Lo specchio deformante

In questi giorni ritornano in auge temi e luoghi comuni relativi alla nostra presunta identità sarda. Un apparato di dispositivi di dominio scatta in automatico appena c’è da spiegare qualche fatto  significativo e si chiamano in causa le nostre ataviche magagne: dal pocos locos y mal unidos, all’invidia endemica, ai mali derivati da isolamento e arretratezza (assegnando a ciascun elemento il ruolo di causa o di effetto, a seconda della bisogna).

Ora, d’accordo che l’egemonia è dura da contrastare, ma qui ci si marcia  un po’ troppo. L’uso di cliché pseudo-scientifici, di natura sociologica, antropologia o storica non è nuovo, ma dovremmo aver maturato strumenti critici adeguati a farne a meno e a smontarli laddove si ripresentino. Invece i mass media indulgono volentieri nella riproposizione di cornici concettuali e contenuti che basterebbe un minimo di onesto senso critico a respingere come tossici.

Il fatto è che l’egemonia culturale non è solo un apparato di dominio. Essa produce esiti che hanno l’aria di essere spontanei, anche quando sono del tutto riferibili a contenuti e meccanismi di ragionamento indotti. Si interiorizza un armamentario concettuale e lo si ripropone come se fosse frutto della propria intelligenza. Poi quanto più è autorevole la voce di chi si fa portatore di un costrutto, di un messaggio, tanto più esso viene metabolizzato e dato per vero dalla massa o da una sua larga maggioranza, replicando l’intera sequenza di assimilazione e ripetizione.

Se però andiamo a vederli da vicino, tali luoghi comuni identitari, scorgiamo in essi qualche tratto sospetto. Se ci soffermiamo un po’ di più, il dubbio cresce fino alla rivelazione. E la rivelazione è che questo insieme di proposizioni, parole chiave, cornici concettuali che configurano l’idea che abbiamo di noi stessi è fondamentalmente un clamoroso ammasso di panzane.

Lasciamo stare chi abbia pronunciato la famosa descrizione dei sardi come pochi, scemi e disuniti. A occhio, anche tralasciandone la vera paternità attribuibile all’arcivescovo Antonio Parragues de Castillejo, non sembrerebbe proprio plausibile che possa averla espressa Carlo V, che i sardi manco sapeva chi fossero e, soprattutto, non gliene poteva fregare di meno (a patto che rispondessero ai suoi voleri, chiaramente). Megalomania dell’insulto? Forse. Il nostro complesso di inferiorità gioca questi scherzi. In ogni caso, quel che c’è da rimarcare a proposito di questa massima così icastica e di successo è che mal si concilia con la realtà storica di una popolazione le cui comunità hanno per secoli condiviso la proprietà della terra, ossia del bene più prezioso e vitale di tutti.

Caso mai gli istinti predatori e l’invidia che ne consegue sono il frutto dell’applicazione brutale di modelli esogeni, calati dall’alto, avvenuta negli ultimi duecento anni, dall’Editto delle Chiudende ai Piani di Rinascita. Il frutto rancido di una Modernità imposta nei suoi meccanismi di appropriazione e di sfruttamento ma non nel suo patrimonio di controspinte sociali e politiche. Da noi il connubio tra capitale e democrazia, teorizzato come motore “espansivo” della Modernità stessa da Gramsci e dato per finito in questi anni da alcuni osservatori più attenti, non si è mai compiuto del tutto.

Quanto all’essere pochi, se non ci fossero state la peste nera e la guerra contro i catalano aragonesi a dimidiarci nella seconda metà del Trecento, certamente ci saremmo presentati al giro di boa della Modernità in condizioni demografiche migliori. Ma anche qui, la vera svolta è stata la grande “transizione demografica” che tra Settecento e Novecento ha estratto l’umanità dell’Europa e di altre aree fortunate del pianeta dall’antico regime, consentendo una speranza di vita maggiore e una esistenza materiale non più totalmente dipendente dai capricci climatici e da fattori restrittivi molto più potenti delle risorse di risposta di cui si disponeva. Il problema è che mentre intorno a noi si sviluppava – anche in termini problematici – tale transizione demografica, noi finivamo definitivamente (per ora) nel gorgo micidiale della subalternità, con la ciliegina dell’appartenenza all’Italia. Il che andava benissimo alla nostra elite dominante, ben lieta di non doversi assumere responsabilità di sorta, se non quella di fare da intermediaria tra il potere esterno di riferimento e il territorio di cui garantiva controllo e subordinazione (traendone vantaggi non indifferenti, non c’è bisogno di dirlo). Andava un po’ meno bene alla vasta maggioranza dei sardi. Che infatti presero ad andarsene, senza aver ancora smesso. Ma non c’è nulla di atavico, in tutto ciò: pura storia contemporanea.

La follia, poi, magari legata alla stessa invidia, non mi pare proprio una caratteristica precipua dei sardi. Non riesco a scorgere sul pianeta una popolazione che ne sia del tutto indenne.

La stessa causa storica solitamente chiamata sul banco degli accusati – l’isolamento – è un feticcio ormai consunto dall’uso. La Sardegna non è mai stata isolata da che gli esseri umani hanno preso ad abitarla stabilmente, diecimila anni fa. In proporzione ai mezzi disponibili, il vero embargo della nostra isola coincide con la nostra regionalizzazione, tra seconda metà dell’Ottocento e i giorni nostri. Ed anche qui, vediamo come sia tutt’altro che impermeabile. Per altro, niente esclude che da qui a poco saremo ancora più isolati, visto come girano le cose e quanto poco la nostra classe politica mostri di essere in grado di rispondere alle nostre esigenze vitali.

Scambiare peculiarità storiche, economiche, sociali e culturali per una forma di malattia congenita discende principalmente dallo sguardo scisso, subalterno e “regionale” con cui da centocinquant’anni siamo ridotti a guardare a noi stessi. Le divisioni, i campanilismi, gli egoismi fanno parte della nostra natura di esseri umani, non di quella di sardi. Il problema, caso mai, è che da noi tali tratti della nostra indole animale sono stati abilmente usati come strumento di dominio, in una realtà che doveva necessariamente rientrare a qualsiasi costo nella tassonomia normalizzatrice dell’unificazione “nazionale” italiana.

In definitiva, più che gingillarsi con luoghi comuni da bar, sarebbe forse il caso che almeno i commentatori meno vincolati a interessi di parte si dedicassero a trovare i veri nodi delle questioni e magari a proporre soluzioni per scioglierli. Senza timidezze ideologiche e senza opacità culturali. Non è di luoghi comuni autocastranti che abbiamo bisogno per tirarci fuori dei guai. Le esaltazioni etnocentriche e le manie di grandezza da repressi, così diffuse dalle nostre parti e che gli osservatori più avvertiti relegano nel novero delle patologie culturali, non sono in fondo che una risposta al vuoto di identificazione e alle lacune storiche di cui pure la nostra intellighentsia è ampiamente responsabile. Non può dunque essere essa stessa a condannare chiccessia senza prima essersi fatta un bell’esame di coscienza.