Certo, noi abbiamo bisogno di storia, ma ne abbiamo bisogno in modo diverso da come ne ha bisogno l’ozioso raffinato nel giardino del sapere, sebbene costui guardi sdegnosamente alle nostre dure e sgraziate occorrenze e necessità. Ossia ne abbiamo bisogno per la vita e per l’azione, non per il comodo ritrarci dalla vita e dall’azione, o addirittura per l’abbellimento della vita egoistica e dell’azione vile e cattiva. Solo in quanto la storia serva la vita, vogliamo servire la storia […].
Friedrich W. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita
Manuali scolastici largamente deficitari. Uso pubblico della storia tra il cialtronesco e il deleterio. Ignoranza storica diffusa. Nazionalismi e autoritarismi montanti. Tutti fenomeni attuali che contribuiscono a generare alienazione, a favorire processi di disinformazione e passivizzazione dell’opinione pubblica, a diffondere paure e mistificazioni. In Sardegna ne sappiamo qualcosa e la situazione non sta migliorando.
Perché la scuola, però? Be’, la scuola rimane il principale – e spesso l’unico – ambito formativo con cui la cittadinanza abbia a che fare. Sia pure indebolito materialmente, è uno dei pochi presidi democratici ancora in piedi. Per questo in Italia – il paese più arretrato d’Europa e uno dei più reazionari – c’è un un chiaro disegno di demolirla, da almeno un trentennio. È a scuola che la maggior parte delle persone incontra la storia, intesa come disciplina di studio e come apparato organizzato di nozioni. Dopo c’è solo la Grande narrazione pubblica, quella scandita dalle ricorrenze ufficiali, dal discorso politico, dall’odonomastica e dai monumenti. La divulgazione, quella che raggiunge le masse e non nicchie più o meno ampie di persone interessate, esiste soprattutto in televisione.
La storia che si insegna nella scuola italiana è perlopiù mal scritta, limitata nell’orario a disposizione e spesso mal insegnata. I limiti sono più di carattere oggettivo, che dipendenti dalla cattiva qualità del corpo insegnante. Anche se, naturalmente, la/il singola/o insegnante ha una sua responsabilità soggettiva.
Monitorando i manuali scolastici ormai da un ventennio, ho notato che le cornici interpretative e l’orientamento ideologico dei testi si sono costantemente spostati verso un nuovo nazionalismo italo-centrico, solo parzialmente bilanciato da una cura, a tratti solo di facciata, per il politicamente corretto. Ci sono delle eccezioni, naturalmente. Ma è forte l’impressione che la scelta dei testi da adottare da parte del corpo insegnante non sia così ampia e che spesso avvenga con troppa noncuranza.
Anche i testi scolastici riflettono insomma l’egemonia culturale retriva, nazionalista e spesso militarista di questi ultimi trent’anni. Venuta meno quasi del tutto la scuola storica di matrice marxista, che a sua volta non sempre ha reso un buon servigio agli studi storici in Italia, rimane sul campo la narrazione risorgimentalista e sciovinista. La stessa divulgazione storica televisiva, soprattutto sui canali RAI, ha da tempo assunto questi tratti, sia pure in termini non aggressivi e perlopiù rassicuranti (pensiamo al successo di un Alberto Angela o allo strapotere che un Paolo Mieli, pur non essendo storico, ha acquisito in questo ambito).
Le giovani generazioni si imbattono nella storia in tempi e modi che rendono impossibile apprezzarla. Non che sia mai stata la materia preferita dalle masse. Per quel che vale, in tutte le classi e le scuole che ho frequentato, di norma ero l’unico a cui piacesse la storia, o uno dei pochissimi. A giudicare da ciò che sento dagli adolescenti che conosco, le cose non sono cambiate, se non in peggio. Sarei curioso di conoscere gli esiti di una vera indagine in merito.
Che le giovani generazioni non amino o detestino apertamente la storia non può essere loro addossata come colpa. Per come viene scritta e insegnata, essa si limita a una serie di nozioni difficili da comprendere fino in fondo, distanti, astratte, inservibili. Perché dovrebbero amarla?
Tutto lo spazio dedicato nei programmi didattici all’antichità classica è uno sperpero assurdo di tempo ed energie. Il medioevo ridotto a quattro nozioni in croce su papi e imperatori, repubbliche marinare, comuni e signorie. L’Età moderna raccontata superficialmente secondo i canoni della narrazione nazionalista di matrice ottocentesca. Risorgimento e unificazione italiana schematizzati dentro le cornici patriottarde. Guerre mondiali, colonialismo italiano e fascismo edulcorati e spesso infarciti di retorica e ipocrisia. E naturalmente nulla sul Novecento post seconda guerra mondiale.
Tra la vita reale delle giovani generazioni, gli strumenti che hanno a disposizione, gli stimoli molteplici in cui sono immerse, il loro linguaggio, le loro preoccupazioni da un lato e dall’altro la storia come viene trattata a scuola c’è una distanza siderale.
Anche su questo piano la Sardegna è un caso peculiare, tanto riguardo alla storia a scuola, quanto riguardo all’uso pubblico della storia e ai suoi presidi odonomastici.
Il posto occupato dalla storia sarda nei testi scolastici è minimo, se non inesistente. Quando la manualistica scolastica accenna alla Sardegna lo fa in modo occasionale, approssimativo e non di rado errato. Inevitabile, nell’organizzazione del sapere italiana. È un problema che ci trasciniamo dietro da tempo, mai affrontato con la necessaria assunzione di responsabilità dalla storiografia isolana.
Ma su questo ed altri aspetti connessi ho già scritto (per es. qui) e non mi ripeto.
Sta emergendo in modo evidente in questi ultimi anni un altro versante della questione: il nostro passato, specie quello più antico, usato come risorsa commerciale e turistica. Conferenze, iniziative dedicate alle scuole, spazio mediatico, con l’ennesima trovata di quei geni del male che sono i Riformatori sardi a farla da padrona (La Sardegna verso l’UNESCO). Un’impostazione non illegittima, ma che stride con una serie di problemi concreti, politici e culturali non da poco.
Per esempio il fatto che esista da tempo un conflitto aperto tra Soprintendenze (enti ministeriali) e Università e tra enti locali e Soprintendenze, con la politica che si occupa di queste faccende solo in termini clientelari. O anche il problema generale del turismo in Sardegna, connesso con quello dei trasporti interni, e quello generale di un’organizzazione del sapere subalterna e ampiamente colonizzata. E poi naturalmente ci sono tutti i dubbi del caso sull’uso strumentale della storia a fini commerciali e di propaganda politica, per giunta sostenuto da fondi pubblici elargiti generosamente e forse spendibili altrimenti, con maggiore profitto collettivo.
Del resto, non bisogna aspettare la politica e nemmeno l’interesse commerciale di chicchessia, per adoperarsi a una diffusione della storia sarda nelle scuole (e non solo). Lo fa da anni, gratuitamente, con serietà e massima trasparenza, il gruppo di lavoro La Storia sarda nella Scuola italiana*. Senza tante fanfare, senza sponsorizzazioni di sorta, senza alcuna copertura mediatica.
Il tema, nei suoi vari risvolti, per quanto possa sembrare distante dalla vita quotidiana e dai nostri problemi più pressanti, esiste e ha a che fare con molto altro. A partire dai risultati scolastici dei discenti sardi, sempre agli ultimi posti dello stato italiano (perché siamo più tonti, evidentemente). E poi con tutto il resto. Compreso il nostro patologico deficit di democrazia. Compresa la mancata soluzione delle questioni generali e strategiche che occupano le cronache di questi tempi difficili. In definitiva, a ben guardare, è di un’inattualità attualissima.
*Di cui faccio parte, come è noto (a chi segue queste cose).