In giorni difficili e confusi bisognerebbe cercare di elaborare la complessità e renderla intellegibile, anziché aumentare la confusione. Invece all’inerzia dei podatari che governano la Sardegna per conto terzi si risponde con azioni inutili e controproducenti, come l’occupazione delle aule consiliari dei comuni o il blocco delle strade. Come se sabotare la già carente attività politica sul nostro territorio o sequestrare l’intera Isola generasse chissà quali effetti benefici. A occhio e croce, di là dal mare nemmeno se ne accorgono.
Forse se conoscessimo il nostro passato avremmo una visione diversa della situazione. Una visione più prospettica, articolata, capace di fondare una proposta anziché una sterile protesta. Fa un certo effetto dire certe cose nei giorni in cui cade il centoquarantesimo anniversario della nascita di Peppinu Mereu. Da bravo poeta, Mereu aveva già intuito, pur nel corso di una breve esistenza, alcuni elementi decisivi della nostra contemporaneità. Che era anche la sua.
I famosi versi: “Deo no isco, sos carabineris, in logu nostru prit’est chi bi sune, e no arrestant sos bangarrutteris” li scriveva all’amico Nanni Sulis ancora con la divisa da carabiniere addosso, ben conscio di quel che diceva. L’allusione ai bancarottieri non era traslata, un modo di dire. Mereu si riferiva alla grande crisi finanziaria e bancaria dei primi anni Novanta del suo secolo, crisi seguita, in Sardegna, a quella produttiva e sociale causata dalla denuncia dei trattati commerciali con la Francia da parte del governo italiano (1887). Lo scenario e le conseguenze della situazione gli erano noti e le ragioni strutturali della stessa non gli sfuggivano affatto, nonostante i suoi scarsi studi e una conoscenza del mondo apparentemente molto limitata.
La crisi generalizzata nel giro di poco avrebbe prodotto scioperi dei lavoratori delle miniere, manifestazioni di piazza per l’aumento dei prezzi, disordini di vario genere. Il tutto accompagnato da sentimenti di rivalsa e slogan di matrice esplicitamente (anche se confusamente) “separatista” (“a mare sos continentales“). Lo stesso Antonio Gramsci nasce e si forma dentro quella temperie. E – come dice Eric Hobsbawm – non si capisce Gramsci senza capire la sua Sardegna.
A ben guardare, molti elementi di quel passaggio storico coincidono con quelli della nostra crisi attuale. E coincidono anche le cause. I problemi del settore agropastorale, ad esempio, sono pressoché gli stessi, così come in larga misura quelli delle campagne. Il ricatto occupazionale era la regola: vi si basava la grande speculazione sulle materie prime e tutta l’attività estrattiva. I politici sardi erano votati alle pratiche clientelari più svergognate, ben rappresentati in questo dal grande nome di quegli anni, Francesco Cocco-Ortu, più volte ministro in Italia e abile gestore del consenso in Sardegna (pure, negli ultimi anni della sua carriera e della sua vita, ostile al fascismo: ricordiamolo a suo merito).
Il malessere diffuso e la vaga sensazione di ingiustizia, che animava tanto i versi dei poeti, quanto le manifestazioni di piazza (represse con le armi), non avevano dunque alcuna sponda politica responsabile. I sardi non possedevano nemmeno una compiuta narrazione di se stessi che sorreggesse la propria identificazione collettiva. I meccanismi istituzionali poi erano decisamente penalizzanti: non esisteva il suffragio universale, le elezioni erano una faccenda che riguardava una percentuale minima della popolazione. Non vigeva allora il principio “no taxation without rappresentation“, tipico delle società moderne: non può esserci alcuna esazione tributaria legittima, senza che sia decisa da rappresentanti della popolazione che la subisce; uno dei motivi scatenanti della Rivoluzione americana. In Sardegna l’asfissiante peso dei tributi non era affatto compensato da una negoziazione ad alcun livello (al contrario di quanto avveniva nel Regno di Sardegna spagnolo, sia pure con tutti i distinguo del caso), né esisteva una prospettiva politica generale che mettesse al suo centro la Sardegna, come soggetto politico. Non ci ricorda qualcosa, questa situazione di un secolo fa?
Oggi abbiamo un malessere sociale diffuso e una crisi che sembra sfiggire alla comprensione di tutti (politica, mass media, sindacati, associazioni di categoria, intellettuali). Le varie situazioni problematiche sono affrontate istintivamente col pensiero rivolto ognuno al proprio orto e inserite in cornici concettuali totalmente inutili, se non dannose (la rivendicazione di appartenenza all’Italia, la pretesa di riproporre i Piani di Rinascita nonostante il fallimento di quelli vecchi, l’assoluta sudditanza mentale e politica all’egemonia italiana centralista e classista). Minacce e suppliche si alternano, rivolte verso le evanescenti divinità oltremarine, allo stesso modo con cui i nostri antenati cantavano “Maimone, Maimone, abba cheret su laore“. La parola d’ordine che attraversa tutti i gruppi (partite IVA, agricoltori esecutati, autotrasportatori, pastori, ecc.) è: vogliamo più soldi e/o vogliamo protezione. Chi li guida soffia sul fuoco di questa protesta elementare (bloccata al grado zero della consapevolezza politica), sperando di trarne vantaggi personali in termini di visibilità mediatica e di capacità di intermediazione. Una poltrona alle prossime elezioni sarà una ricompensa sufficiente.
Ma è questo ciò di cui abbiamo bisogno? Sappiamo come andarono le cose cento anni fa. Senza una prospettiva generale in cui inquadrare la nostra vicenda storica collettiva, senza una proposta praticabile, si finisce nelle mani di capi senza scrupoli determinati a cambiare tutto perché nulla cambi (nei rapporti di produzione, nelle gerarchie sociali e culturali, negli assetti di potere profondi). Oppure ci si fa addomesticare da compromessi al ribasso, come successe in Sardegna con l’autonomismo post Prima guerra mondiale e poi con l’autonomia regionale.
Vogliamo ripetere fallimenti già vissuti? Non sarebbe il caso di rompere questo riflusso, questo eterno ritorno dell’uguale? La massima secondo cui se non si conosce la storia si è condannati a ripeterla è quanto mai attuale. Ma conoscere la storia non basta, se questa conoscenza non si trasforma in consapevolezza prima e in progettualità politica poi. Non serve, ma è indispensabile: la famosa condizione necessaria anche se non sufficiente.
In definitiva il compito per chi abbia a cuore la nostra sorte collettiva è almeno duplice e per questo difficilissimo: 1) recuperare la basilare conoscenza di noi stessi, inserendo la nostra vicenda storica in una cornice narrativa corretta, o almeno non tossica; 2) produrre teoria e prassi politica diversa e alternativa rispetto ai modelli fallimentari e subalterni che ci dominano da così tanto tempo.
La voce dei poeti, degli artisti, degli intellettuali sarà indispensabile, in questo percorso. Con l’auspicio che le forze emancipative già esistenti in Sardegna si rafforzino e diventino finalmente egemoniche.