Una delle basi della modernità è il binomio stato/proprietà privata, che, in altri termini si potrebbe rendere con la coppia oppositiva democrazia/capitale. Sono generalizzazioni estreme, ma che sintetizzano gli elementi strutturali del mondo così come ancora in gran parte funziona e noi lo concepiamo, in quasi tutto il pianeta.
Non si tratta di una definizione che stabilisce uno status, ma di una relazione di tipo storico, dinamico, dialettico. Da tale connubio sono scaturiti sia i momenti più crudi di oppresione e deprivazione di interi popoli o di ampie fette dei popoli stessi, sia i momenti di emancipazione, libertà, progresso sociale, culturale ed anche economico di vaste masse umane.
I principi della Rivoluzione Francese convivono, nella Modernità, con le enclosures e le spoliazioni che hanno consentito l’accumulo del capitale primario e l’avvio delle rivoluzioni industriali e tecnologiche degli ultimi trecento anni.
Quel che appare oggi di questa opposizione è che forse è arrivata a uno stallo. Non si presenta più come una relazione dinamica. Sembra invece aver imboccato un’inerzia storica che conduce inevitabilmente al successo definitivo di un elemento sull’altro. O trionfa il capitale (inteso come logica e come modello di convivenza umana) o trionfa la democrazia (ossia, prima di tutto, il principio di uguaglianza e i diritti politici, civili e sociali dei cittadini). Oggi come oggi siamo 2 a 0 per il capitale e non sembra che la democrazia sappia inventarsi qualche strategia vincente. Il fatto che di questo passo si produrranno (e si stiano producendo) sofferenze e privazioni per miliardi di esseri umani è solo un effetto pratico del processo, del tutto neutro rispetto al funzionamento del medesimo. Il capitale non è malvagio, è semplicemente indifferente per la sorte del singolo fattore di produzione che non sia legata alla produzione stessa.
Per uscire da questo impasse apparentemente privo di sbocco politico una strada promettente sembra quella che punta sui “beni collettivi” o “comuni”. Dei beni collettivi manca una definizione giuridica condivisa, perché sono esclusi dall’orizzonte di senso degli ordinamenti giuridici così come partoriti dalla Modernità. Questi sono fondati sulla coppia stato/proprietà privata, dunque non possiedono categorie con le quali inquadrare dei beni (materiali e immateriali) che non siano o dello stato o dei privati.
Anzi, a dirla tutta, la Modernità si fonda proprio sull’appropriazione dei beni collettivi da parte di questi due soggetti storici. Soggetti storici che prima non esistevano. Non in tale forma, almeno: lo stato e i privati, appunto.
Pensiamo alla Sardegna, ad esempio. Fin dal Settecento l’intellettualità sarda liberale, più vicina alle idee illuministe, prescriveva l’abbandono del regime di comunione della terra in favore della “proprietà perfetta”, per dotare la Sardegna di una agricoltura moderna. Era vero, se per moderno si intendeva “capitalista”. Non era vero invece se con ciò si presumeva un automatico beneficio generale derivante dall’auspicato mutamento di regime. Ma si sa che le grandi idee spesso hanno con sé una zavorra ideologica che fa presto a diventare egemonica, sol che convenga alla parte più forte della collettività umana.
Ed ecco che nel 1820, dall’alto della sua magnanimità, il re di Sardegna Vittorio Emanuele I concede all’Isola povera, spopolata e denutrita, come il primo secolo di dominio sabaudo l’aveva ridotta, il suo famigerato editto delle chiudende.
Sappiamo tutti come sia andata. Un disastro su tutti i fronti. Impoverimento generalizzato da una parte e rapacità dall’altra. La rendita latifondista che prende il sopravvento su qualsiasi velleità economica innovativa. E questo sarebbe stato ancora poco, se non ci si fossero messe le ulteriori “riforme” degli anni successivi, dall’abolizione dei feudi (a carico delle popolazioni), all’applicazione in Sardegna del regime fiscale piemontese (con perfetta parità di aliquote e tutto il resto). E ancora, le speculazioni straniere sulle nostre risorse (miniere, saline, altre materie prime), l’abolizione definitiva di tutti gli usi civici (ademprivi), i dissesti bancari e, in definitiva, il tragico destino di essere ormai solo una piccola pedina sacrificabile in un gioco dove a contare erano ormai interessi nazionali altrui.
Nel nostro caso, dunque, la cancellazione dall’orizzonte economico e giuridico dei beni comuni (il primo dei quali fino a 190 anni fa era la terra) non solo c’è stata e ha rispettato in pieno la regola di rapace sottrazione che sta alla base del capitale, ma non è stata nemmeno accompagnata dalla relazione dialettica con la dimensione dello stato, quindi con le sue strutture istituzionali e ideologiche e con la sua evoluzione politica. Perché lo stato non ce l’avevamo e non ce l’abbiamo, come si sa. E non è la stessa cosa essere diventati una regione lontana, marginale e ininfluente di uno stato più grande. Anzi, questa condizione ha aggravato il quadro clinico.
In questo momento storico, in cui all’inizio conclamato della fase terminale della Modernità non corrisponde una visione nuova compiuta e proponibile per affrontare tale transizione, noi ci troviamo nella scomoda posizione di non poter nemmeno giocare dentro il conflitto finale interno alla coppia capitale/democrazia. Infatti è evidente la rapidità con cui da noi il primo stia soffocando definitivamente la seconda. Ossia, la sfera dell’interesse individuale (che nella macchina economica della Modernità dovrebbe essere un elemento dinamico) sta prevalendo senza trovare contrapposizione sui diritti e sulla vita dei lavoratori e di gran parte dei cittadini. Qualsiasi cosa rimanga di “pubblico” deve essere riassorbito nella sfera del “privato”, secondo le ormai note ricette di Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e BCE. Tanto meno può esistere qualcosa di “comune”, di indiviso, a disposizione di tutti.
In questo scenario, mettere in campo una nuova visone in cui al centro ci siano i beni comuni può servire sia ad arrestare la dinamica dissolutrice in cui siamo precipitati, sia a rifondare un patto sociale nuovo, con un orizzonte sensato cui far riferimento. Il che, in Sardegna, è indissolubilmente legato al discorso della sovranità e dell’autodeterminazione. Al discorso dell’indipendenza nazionale, insomma.
Perché quello è l’unico ambito in cui, tanto materialmente quanto giuridicamente, il discorso dei beni comuni può trasformarsi in politica, ossia in prassi, in progetto, in realizzazioni concrete.
Ci serve un percorso teorico e pragmatico fondato sui beni comuni e ci serve una prospettiva di sovranità o non avremo alcuno strumento né materiale né concettuale per affrontare la fase di passaggio di civiltà in cui siamo già immersi.