Il primo turno delle elezioni francesi ha dato un esito che è stato variamente commentato. In generale però è stata data ampia visibilità alla sconfitta del partito presidenziale e alla concomitante mezza vittoria del partito rivale.
Poca enfasi, se non in qualche commento radiofonico più meditato, è stata messa nel sottolineare invece il risultato più rilevante della tornata elettorale: l’astensione.
Non solo in media è stata di proporzioni notevoli, ma in certe località (tipo la vasta banlieu parigina e altre zone periferiche o suburbane) ha sfiorato e in certi casi superato l’80%.
Lasciamo stare la considerazione, un po’ speciosa, che si trattava di elezioni regionali con un valore politico relativo (non è affatto vero, anzi! ma va be’). Il problema è che si conferma anche qui, per l’ennesima volta, come la democrazia c.d. rappresentativa sia sempre meno fedele alla propria denominazione.
Sappiamo che da molti anni, in quella che viene retoricamente celebrata come la più grande democrazia del pianeta (gli USA, ma che dovrebbe dire l’India, allora?), le percentuali dei votanti sugli aventi diritto sono sempre modeste. Ma sembrava un fenomeno circoscrivibile, in queste dimensioni, a quell’emisfero. Invece, ormai da un po’, ne abbiamo ampie dimostrazioni anche sul Vecchio Continente.
Ricordiamo ad esempio – per venire ai fatti di casa nostra – che alle scorse elezioni regionali sarde un buon terzo degli aventi diritto ha rinunciato ad esprimersi e alle successive elezioni europee la percentuale delle astensioni è cresciuta ulteriormente (arrivando ai due quinti).
Il fatto che il fenomeno sia generalizzato non deve indurre in consolatorie alzate di spalle circa una pretesa fisiologia dei meccanismi della democrazia contemporanea. Sarebbe ora che ci si mettesse di buzzo buono per capire a cosa sia dovuta la circostanza, a mio avviso patologica in queste proporzioni, che un momento da tutti santificato come fondamentale in un regime democratico quale quello del voto sia ridotto ormai a una fastidiosa incombenza con poche conseguenze concrete, a parte il disturbo di prenderla sul serio.
È ora di ripensare al modello di democrazia che vogliamo consegnare ai nostri posteri. Quello attuale (dove esiste) è strettamente legato alla rivoluzione borghese europea e nord-americana. E nemmeno in tali aree ha avuto il medesimo successo e il medesimo compimento.
L’idea che basti esprimere un proprio generico diritto al voto (spesso slegato in realtà da qualsiasi scelta dei propri rappresentanti: vedi caso Italia) per considerarsi cittadini di una democrazia mostra ormai tutti i suoi limiti.
Nietzsche (non certo uno che passa per essere stato un fervente democratico) sosteneva che, laddove non si sia provveduto ad eliminare la classe dei troppo ricchi e quella dei nullatenenti, non possa esistere alcuna democrazia. A modo suo, faceva un discorso egualitarista.
Una constatazione banale, in realtà. Pure, evidentemente non tanto banale da essere presa in considerazione nell’edificazione concreta dei nostri regimi politici. Che sono certo evoluti e ben degni di essere esportati, anche con la forza, ma di fatto poco propensi a far coincidere la realtà con i principi sbandierati.
Scindere l’ordinamento giuridico dalle condizioni economiche e culturali ad esso sottese non è propriamente un buon viatico per la sua durata e per il suo equilibrio. Sarà il caso di pensarci un po’ su?
Per citare sempre il vecchio Friedrich, probabilmente bisognerà trovare un’altra carrozza, non limitarsi a cambiare i cavalli a quella vecchia.