Di cosa si parla quando si parla di Sardegna (1. Introduzione).

Una delle esperienze più tipiche che possano capitare a un sardo fuori dell’isola natia è rimanere perplesso davanti a ciò che i non sardi sanno e dicono di noi e della Sardegna. In perfetta buona fede ancora oggi, nonostante il gran numero di turisti che animano le estati sarde, si sentono ripetere luoghi comuni a volte semplicemente assurdi, altre volte più banalmente ridicoli, altre volte ancora (spesso inconsapevolmente) sconfinanti nel pregiudizio razziale. In generale, tutti fondati sulla misconoscenza di ciò che ci riguarda.

Questo sarebbe il minimo, vista la diffusa ignoranza dell’italiano medio su qualsiasi argomento. In realtà nel caso della Sardegna la scarsa conoscenza è resa ancor più profonda dall’immagine trasmessa e propalata attraverso i mezzi di comunicazione nel corso non degli ultimi decenni, ma sin dalla notte dei tempi storici. Disinformazione sistematica, dovuta spesso alla difesa di interessi particolari del tutto esterni rispetto alla Sardegna.

L’elencazione, sia pure sommaria, potrebbe cominciare con la mitografia greca a proposito dell’isola, tutta volta a rivendicare (alla faccia dei cartaginesi) la parentela degli elleni col grande popolo dei Sardi, costruttori di torri, maestri della fusione del bronzo, abitatori dell’Isola dalle vene d’argento (“arghyrophleps nesos”, si legge nello scolio al Timeo di Platone). Possiamo proseguire quindi con l’immagine di selvaggi montanari coperti di pelli, riottosi a qualsiasi forma di vita civile e persino inadatti a diventare buoni schiavi, che sui sardi ci trasmettono le fonti romane. In tempi più recenti, a parte la parentesi medioevale in cui l’accusa più diffusa era di incomprensibilità della lingua, troviamo la nota (e abbastanza giustificata) sentenza del vescovo di Alghero in risposta alla domanda dell’imperatore Carlo V circa i sardi: “pocos, locos y mal unidos”. Più in qua nel tempo, si potrebbero segnalare le corrispondenze malevole e spesso esplicitamente razziste dei funzionari piemontesi di servizio sull’isola o, nel corso dell’Ottocento, l’astio di un grande romanziere come H. de Balzac verso una terra e un popolo che non gli avevano dato le soddisfazioni (economiche) da lui sperate. Ancora a ridosso del Novecento, quando pure qualche spirito nobile nativo dell’isola si era distinto in ruoli meno provinciali, basta leggere il romanzo di Giulio Bechi Caccia grossa (ne esiste una recente edizione della Ilisso di Nuoro) per trovarci dinanzi nientemeno che un paragone con la lontana Patagonia, quanto a esoticità da domare. Anche le cronache più generose hanno connotazioni paternalistiche a volte trasparenti, come in un rapporto tra un osservatore civilizzato e il classico buon selvaggio. Oppure ci si lascia andare ad asserzioni pseudoscientifiche esplicitamente razziste (vedi NICEFORO A., La delinquenza in Sardegna, 1897), per giustificare lo stato di inferiorità intrinseco nella genia sarda. Salvo scoprire improvvisamente il valore dei “sardi indomiti”, in occasione della Grande Guerra, strumentalizzando e mettendo a profitto lo spirito di corpo dei fanti isolani della Brigata Sassari (per inciso, ancor oggi unico reparto delle forse armate italiane costituito su base etnica).

Si potrebbe pensare che la musica sia cambiata da quando i sardi hanno avuto i mezzi per parlare di se stessi. Questo è vero solo in una misura ridotta e solo a partire da epoche recentissime. In realtà, per restare in ambito storiografico, con tutti i dovuti distinguo sui singoli casi, la produzione cronachistica e storica sarda si è generalmente incanalata in schemi allogeni, aderenti al sistema dominante (dal Fara a Proto Arca, a – beninteso, con ben altro spessore – G. Manno, sino alla storiografia contemporanea). Dunque anche nel corso del XX secolo la manualistica e la saggistica storica hanno usato per lo più lenti fabbricate altrove, per guardare alla nostra vicenda storica, politica e culturale. E’ mancata un’elaborazione critica consapevole, dall’interno, che consentisse l’emancipazione della nostra coscienza collettiva, della nostra memoria, a un livello generale. Questo nonostante la Sardegna si prestasse e si presti tutt’ora a fornire moltissimo materiale di riflessione, sia dal punto di vista antropologico, sia da quello eminentemente storico, e nonostante le grandi menti emerse dalla comunità isolana tra Otto e Novecento (da Giorgio Asproni, ad Antonio Gramsci ed Emilio Lussu, tanto per fare qualche esempio).

Più di recente, anche la potente analisi di Michelangelo Pira, che intendeva fornire le basi per un rovesciamento dell’ottica dominante (la Sardegna e i sardi non più oggetto della storia e della narrazione, ma finalmente soggetti; vedi PIRA M., La rivolta dell’oggetto, Milano, Giuffré, 1978) ha avuto più consensi che prosecutori. Se è vero che presso l’opinione pubblica sarda nel secondo dopoguerra sono cresciute progressivamente le pretese di rispetto e le rivendicazioni di valore per la nostra cultura, dal punto di vista storiografico e da quello dell’immaginario collettivo il posto della Sardegna è rimasto vincolato a clichè e schematismi alieni difficili da sostituire.

Di fatto, dunque – tornando all’assunto iniziale – ancora oggi, della Sardegna, della sua gente, della sua storia, oltremare si sa poco e quel poco che si sa è spesso tendenzioso o errato. E, sebbene nell’ultimo decennio del secolo trascorso si siano manifestate le avvisaglie di una crescita della consapevolezza diffusa, anche a livello teorico, l’intellettualità sarda non è ancora riuscita ad imporre una visione alternativa ai modelli esogeni.

E’ un fenomeno meritevole di analisi e approfondimento.