Il vuoto, il pieno, il giusto

A volte mi piacerebbe entrare nella mente dei nostri rappresentanti politici, in quella dei consiglieri regionali, degli assessori, dei presidenti di provincia, dei sindaci. Non per altro, ma almeno per capire dove stia la magagna. Una venuzza ostruita, una sinapsi mal collegata… Cos’è che rende così ottusi coloro che per ruolo e per scelta dovrebbero occuparsi della cosa pubblica? Possibile che – per quanto mediocri e/o lestofanti, dediti al proprio personale vantaggio o a quello dei propri mandanti – non si rendano conto che al di fuori di questa sfera di interessi così circoscritta esiste dell’altro?

Sono momenti di smarrimento da cui tendo a riprendermi presto, ovviamente. D’altra parte, un “viaggio allucinante” di asimoviana memoria nel cervello di Cappellacci, per dire, non credo che sarebbe molto adrenalinico. E lo stesso vale per tanti altri nostri esimi rappresentanti e/o governanti. Di solito immagino le conversazioni che questa gente intrattiene (almeno ogni tanto) col proprio cervello come quelle di Homer Simpson col suo. Non so se rendo l’idea…

Perché mi dilungo su questa cosa? Perché vedo che la mole di problemi cui dobbiamo fare fronte non trova non dico risposte convincenti e risolutive, ma nemmeno alcun credibile tentativo di affrontarli. Anzi, sembra che le poche cose che si fanno, nelle stanze e nelle sale dove si prendono le decisioni, siano precisamente quelle sbagliate.

Che si tratti della nuova caserma dell’esercito italiano a Prato Sardo (Nuoro) o dell’invasione dei centri commerciali, di soldi nostri da chiedere indietro o di febbri del Nilo e pesti africane, di trasporti o di scuola, di ambiente o di urbanistica. Non c’è ambito, questione o vertenza in cui la classe politica sarda attualmente dominante dia l’impressione di saper intervenire secondo necessità. Anzi, spesso dà l’idea di non averne proprio l’intenzione, per incapacità profonda e per inerzia, prima ancora che per cattiva volontà. Come se fosse stata selezionata scientemente. Del resto, la prassi di “cercare il più tonto” per i posti di responsabilità non è certo stata inventata oggi, in Sardegna. Perché a chi ha interessi da coltivare “conviene trattare con gente cieca”.

È un problema anche di cultura civica diffusa, di senso di responsabilità dei cittadini verso quella stessa sfera pubblica che poi viene chiamata in causa per la sua incapacità di risolvere i problemi. Così capita di continuo che gli stessi che hanno votato Tizio o Caio sulla base di promesse assurde o di piccoli favori meschini, poi vadano a fare chiasso sotto le loro finestre, a Palazzo, per protestare. Ma come – dico io – non lo sapevate da prima che genere di gente stavate votando?

Emerge con prepotenza la necessità di una nuova pedagogia. Di una pedagogia del vivere comune, del linguaggio di base, delle relazioni fondamentali. Occorre rieducarci a uno sguardo aperto, sollevato dal nostro ombelico (che tanto non scappa), alla cura per ciò che è di tutti (e non di nessuno, come si suole credere). Bisogna ribaltare l’idea ottusa che l’interesse individuale sia incompatibile con l’interesse collettivo e che qualsiasi vantaggio ottenuto da un altro vada a discapito del mio. Perché se sta meglio il mio vicino, è più facile che stia meglio anche io.

E bisogna anche reimparare a investire sul futuro. Dobbiamo impossessarci del nostro tempo e metterlo a frutto in nome di una continuità. Perché i nostri figli sono già qui e ci saranno presto anche i nostri nipoti. Non ce la faremo a scomparire tutti, prima che ci chiedano conto del disastro che stiamo lasciando loro. Il che significa che dobbiamo essere pronti a rinunciare a un piccolo vantaggio immediato (spesso illusorio) per poter conquistare un bene più grande e meglio distribuito domani o tra un anno o tra dieci anni.

L’aria, la terra, l’acqua, il sapere, le relazioni umane, la salute, l’arte, la bellezza, la storia sono tutti beni che dobbiamo coltivare e trasmettere, non consumare come calzini buoni per una stagione. Non c’è guadagno che tenga, in confronto con l’importanza di queste risorse. E chi non se ne cura pur essendo chiamato a farlo non è degno di rispetto, tanto meno di essere riconfermato in un posto di responsabilità. Questo dobbiamo capirlo e metterlo in pratica tutti, e al più presto. Non farlo è un crimine contro noi stessi e contro chi ci seguirà. E non ci sono attenuanti che tengano.