In Monte Nieddu nie, in Monte Limbara fioca,
Sa fèmina si nde riet si s’òmine non la tocat
Sono versi popolari, molto cantati specie nella modalità a ballu, che mi danno da pensare.
Li ho sempre considerati una sorta di riconoscimento della piena soggettività femminile, della ammissione di una parità nella sfera sessuale che infrange tabù e conformismi. La voce della saggezza popolare che sfata la normativa morale dominante. Un’affermazione di libertà e di emancipazione, insomma.
Alla luce del dibattito di questi anni, tuttavia, mi è nato un dubbio. Tutto sommato, se ne potrebbe dare anche un’interpretazione diversa: una sorta di giustificazione dell’aggressività erotica maschile. Che non solo non sarebbe scorretta, ma addirittura costituirebbe un’onta e un motivo di scherno, laddove mancasse. Come dire: se sei uomo, sei autorizzato a mettere le mani addosso a qualsiasi donna ti capiti a tiro. Riletti in questa diversa ottica, quei versi, che fino a poco fa mi apparivano liberatori e gioiosamente anticonformisti, assumono un contenuto inaccettabile.
Naturalmente qui entrano in gioco le mentalità e le sensibilità mutevoli con cui la nostra specie, e i suoi gruppi specifici, affrontano, di epoca in epoca, le cose del mondo. Ciò che è morale e lecito per le generazioni precedenti non è detto lo sia per quelle successive, e viceversa. Ciò vale anche in Sardegna, su cui grava il mito menzognero e patogeno dell’immutabilità nel tempo.
Ma c’è forse anche un altro aspetto da considerare. La perentorietà delle massime prescrittive nasconde sempre una potenziale contraddizione. La loro stessa applicazione letterale può sancirne la violazione. La saggezza popolare – per restare su questo terreno – lo sa da sempre. Quanti sono i proverbi che si contraddicono tra loro? Chi fa da sé fa per tre o l’unione fa la forza? Chi non risica non rosica o chi lascia la strada vecchia per la nuova ecc. ecc.? E così via. A ogni prescrizione corrisponde una prescrizione di segno opposto. Non perché una delle due sia falsa, ma perché è la realtà ordinaria delle cose, in questa dimensione spazio-temporale, ad essere complessa e molteplice.
La pretesa di assolutezza di qualsiasi normativa, sia essa morale, religiosa, ideologica o giuridica è totalmente infondata. Tant’è vero che nella storia umana, anche in presenza di regimi morali, religiosi o politici rigidi, ha sempre avuto uno spazio più o meno grande l’interpretazione delle norme in vigore. Naturalmente, spesso tale possibilità di interpretazione è appannaggio dei gruppi dominanti, quelli che impongono la propria egemonia culturale. Ma è comunque una sorta di tarlo che rosicchia costantemente, con maggiore o minore efficacia da una situazione a un’altra, la spessa consistenza delle regole vigenti.
Il che potrebbe condurre a un ulteriore ragionamento, una sorta di corollario. Nessuna costruzione ideologica, per quanto dichiaratamente votata al bene e ammantata di giustizia, merita di essere assunta come dogma insindacabile per la condotta umana. Nemmeno l’aspirazione all’eguaglianza, alla giustizia sociale e alla libertà. È una lezione che la storia ci ha impartito, ma che forse ha avuto pochi allievi.
Il che non significa che non debbano essere perseguite eguaglianza, giustizia sociale e libertà, tanto meno significa che esse abbiano un peso e un senso analoghi agli opposti valori della diseguaglianza, dell’iniquità sociale e dell’oppressione. Ma significa che le realtà dei fatti umani, la complessità delle relazioni interne alla nostra specie e tra la nostra specie e il mondo che la ospita, la loro articolazione concreta, non possono soccombere davanti a meri elementi discorsivi assunti come obbligatori sempre e comunque a prescindere dai casi concreti.
Non c’è armamentario ideale e teorico che possa pretendere di prevalere con la propria astrattezza sull’effettiva realtà della vita, delle dinamiche sociali, della varietà culturale e degli equilibri naturali. Nemmeno uno presuntamente basato sulla Scienza. Pensiamo ai dettami economici ai quali soggiacciono molte decisioni politiche, con ottusità superstiziosa.
Ciò è talmente vero, che persino questa prescrizione non deve essere intesa in termini assoluti. Nella vita reale è lecito e a volte necessario prendere posizione, magari adoperarsi in un conflitto, più o meno duro e cruento, per ciò che è giusto. Quel giusto che ogni essere umano e persino molti esseri non umani percepiscono istintivamente e fin dalla più tenera età. A un altro livello, tale relativizzazione si può applicare alla sfera politica, in cui per troppo tempo, a tutte le latitudini, si sono sacrificate vite e risorse appresso a mitologie e asserzioni arbitrarie imposte come regole di condotta dai gruppi dominanti. Anche nella vita politica ordinaria delle nostre stanche democrazie nominali troppe forze e troppe buone intenzioni si sono schiantate sul muro dell’ottusità dogmatica. Magari su una parola, magari su un simbolo.
Eppure non possiamo nemmeno negare che abbiamo bisogno di parole e di simboli. Ce lo richiede la nostra stessa natura umana, almeno fino a quando qualche variazione evolutiva o la nostra estinzione non muterà drasticamente la nostra sorte nel mondo.
Né le pretese dogmatiche né l’arbitrio più totale – evenienze apparentemente contrapposte, ma spesso concretamente complementari – sono giustificate dalla storia e dalla natura.
La contraddittorietà è una cifra del mondo stesso o quanto meno della relazione tra la nostra forma di intelligenza e il mondo stesso, come tutto sommato spingerebbero a ritenere sia la meccanica quantistica sia i teoremi di incompletezza di Gödel.
Il che implica che dobbiamo costantemente negoziare e decidere tra opzioni non sempre facili da discernere. Anche in presenza di un sistema condiviso di regole e di valori questa necessità si presenta costantemente. È su questo terreno che si misurano il senso etico profondo e la dignità umana delle nostre azioni, personali e collettive.
Possiamo dunque prendercela con dei semplici versi popolari per le loro connotazioni problematiche? Evidentemente no. Ciò non toglie che sia lecito porsi delle domande ogni qual volta una prescrizione morale, o ideologica, o religiosa o giuridica ci sembri stonare troppo con la semplice realtà delle cose. La libertà di ridiscutere e magari cambiare le regole collettive è una delle libertà essenziali a cui nessuno, che proclami di battersi per il bene generale, magari in nome di qualche precetto astratto o di qualche principio insindacabile, può chiederci di rinunciare.