Quando si parla di Sardegna in ambiti teorici generali (in un testo storico, in una trasmissione televisiva, in un dibattito letterario, ecc.) ci si imbatte facilmente in eufemismi, in definizioni vaghe al limite dell’insignificanza, in imbarazzanti tentativi di “politicamente corretto”, che di solito rendono confuso il discorso o, spesso a dispetto delle intenzioni, ne accentuano gli aspetti pregiudiziali.
Si parla con disarmante facilità di “popolo sardo”, di “rilevante patrimonio culturale”, di specificità, di particolarità storiche, senza dare il minimo peso al significato e alle connotazioni di ciascuna di tali espressioni, ovvero si scantona nel pressappochismo attribuendo arbitrariamente a contesti storici e culturali generali quanto invece è propriamente specifico, ovvero ancora negando o sminuendo eventi e processi anche strutturali e significativi ma propriamente sardi che mal si adatterebbero al disegno generale in cui bisogna inserirli.
Qual è l’origine di tali fraintendimenti ed omissioni?
Fondamentalmente si tratta di un’origine ideologica, su cui vale la pena indagare: la forzata italianizzazione nelle ricostruzioni teoriche dei processi storici, culturali, politici della Sardegna.
Come si sa, la problematica unificazione politica dell’Italia ebbe la caratteristica quasi paradossale di essere stata guidata da un ceto dominante ben poco filo-italiano, come quello piemontese, per di più alla guida di una compagine statuale (il Regno di Sardegna) le cui origini, le cui vicende e le cui strutture socio-economiche e culturali, non solo erano quanto mai eterogenee al suo interno (dove si giustapponevano senza integrarsi Sardegna e possedimenti continentali dei Savoia), ma ancor meno si conciliavano con quelle degli stati della penisola italica. Questo ha comportato che dopo aver fatto l’Italia si dovevano ancora fare gli italiani. La sovrastruttura ideologica, con cui si sono giustificate e poi difese e consolidate l’unificazione dell’Italia e le dinamiche socio-economiche su cui essa è incardinata, ha orientato l’intellettualità italica verso il reperimento di una storia comune da porre alla base dei processi politici in corso. Tale produzione ideologica, dopo la crisi degli anni Sessanta-Ottanta del Novecento, ha ripreso vigore ed è in corso ancora oggi.
Come si inserisce la Sardegna in tale contesto? Certamente in modo problematico. Rimaniamo in epoca moderna e contemporanea. A leggere i documenti (che certo non esprimono la sensibilità e la coscienza di sé dell’intera popolazione sarda), anche quando si impone l’uso della lingua italiana come lingua di cultura e dell’amministrazione (ossia tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo), nessun autore sardo (nemmeno il Manno, pure apertamente filo-sabaudo) avanza anche solo implicitamente la confusione culturale o storica tra l’isola e i suoi abitanti e le altre terre e popolazioni su cui regna la Casa Savoia. Tanto meno si pone il problema di accomunare la Sardegna con altre terre italiche. Se era stata quasi completamente rimossa ogni memoria circa il periodo giudicale, restavano però molto saldi, ancora all’inizio dell’Ottocento, i legami storici con la penisola iberica. Troppo saldi e radicati perché ad essi si potessero arbitrariamente sostituire improbabili legami con l’Italia (Il La Marmora nel suo Itinerario dell’Isola di Sardegna riporta l’episodio di un suo scontro polemico col sindaco di Alà dei Sardi, il quale nell’occasione si disse pronto ad arrivare sino a Madrid pur di vedersi riconosciute le proprie ragioni!). Verso la metà del XIX secolo, quando ormai la residua statualità autonoma sarda era stata liquidata nell’Unione Perfetta con gli stati continentali (1847), cominciò a manifestarsi una visione delle cose parzialmente diversa, diciamo anche un poco schizofrenica, nell’intellettualità sarda. Si trattava di un ceto intellettuale assolutamente organico alla nascente borghesia liberale, abbastanza filogovernativo per raggiungere cariche e posti di responsabilità di qualche rilievo, ma contemporaneamente desideroso di riscattare la dignità storica e culturale della propria terra d’origine. Il Manno può essere annoverato tra i pionieri di tale leva di quadri amministrativi, burocratici e giurisdizionali che tentarono la prima sprovincializzazione dell’isola. Beninteso, sulla base della propria appartenenza sociale e dei propri convincimenti politici. La schizofrenia sta nel fatto che si tentava di conciliare e far procedere di conserva due tendenze opposte: la fedeltà alla Corona e alle pulsioni risorgimentali moderate, da una parte; dall’altra, l’emersione della storia della Sardegna, della sua cultura, della sua lingua ad un livello sovra-provinciale. Tendenze opposte perché, se portate alle ultime conseguenze, avrebbero finito inevitabilmente per creare paradossi inestricabili ovvero collisioni esplosive. All’interno di questo movimento politico-culturale nacquero quasi contemporaneamente tanto gli entusiasmi per le false Carte di Arborea (nelle quali si documentavano sia la rilevanza delle antiche istituzioni statuali isolane, sia la nascita in Sardegna nientemeno che del volgare italico), quanto le prime espressioni del pensiero autonomista (i vari Tuveri, Asproni ed altri). Ancor prima che il Risorgimento conducesse all’inaspettata e poco voluta Unità d’Italia, la Sardegna faceva i conti con le conseguenze della propria inclusione in una compagine statuale più estesa, dalle caratteristiche geografiche, economiche e culturali quanto mai diverse, in posizione di fatale subalternità.
Ormai il dado era tratto. Da stato sovrano a provincia emarginata e sottosviluppata il passo, benché a ben guardare solo di natura formale e giuridica, non era stato breve. Per di più il danno era irreparabile. Altre esigenze premevano su Casa Savoia e sul nuovo ceto dominante, non più sardo-piemontese ma ormai italiano. La Sardegna non era più la fonte della legittimità monarchica dei regnanti, né una porzione cospicua del territorio statale. Era un territorio d’oltremare la cui unica attrattiva erano le risorse che vi si potevano reperire e mettere a frutto. Di un’economia coloniale, nell’immaginario collettivo (ideologico), poteva esistere solo una proiezione colonialista. Le voci dei primi autonomisti, benché sempre caute, non trovavano riscontro se non in generiche attestazioni di stima e in promesse di attenzione da parte dell’Autorità sovrana. Nei fatti, la noncuranza verso i sardi e la loro terra fu sempre esplicita, spesso anzi degenerò nella repressione violenta (che si trattasse di moti popolari contro le Chiudende e l’abolizione degli antichi usi civici, o di fenomeni più propriamente banditeschi, poco cambiava, nella risposta istituzionale). Qualsiasi pretesa di attribuire dignità alla storia e alla cultura dei sardi venne incanalata opportunamente in ambito folklorico, come espressione di una porzione minoritaria e poco significativa di una compagine “nazionale” più ampia, il cui baricentro socio-economico-culturale era piuttosto lontano dall’isola. Quando, negli anni Novanta dell’Ottocento, la situazione arrivò a un limite estremo di degrado (specie per via delle recrudescenze criminali, o definite tali), la commissione parlamentare incaricata dal governo Crispi di far luce sui mali della Sardegna, guidata dal deputato Pais-Serra, riuscì a mettere in luce con una certa chiarezza cause ed effetti, ma ne scaturì una determinazione ancor più feroce ad usare la sola leva militar-repressiva, senza tentare minimamente di incidere sulle strutture produttive-distributive e sulle dinamiche politiche. La base teorica all’operazione “Caccia Grossa” (come la definì lo scrittore Giulio Bechi nell’omonimo romanzo ad essa dedicato) venne fornita dagli studi lombrosiani di A. Niceforo (il suo La delinquenza in Sardegna è del 1897, di due anni precedente la spedizione punitiva di cui sopra). Il sardo è congenitamente delinquente, si sosteneva, non basterebbe a redimerlo tutta la buona volontà e la condiscendenza del mondo. La reazione polemica a tali prese di posizione, cui era chiamata l’intellettualità sarda, non mancò. Tanto Grazia Deledda (pure in partenza non ostile agli studi dei lombrosiani in Sardegna), quanto Sebastiano Satta, allora entrambi autori emergenti nel panorama italiano, si schierarono con enfasi diversa ma comunque esplicitamente, a difesa della dignità dei conterranei. Con pochi risultati, a dire il vero. Del resto, in generale, l’esigua e poco progressiva borghesia isolana si guardava bene dal sollevare questioni radicali e risolutive circa i problemi sardi. Tanto meno i personaggi politici più i vista, come F. Cocco-Ortu, parlamentare di lungo corso e ministro giolittiano, abbandonarono la comoda via del clientelismo e della difesa interessata dello status quo. Le repressioni di Bugerru (1904) e della sollevazione popolare di Cagliari (1906) lasciarono qualche traccia nella cronaca e qualche esito nelle vicende del sindacalismo italiano, ma quasi nessun effetto sulla situazione sarda. Per tutti l’isola era una terra economicamente e demograficamente povera, quasi un peso morto che il Regno d’Italia doveva portarsi appresso per antichi vincoli di gratitudine maturati dalla casa regnante (che, come è noto, vi aveva trovato rifugio in epoca napoleonica), ma senza alcun trasporto emotivo. Salvo sfruttarne ampiamente le risorse e accumularvi fortune, da investire o mettere al sicuro altrove, ovviamente. La stampa locale, in mano al ceto padronal-parassitario, era quanto mai distaccata da ogni velleità riformistica, sia pur blanda. L’immagine di sé dei sardi medesimi era quella di vittime di una condizione ancestrale di grettezza, miseria e arretratezza, da cui nessuna forza umana sembrava in grado di estrarli. L’ideologia dominante era introiettata dall’uomo comune fino a giustificare lo stato delle cose. Chi si ribellava alla situazione lo faceva senza alcuna coscienza politica, in nome di una sorta di anarchismo individuale che non trovava sbocchi in alcuna istanza consapevolmente condivisa. La classe intellettuale, anche quella formatasi negli anni intorno alla Grande Guerra, alla luce del riscatto pagato col sangue dei fanti sardi nelle trincee del Carso e dell’Altipiano d’Asiago, non poteva prescindere dall’immagine mortificante che della Sardegna esprimevano tanto le gazzette quanto i libri di storia. Persino menti più aperte e votate al cambiamento, come Gramsci e Lussu, si guardarono bene dal tentare di rivedere gli schemi teorici consolidati. Tutt’al più arrivarono a parlare della Sardegna come una “nazione mancata”, quasi a dare per infondata qualsiasi possibile rivendicazione culturale o politica alternativa. Allorché in parlamento, prima dell’imposizione della dittatura fascista, qualcuno fece balenare l’ipotesi che per la Sardegna si aprisse una strada simile a quella intrapresa dall’Irlanda in quegli anni (formale autonomia e effettiva indipendenza dal Regno Unito, 1921), lo steso Lussu rifiutò categoricamente la sola idea. Al di là delle ragioni di realismo politico, ciò evidenzia la poca coscienza di sé e la mancanza di autostima di cui soffrivano persino gli spiriti più onesti e coraggiosi. D’altro canto, lo stesso programma del Partito Sardo d’Azione, radicale ma non indipendentista, rimase lettera morta, sia a causa dell’avvento del regime fascista, sia a causa di debolezze intrinseche ad una compagine la cui composizione sociale era troppo eterogenea per dar vita a un movimento forte e determinato. La componente politica indipendentista rimase assolutamente minoritaria e quasi assente dal dibattito generale pre e post fascista. La storiografia non prese affatto in considerazione altra impostazione che quella canonica, accademica, di matrice romantico-risorgimentale. Altre scienze umane non esistevano o, come la linguistica (per altro promossa fondamentalmente dagli studi di M.L. Wagner), erano troppo marginali per condurre ad un rivolgimento teorico complessivo. Solo a fatica e solo dagli anni Sessanta del Novecento, in realtà, l’impostazione consolidata circa le cose sarde (tanto quelle attuali, quanto quelle del passato) ha cominciato a mutare, sia pure poco a poco e in modo contrastato. Troppi interessi forti (militari ed economici, in primis) erano determinati a tenere l’isola in uno stato di inferiorità strumentale alle proprie esigenze strategiche. D’altra parte la classe dominante sarda era ancora quella di tipo clientelare, maturata sin dal secolo precedente, portatrice di una visione patrimoniale dei ruoli istituzionali e burocratici che dura praticamente ancora oggi. Nemmeno l’economia coloniale ha mutato segno. Si è aggiunta, mercé il debello della malaria, la speculazione turistico-immobiliare e quella industriale. Entrambe propagandate come risolutive dei mali storici dell’isola, ma in breve rivelatesi fini a se stesse ed anzi socialmente ed economicamente destabilizzanti. A compenso di tale inerzia produttiva e politica, nel secondo dopoguerra sono cresciuti la scolarizzazione e l’accesso a mass-media universalizzanti (prima la radio, poi la televisione, infine l’informatica) e con essi la larga diffusione di strumenti critici presso un’opinione pubblica in fase di drastica mutazione. La stessa cultura tradizionale, benché travolta dalle novità e in gran parte marginalizzata in ambiti di devianza, ha resistito ed ha imparato a sopravvivere servendosi dei mezzi della modernità. Le dinamiche economiche, demografiche e sociali sono state finalmente analizzate con metodi nuovi e libertà di giudizio crescente da una classe intellettuale più aperta e meno organica al potere costituito. Alla fine degli anni Settanta M. Pira, sostenendo la necessità del mutamento di status della Sardegna da oggetto della storia e della cronaca a soggetto attivo e partecipe, poneva i presupposti per un ribaltamento totale della prospettiva teorica e politica sotto cui valutare la situazione sarda.
È dunque definitivamente mutata da allora la visione della nostra storia, della nostra cultura, delle cause dei problemi e delle risorse della Sardegna? Direi di no. Non ancora, o solo in parte. Proprio l’ostinata perpetuazione dello schema italo-centrico rende vano ogni tentativo di libertà critica e di arricchimento teorico. Ancora oggi nelle università sarde fa fatica ad imporsi l’emancipazione dai percorsi di ricerca canonici.
In proposito farò solo qualche esempio, che ritengo significativo. Innanzi tutto devo segnalare che non esiste (a metà dell’anno 2007) un testo di storia sarda il cui centro focale siano i sardi stessi, non una forza politica ed economica esterna (i Romani, i Bizantini, i Pisani, i Genovesi, gli Aragonesi) ovvero l’autorità costituita straniera (la Corona Spagnola, i Savoia, lo stato italiano). Le “Storie” della Sardegna, nella quasi totalità dei casi scritte da sardi, sono piene di resoconti e ricostruzioni relative per lo più a compagini, formazioni sociali e ordinamenti giuridici che in Sardegna avevano l’oggetto del loro interesse, possedimenti o autorità politica, ma si dedicano poco e marginalmente (sia pure con qualche eccezione, vedi per esempio SOTGIU G., Storia della Sardegna sabauda, Roma-Bari, 1984) ai sardi in quanto tali, alle loro dinamiche ed articolazioni produttive, sociali, culturali e politiche. Il tentativo di F.C. Casula di reimpostare la storiografia sarda esaltando il livello evenemenziale e statuale dei processi politici (cfr. CASULA F.C., La storia di Sardegna, Cagliari-Pisa, 1994) rimane isolato e per di più basato su una visione nonostante tutto provinciale: la storia sarda sarebbe importante perché si inserisce in modo determinante nell’ambito della storia italiana. Come si vede è quasi un paradosso. Se la storia sarda riveste un qualche interesse sovra-locale è per sua virtù intrinseca, per la natura singolare ed esemplare di molti processi storici che vi si sono sviluppati, per la tipicità delle sue dinamiche culturali, ecc. Cercare di inserirla quasi a forza in un contesto alieno, allo scopo di renderla più accettabile o interessante, non serve ad altro che a sminuirne la reale portata. La storia sarda non è una parte rilevante di una storia nazionale altra da sé, bensì una parte rilevante della storia europea ed occidentale generale, come la storia di qualsiasi altro territorio o popolo, al di là del contingente e per certi versi fortuito inserimento della Sardegna nel contesto statuale italiano.
Un altro esempio significativo. A proposito di lingua sarda, benché sia quasi definitivamente risolta la vexata quaestio circa la natura da attribuire agli idiomi isolani, si pongono problemi socio-linguistici ulteriori. Da una parte ancora recentemente si esprimeva esplicita ostilità verso il bilinguismo e la pretesa dei sardi di usare la propria lingua in ogni contesto e su ogni tema possibile, allargandone i confini lessicali e ampliandone gli ambiti d’uso (vedi in proposito: DURANTE M., Dal latino all’italiano moderno, Bologna, 1981). Si manifesta cioè una resistenza alquanto radicale al fatto che tra i sardi esista una naturale tendenza a non volersi sbarazzare a cuor leggero del proprio patrimonio culturale a favore di quello italiano, pure ormai in parte interiorizzato, ma pur sempre imposto dall’esterno. Da un altro lato, anche in Sardegna, si insiste sull’intensità dei rapporti storici tra cultura sarda e cultura italiana, facendoli risalire ovviamente all’epoca delle relazioni tra regni giudicali e Comune pisano, attestandone una sopravvivenza lungo tutto l’arco di tempo che separa quei secoli dall’epoca contemporanea. In particolare, sul tema segnalo: LOI-CORVETTO I., La Sardegna, in AAVV., L’italiano nelle regioni, Torino, 1992-4, I vol.; EAD., La Sardegna, in AAVV., L’italiano nelle regioni, Torino, 1992-4, II vol. Nei due saggi (nel primo in particolare), l’autrice enumera alcuni esempi di utilizzo del volgare italico e poi della lingua italiana da parte di appartenenti al ceto intellettuale e burocratico, in periodi in cui la Sardegna non era che regno minore della Corona Aragonese e poi di quella Spagnola, culturalmente inserita, sia pure in forme provinciali e marginali, in quel contesto politico. In questo caso, benché la fonte sia autorevole, la forzatura è palese. Non solo si prende in considerazione un uso della lingua ristretto ad una porzione sociale esigua e circoscritta (il ceto intellettuale-amministrativo, di estrazione ecclesiastica o aristocratica), ma si spaccia l’uso scritto di una delle principali lingue di cultura del tempo (specie nel XVI-XVII secolo) per un uso spontaneo e diffuso, come se la competenza linguistica dell’italiano fosse concorrente non dico col sardo, ma almeno col catalano e col castigliano. Cosa decisamente falsa. Non solo abbiamo testimonianze della quasi assoluta ignoranza dell’italiano in Sardegna sino alla fine del XVIII secolo (dopo che il governo piemontese ne aveva promosso l’uso almeno a livello amministrativo sin dai primi decenni e, massicciamente, dal 1760) e perfino oltre (ancora all’inizio dell’Ottocento si redigevano atti notarili in catalano e in sardo, ma non in italiano); ma se ampliamo lo sguardo agli strati popolari (ossia alla stragrande maggioranza dei sardi), bisogna pur sottolineare che ancora al momento dell’Unità d’Italia in Sardegna aveva una conoscenza almeno passiva dell’italiano una percentuale minima della popolazione, il 5, forse il 10%, ad essere di manica larga. Nel 1861 la percentuale degli analfabeti in Sardegna, cioè di coloro che non sapevano leggere e scrivere in italiano, era del 91,17% (cfr. PIRA M., La rivolta dell’oggetto, Milano, 1978; del resto, sul tema basta consultare: DE MAURO T., Storia linguistica dell’Italia unita, Roma-Bari, 1963). Quasi nessuno, insomma, lo parlava e moltissimi non lo conoscevano che poco o nulla. In ambito letterario – a parte gli scritti teorici, linguistici, storici, destinati ad un pubblico fondamentalmente non sardo e di estrazione alto-borghese, accademica, ecc. redatti in italiano a partire dagli ultimi decenni del XVIII secolo – l’italiano era usato marginalmente. Ma la poesia popolare (ossia quella a vasta diffusione spontanea), anche quando veniva scritta e stampata, era poesia in sardo (com’è tutt’ora, del resto). Cosa rimane dunque della tesi della Loi-Corvetto? Ben poco direi, se non la manifestazione di un’adesione acritica a modelli esogeni piuttosto dura a morire.
Per cambiare punto di vista, e metterci dalla parte dei non sardi, bisogna sottolineare che accedere a informazioni corrette sulla Sardegna è ancora molto difficile. Per esempio, chi studia in buona fede la storia italiana, anche a livello universitario, non ha che pochissime e vaghe notizie sulla Sardegna. Della storia giudicale non c’è traccia nei testi generali e ben poco se ne trova in quelli specialistici o nelle monografie (di più nei testi esteri). In un manuale di storia medievale, ormai datato ma utilizzato sino ad anni molto vicini a noi (VILLARI R., Storia medievale, Roma-Bari, 1969) si dice esplicitamente in un riassunto cronologico tra un capitolo e un altro: “1016, Pisa conquista la Sardegna”. Tale evento non è MAI avvenuto.
Proseguiamo. Della lunga parabola del Regno di Sardegna, benché radice storica e giuridica del Regno d’Italia, in genere non si fa cenno almeno fino al momento dei primi moti risorgimentali. In una recente trasmissione televisiva di grande ascolto (il programma “Ulisse: il piacere della scoperta” curato da Piero e Alberto Angela) si parlava addirittura di “regno piemontese”, senza il minimo riferimento, nemmeno fuggevole, alla Sardegna. In un’edizione non particolarmente datata della Divina Commedia (Milano, 1991), nel commento al v. 82 del canto XXII dell’Inferno, si informa che “quel di Gallura“, come dice Dante, è “uno dei quattro giudicati in cui i Pisani divisero la Sardegna”. Anche qui, una falsità storica grossolana, alquanto inaccettabile al giorno d’oggi.
Allo stesso modo, simmetricamente, è del tutto fuorviante presentare la cultura tradizionale sarda come espressione della cultura nazionale italiana. Nel 2007 si è svolta in Giappone una grandiosa manifestazione culturale organizzata dai due paesi, con tanto di esposizione di celebri dipinti (tra gli altri, persino l’Annunciazione di Leonardo), concerti, mostre agroalimentari, ecc. A rappresentare la tradizione culturale italica è stato chiamato un coro a tenore sardo. Certo, si tratta pur sempre di cittadini italiani, ma perché voler trasmettere un’idea tanto fuorviante? Pressapochismo, si dirà. E forse opportunismo. Il discorso può essere serenamente esteso a tutti gli ambiti della comunicazione e dei media.
Rimane da analizzare la ragione di tutto ciò. Ho parlato più sopra di ideologia. Intendo dire che, consapevolmente o meno, da sempre si è cercato di creare una falsa coscienza della realtà, in primis tra i sardi, quindi anche negli osservatori estranei: da una parte negare che in Sardegna si sia mai sviluppato alcun processo storico o culturale significativo, dall’altra inserire nel contesto italiano quanto di significativo si è verificato o è rimasto. In nessun altro modo si sarebbe potuta mantenere e giustificare l’imposizione di un sistema culturale, linguistico e insieme economico-produttivo e politico quasi completamente alieno, in una terra come la Sardegna, caratterizzata da quella che G. Lilliu chiamava “costante resistenziale”. Evitare che nell’isola emergesse ed emerga definitivamente una coscienza di sé diversa da quella strumentale alla classe dominante ed alle sue espressioni economiche e politiche è lo scopo fondamentale di tale complesso ideologico. La consapevolezza della debolezza del sistema statuale italiano da parte della sua mediocre classe dominante e la sudditanza ad essa dei mass-media (adesso come e più che in passato) sono le ragioni e gli strumenti del processo così sviluppato. Un processo ancora in atto, cui naturalmente non è estranea la componente repressiva dell’apparato militar-poliziesco.
Tenere i sardi in uno stato di perenne minorità è stata una operazione a lungo vincente. Grandi interessi strategici, sia economici che militari, non solo e non necessariamente italiani, vedevano nella Sardegna uno strumento prezioso per perseguire i propri scopi, come tale da non lasciare in balìa alla libera determinazione di chi ci vive. La selezione di una classe dominante locale vincolata e dipendente dall’esterno ha fatto sì che il sistema si perpetuasse. Questo è il panorama che appare ad uno sguardo obiettivo. Al di là delle ricadute politiche che tale conclusione può avere, non si può negare la sua portata, né la si può tenere più a lungo nascosta.
Bibliografia
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BECHI G., Caccia grossa, Nuoro, Ilisso, 2000
BURGIO A., Gramsci storico. Una lettura dei “Quaderni dal carcere”, Roma-Bari, Laterza, 2003
CASULA F.C., La storia di Sardegna, Cagliari-Pisa, ETS, [1998?]
DE MAURO T., Storia linguistica dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 1963
DURANTE M., Dal latino all’italiano moderno, Bologna, Zanichelli, 1981
LOI-CORVETTO I., La Sardegna, in: AAVV. (a cura di F. Bruni), L’italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali, Torino, UTET, 1992-4, I vol., pp. 875-917
EAD., La Sardegna, in: AAVV. (a cura di F. Bruni), L’italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali, Torino, UTET, 1992-4, II vol., pp. 861-894
PIRA M., La rivolta dell’oggetto. Antropologia della Sardegna, Milano, Giuffrè, 1978
SOTGIU G., Storia della Sardegna sabauda, Roma-Bari, Laterza, 1984
VILLARI R., Storia medievale, Roma-Bari, Laterza, 1969