perdere totalmente il senso di tali vicende. Il regno di Sardegna era un’entità politica definita dentro la Corona spagnola. Era già uno stato e uno stato nazionale, sia pure tributario di un potere imperiale più vasto. Questa circostanza – pure molto chiara a chi ne visse la parabola storica – oggi è largamente rimossa.

Nemmeno il passaggio della corona sarda ai Savoia fu una cesura, un punto di svolta. Anzi, in un certo senso si accentuarono con esso alcuni aspetti di tipo socio-economico e politico che poi emergeranno in tutta la loro portata nel corso dell’Ottocento e del Novecento.

Il vero nodo storico formatosi in epoca spagnola e aggrovigliatosi nel periodo sabaudo e italiano riguarda la formazione in Sardegna di una classe dominante che traeva la propria legittimità e aveva la fonte dei propri privilegi nel rapporto subalterno a un potere esterno. Quando si parla del problema della sovranità in Sardegna, si trascura spesso la circostanza che la rinuncia al completo dispiegamento della medesima non è stato in nessuna epoca un destino scritto, la conseguenza inevitabile di cause insuperabili, ma in tante occasioni una precisa scelta di chi gestiva il potere politico in Sardegna.

Il problema fondamentale della storia sarda moderna e contemporanea è l’esistenza di questa classe sociale parassitaria, prima aristocratica ed ecclesiastica, poi borghese (quella borghesia “compradora” di cui parlava Mialinu Pira) che ha sempre sacrificato qualsiasi visione nazionale, qualsiasi interesse collettivo dei sardi, sull’altare del proprio tornaconto di casta, di clan, familiare. Ciò ha comportato che gli elementi costitutivi della modernità in Sardegna siano stati prima frustrati (con la repressione dei moti rivoluzionari), poi acquisiti attraverso operazioni di imposizione dall’alto che hanno prodotto anziché un progresso (sia pure in termini dialettici e conflittuali), una disarticolazione protratta e profonda del tessuto socio-economico, antropologico e simbolico della nostra collettività storica. Persino l’importazione forzosa del conflitto di classe da noi è stato uno strumento di repressione e scardinamento sociale e culturale, e in definitiva di conservazione. Lo vediamo bene oggi, quando i suoi ultimi cascami sotto forma di vertenze sindacali offrono un così penoso spettacolo di sé. In definitiva, le stesse speculazioni sull’eolico o sul fotovoltaico o quelle cementifere, tipiche di questi ultimi anni, non sono che una sorta di prosecuzione con altri mezzi e in altri termini dell’Editto delle chiudende.

L’egemonia culturale prodottasi in Sardegna negli ultimi duecento anni non ha fatto che negare la nostra storia nazionale nei suoi elementi più significativi (e per questo potenzialmente simbolici ed emancipativi) e sostituirla con una sorta di storia “regionale”, in un processo di acculturazione dai tratti a volte violenti, altre volte più subdoli, ma sempre teso a svuotare di contenuto qualsiasi barlume di consapevolezza di sé dei sardi come soggetto storico a se stante.

Questo complesso processo di dominio ha la conseguenza che oggi ci troviamo esposti a esiti che minacciano di essere tra i più drammatici di tutta la nostra Modernità. Nel momento in cui per i sardi comincia a diventare evidente l’ineludibilità del discorso dell’autodeterminazione, con i suoi contenuti politici problematici ma dirompenti, ci troviamo in una situazione di soggezione a forme di potere esterno particolarmente pervasive e determinate, cui non si oppone una classe politica anche solo banalmente dignitosa, presente a se stessa e nemmeno una opinione pubblica democraticamente matura. Ciò comporterà, a meno di svolte drastiche, che la Sardegna sarà definitivamente relegata al rango di oggetto storico e i sardi avviati a un destino di estinzione come collettività umana.

Lo stato italiano non può permettersi di tergiversare nella realizzazione dei propri interessi, per ragioni sue strutturali che – a dispetto della narrazione dominante in Sardegna – sono del tutto inconciliabili e anzi contrapposte a qualsiasi interesse generale sardo. Se ci saranno scelte dure da compiere, l’Italia le compierà, senza trovare in Sardegna alcuna forma di opposizione consapevole e organizzata. Penso solo alle questioni fiscali e finanziarie, penso alle questioni infrastrutturali e penso a faccende forse non più gravi ma di sicuro meno presentabili come lo stoccaggio delle scorie nucleari.

I termini in cui la classe dominante italiana, con il suo apparato mediatico al seguito, sta conducendo la vertenza (anzi, lo scontro) con le popolazioni della Val di Susa, è emblematico di quali saranno i mezzi e le giustificazioni per imporci qualsiasi scelta di questo o dei governi che seguiranno. Il dibattito parlamentare sulla questione dei trasporti da e per la Sardegna, svoltosi nei giorni scorsi alla presenza di una ventina scarsa di deputati e senza alcun risultato apprezzabile, ci dà il senso di quale sia il nostro peso come regione periferica e demograficamente insignificante dello stato italiano.

Si pone dunque con la massima impellenza la necessità di chiamare a raccolta tutte le forze sane, creative, propositive della Sardegna, comprese quelle espresse dai sardi della diaspora, per generare un ribaltamento di prospettiva. Abbiamo bisogno di una classe dirigente degna di questo nome, ma prima ancora abbiamo bisogno di una coscienza collettiva di tipo nazionale, centrata su di noi, fondata sulla consapevolezza di essere un soggetto storico compiuto, portatore di senso, di civiltà, di una sua parabola storica, di suoi interessi e necessità.

Bisogna spazzare via nei modi più democratici, nonviolenti e condivisi possibili la classe di intermediari che da troppo tempo gestisce a proprio vantaggio e nel nome di interessi esterni il potere politico ed economico in Sardegna. Bisogna abbattere le pratiche clientelari che ne sono l’humus, la base concreta. Bisogna rispondere con una narrazione contro-egemonica alla congerie di simboli e costrutti ideologici che concorrono a formare la nostra identificazione collettiva. Bisogna far emergere e mettere proficuamente in rete le forze dinamiche e creative di cui pure la Sardegna dispone.

Questo dovrebbe essere il grande compito di una vera politica sarda. Aspettarsi che se lo assumano gli stessi che ancora oggi sguazzano nella palude dello status quo è autodistruttivo, prima ancora che illusorio. Non è affidandosi ai comitati di potere che in Sardegna si presentano col nome dei partiti italiani che le cose cambieranno. È meglio che se ne rendano conto in fretta i tanti sardi di buona volontà che ancora sono progionieri di una identificazione di matrice televisiva italiana. Di tempo ne rimane poco.