Che non siano tempi facili, lo sappiamo tutti, chi più chi meno. Quel che colpisce è il meccanismo complesso con cui i vari elementi economici, sociali e culturali che concorrono a formare la realtà storica in cui viviamo siano visibili e in larga parte compresi da molti, e nonostante questo si stenti non dico a risolvere qualcosa, ma nemmeno a darne conto compiutamente.
C’è un grave difetto di narrazione, prima di tutto. In larga parte ciò è strumentale rispetto al mantenimento di porzioni di potere (vero o illusorio) da parte delle elite che lo detengono. Ma c’è anche una componente inerziale, una forza profonda dei processi storici che è difficile contrastare nelle sue cause. L’inconsapevolezza o il disinteresse verso la complessità dei fenomeni è un elemento che contribuisce ad aggravarli, non a crearli.
Eppure, se sulle cause, almeno quelle più profonde, è difficile o imposibile agire, invece si potrebbe agire sui sintomi. E qui entra in gioco la politica. Se diamo un’occhiata al nostro passato recente, diciamo gli ultimi centocinquant’anni (un periodo di tempo preso a caso… ), constatiamo come spesso, a tutti i livelli, benché ci fossero tutte le condizioni sia per comprendere correttamente la situazione, sia per intervenire politicamente su alcuni aspetti, chi aveva il potere di fare le scelte decisive non sia stato all’altezza. Ciò vale per il livello internazionale, come per quello locale.
Da quello che si vede, oggi la politica non ha la forza e nemmeno la voglia di rispondere in termini adeguati alle sollecitazioni che i fenomeni storici le presentano davanti. C’è un grave problema diffuso e generalizzato di inadeguatezza del personale politico e di quella che generosamente si suole definire classe dirigente.
Se guardiamo alla Sardegna ci rendiamo facilmente conto che questo comporta la pericolosissima situazione per cui ad affrontare le condizioni più serie e difficoltose degli ultimi settant’anni ci sia la classe dirigente e politica peggiore di sempre. Peggiore della classe borghese liberale di metà Ottocento, che dopo il disastro della Fusione Perfetta se non altro ebbe un moto di resipiscenza e provò – invano – a tornare timidamente sui propri passi. Peggiore del clientelismo proconsolare di Cocco Ortu, vero modello paradigmatico per generazioni di politici sardi, del quale però ormai non esiste più la capacità di mediazione col potere centrale e di intercettazione delle istanze sociali (almeno di alcune). Peggiore della classe politica del primo dopo guerra, animata dal movimento dei reduci e che per una breve stagione sembrava avviata su una strada emancipativa nazionale, per la Sardegna. Peggiore della classe partitica del secondo dopo guerra, che pure riuscì a ritagliarsi un peso politico più che proporzionale rispetto alla propria consistenza numerica e al peso effettivi della Sardegna nel contesto italiano.
Insomma, per quanti limiti abbiano avuto gli schieramenti politici sardi dell’utimo secolo e mezzo, mai sono stati così passivi, inerti e strutturalmente inefficienti come quello attuale. E non mi riferisco solo alla raccogliticcia e male assemblata compagine oggi al governo della Regione: lo schieramento opposto (sulla carta) non gode certo di migliore salute. E non è un discorso qualunquista di comodo. Non c’è ambito produttivo, sociale, culturale in cui le forze politiche che oggi occupano le istituzioni in Sardegna dimostrino di poter fare qualcosa di buono. In questo, pesa senz’altro il pauroso intreccio di interessi e complicità col sistema dei mass media, la cui situazione in Sardegna appare addirittura peggiore dell’analogo ambito italiano. E pesa enormemente l’incapacità di analisi politica, il disinteresse cinico verso i problemi reali, la fedeltà ai propri padroni oltremarini, l’assenza di uno sguardo intelligente e consapevole su noi stessi.
Mentre i lavoratori si inerpicano sulle gru o si recludono in gallerie minerarie, mentre intere categorie non sanno che pesci prendere per dimostrare il proprio disagio, mentre le spinte delle forze economiche e politiche internazionali sembrano condannarci a un ruolo se possibile ancora più passivo e strumentale nei processi storici in corso, la nostra classe dirigente e politica non sa far altro che usare i mass media per costruire una logora narrazione di consenso e appoggiare le scelte più assurde e deleterie per la nostra collettività (vedi questioni come il GALSI, la vertenza entrate, i trasporti, la chiusura delle aree industriali, le servitù militari, il degrado ambientale, ecc.), senza dare il benché minimo segno di avere un progetto politico, una visione propria, e nemmeno quella dose indispensabile di senso di responsabilità che pure il momento richiederebbe.
Certamente non aiuta il complesso di inferiorità che abbiamo interiorizzato negli ultimi centocinquant’anni e non aiuta il perenne ricatto occupazionale cui sono sottoposte intere comunità. Così come non aiuta il fatto che una vasta porzione delle migliori forze intellettuali, che pure la Sardegna continua a produrre, siano assenti dal dibattito pubblico, spesso vincolate nella propria libertà da debiti contratti con i centri di potere in grado di distribuire finanziamenti e occasioni di lavoro. Un intreccio pauroso che ci espone alle peggiori conseguenze di questo ciclo storico senza la minima capacità di reazione.
La prima cosa da fare sarebbe renderci conto che o acquisiamo una soggettività storica pienamente dispiegata o siamo condannati, nel breve volgere di un paio di generazioni, alla sostanziale estinzione. Questa presa di coscienza dovrebbero farla prima di tutto coloro che con la loro opera costruiscono in qualche modo i punti di riferimento simbolici e narrativi per tutti noi. Ma sappiamo che l’università e i mass media sono occupati e usati da forze che vanno in senso contrario, ciecamente avvinte nelle loro stessa ingordigia, o se non altro nel loro ottuso conformismo. Non rimane che contare sugli ingegni e le forze creative di cui disponiamo e sul coinvolgimento delle forze sociali oggi abbandonate allo sbando da quegli stessi rappresentanti politici e sindacali che le hanno condotte spensieratamente verso il disastro, in larga misura col loro stesso consenso.
È una scommessa difficilissima, ma bisogna farla. La storia non tollera vuoti e gli spazi che non vengono occupati da idee e prassi emancipative vengono presto presi da forze regressive e disgregatrici, come già avvenuto in passato e come sta avvenendo sotto i nostri occhi. È un rischio mortale che non ci possiamo più permettere, perché non è in gioco la scelta di un modello o di un altro, la tattica del momento, ma la vita materiale e la consistenza esistenziale di tutti noi e dei nostri figli, nel presente e per i prossimi decenni.