Con l’approvazione nel Consiglio dei Ministri del disegno di legge sull’autonomia differenziata ha preso il via l’iter di una misura che potrebbe ridefinire gli assetti interni dello Stato italiano.
Le opposizioni, PD in testa, lanciano allarmi, la Lega esulta, i nostalgici del duce mediano (vogliono il presidenzialismo) e gli altri stanno a guardare, cercando di capire cosa sta succedendo (c’è molta gente distratta, in politica).
Nelle regioni meridionali si paventa un’operazione tutta a vantaggio del Nord. I più romantici piangono sulla crudele sorte che attende la nazione italiana, se divisa in due. Molti richiamano questo o quel principio costituzionale per cercare di arginare la potenziale portata di questa riforma.
Poi c’è la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare, promossa da Massimo Villone e dal Coordinamento per la Democrazia Costituzionale che ha il seguente obiettivo (qui il disegno di legge completo):
Modifica dell’articolo 116 comma 3 della Costituzione, concernente il riconoscimento alle Regioni di forme e condizioni particolari di autonomia, e dell’art. 117, commi 1, 2 e 3, con l’introduzione di una clausola di supremazia della legge statale, e lo spostamento di alcune materie di potestà legislativa concorrente alla potestà legislativa esclusiva dello Stato.
In Sardegna il pochissimo dibattito in proposito è quantitativamente e soprattutto qualitativamente modesto. Qualcosa si può leggere nel sito gestito da Andrea Pubusa, Democrazia oggi. E c’è stata una manifestazione organizzata dalla Scuola di cultura politica Francesco Cocco, in aperta polemica con la proposta di autonomia differenziata e sostanzialmente in adesione all’iniziativa per una revisione costituzionale restrittiva.
Pubusa in proposito scrive:
[…] da Oristano e da Nuoro sono giunti ai relatori inviti a riprendere il discorso nella prospettiva della creazione di un movimento contro la proposta Calderoli subito e l’apertura di una riflessione per un ripensamento dell’Autonomia speciale. L’aspetto originale del convegno è stato non solo il fermo NO all’Autonomia differenziata ma l’apertura di un lavoro per ripensare lo Statuto speciale, riprendendo il pensiero dei grandi sardi democratici del passato da Angioy, a Tuveri, ad Asproni, a Gramsci e Lussu, tutti contro l”accentramento statale, tutti federalisti, tutti contro l’indipendentismo (salvo l’Angioy ormai repubblicano dell’esilio parigino).
L’opposizione alla proposta Calderoli (ossia all’autonomia differenziata ex art. 116, comma terzo, della Costituzione “più bella del mondo”) viene messa in connessione con un ripensamento dell’autonomia speciale. E quest’ultimo dovrebbe avvenire “riprendendo il pensiero dei grandi sardi democratici del passato da Angioy, a Tuveri, ad Asproni, a Gramsci e Lussu”, beninteso “tutti contro l’indipendentismo”.
in un altro intervento nello stesso blog, Rosamaria Maggio a sua volta dichiara:
Noi abbiamo cercato, come Scuola di cultura politica, di riflettere anche sulla storia di questa regione, storia che non solo non deve rinnegarsi ma deve essere utile a valutare le esperienze virtuose che la Regione ha portato avanti in tempi purtroppo ormai lontani, cosa che rende utopistiche idee di riproposizione attuale di istanze indipendentiste ma anche federaliste a causa delle diverse condizioni storiche, economiche e sociali, nonché per la necessità di contestualizzazione.
Ora, già solo dentro queste proposizioni sono evidenti bias cognitivi fortissimi, alcune contraddizioni di fondo e anche – va detto – un certo pressapochismo storico.
Mettiamo subito in chiaro che mescolare pere con mattoni non è mai una buona soluzione, dal punto di vista epistemologico e di correttezza metodologica. Lasciamo stare le personalità del passato alla loro epoca e a quello che essi dicevano e facevano nel loro tempo.
Angioy non poteva essere né autonomista né indipendentista, per il fatto stesso che tali problemi ai suoi tempi non si ponevano affatto. La prospettiva di Asproni e Tuveri, figlia della disastrosa Perfetta Fusione, aveva senso ai loro tempi. Rileggerli oggi è un esercizio utile per capire che alcuni problemi di fondo attuali hanno lì una delle loro radici, più che per trovarci soluzioni applicabili al nostro presente.
Gramsci e Lussu, come dimostra facilmente la semplice lettura del loro carteggio (lo si può trovare qui), non erano concordi su quasi nulla, con Gramsci molto più lucido sulle cause dei problemi strutturali dell’isola (da lui definita una “colonia di sfruttamento”) e sulla possibile soluzione (una rivoluzione che portasse alla costituzione di una repubblica socialista sarda, confederata con le altre repubbliche socialiste dell’ex Regno d’Italia e magari con quelle dell’intero continente).
Lussu dal canto suo era molto più spaventato di Gramsci dall’ipotesi indipendentista e molto più succube della propria formazione culturale italiana, vissuta come una sorta di riscatto necessario (come teorizzato da Camillo Bellieni, che però politicamente aveva le idee molto più chiare di Lussu). Tuttavia, propendeva per una forma di autonomia molto forte, assai distante da quella scaturita dalla Consulta regionale nel 1946-7 e poi approvata dall’Assemblea costituente nel 1948.
Detto questo, è comunque piuttosto dubbia l’utilità di un’elencazione di nomi noti, a prescindere dalla correttezza di questi accostamenti, giusto per conferire autorevolezza a una posizione che rimane ambigua.
È altrettanto fallace – in termini logici oltre che storici e politici – evocare un preteso passato edificante dell’autonomia sarda (quale? quello del Piano di Rinascita? o quello del fallimentare “vento sardista”?) per tacciare di utopismo (in senso dispregiativo) la prospettiva indipendentista e anche quella federalista.
Cosa vuol dire infatti sostenere una contro-proposta legislativa che elimini gli spazi di autonomia concessi (maldestramente, siamo d’accordo, ma perché incoerenti e non compiuti) dalla riforma del 2001 e al contempo auspicare (senza addurre argomenti e prospettive) un ripensamento dell’Autonomia speciale?
A cosa serve precisare di continuo che si vuole ridiscutere l’Autonomia, ma ponendo come contraltare – in modo un po’ ossessivo – la prospettiva indipendentista? Per giunta quasi sempre senza averla studiata e soppesata, senza conoscerne la storia e gli sviluppi teorici, assumendola in forma caricaturale, come argomento fantoccio?
È coerente – e, se sì, in che termini – auspicare un ripensamento dell’Autonomia speciale e al contempo sposare una proposta neocentralista? Si ha un’idea quanto meno onesta e storicamente fondata di cosa possa significare per la Sardegna una clausola di supremazia statale?
Dalla spinta – egoista e truffaldina, senza dubbio – dell’autonomia differenziata dovremmo trarre spunti per rilanciare a nostra volta, in una prospettiva sardo-centrata, una nuova conquista di autodeterminazione democratica. Perché in fondo, come detto più volte (in ultimo qui), è di realizzare finalmente una democrazia vera in Sardegna, che si tratta.
Su molte materie a “legislazione concorrente” ricomprese nell’art. 117 della Costituzione, che le regioni del Nord vorrebbero farsi devolvere in toto e che gli oppositori vorrebbero invece restituire in via esclusiva allo Stato centrale, ce ne sono alcune che, per la loro natura strategica e per la loro particolare declinazione locale in Sardegna, dovrebbero costituire il tema di un confronto serrato con lo Stato per ottenerne a nostra volta la piena competenza.
Su questo è persino imbarazzante la contraddizione che si può rilevare nel fronte sardo contrario all’autonomia differenziata. Sembra di leggere cose scritte a Roma, piuttosto che a Cagliari. È un cascame del “come se” che sorregge la nostra egemonica “ragion coloniale”. Far finta di non essere in Sardegna, che la Sardegna non abbia una sua condizione geografica, demografica, socio-economica peculiare su cui basare proposte e piani politici. Far finta che l’isola e chi la abita non abbiano già sacrificato fin troppo, in 160 anni, alla “ragion di stato”. O le esorbitanti servitù militari – per dirne una – e gli altri trattamenti di natura coloniale sono solo un’invenzione indipendentista?
E non vale l’obiezione secondo cui anche le altre regioni italiane hanno le loro peculiarità. È un’argomentazione fallace, perché nega alla radice l’evidenza di una differenza sostanziale e storicamente consolidata.
In ogni caso, per come la vedo io, anche le regioni meridionali dovrebbero impostare la loro reazione all’iniziativa leghista su un piano di rilancio del discorso federalista, cominciando a fare i conti in tasca alle regioni settentrionali, fuori dall’inganno dei “residui passivi” e dalla relativa narrazione colpevolizzante.
La domanda è: a partire dall’unificazione italiana, quale parte del paese ci ha guadagnato e quali ci hanno perso? Com’è successo? In realtà, non sono misteri insolubili. Se ne parla da più di un secolo. Lo stesso Gramsci – evocato spesso e quasi sempre a sproposito – aveva detto qualcosa in merito. E non solo lui. Non c’è bisogno di affidarsi alla mitologia e all’ideologia neo-borbonica, per esprimere uno sguardo critico, decoloniale, sulla minorizzazione e subalternizzazione del Meridione italiano.
La Sardegna, tuttavia, non coincide col Meridione italiano, prima di tutto perché è un territorio a sé stante, diviso dall’Italia dalle acque internazionali. Poi perché ha delle peculiarità geografiche e demografiche non sovrapponibili con quelle di altri territori.
Pensiamo ai problemi strategici ancora irrisolti e in fase di aggravamento: trasporti interni ed esterni, scuola e università, sanità, energia, commercio con l’estero, tutela e valorizzazione dei beni storico-archeologici e culturali, crisi ambientale. Su queste materie ha senso affidarci alla legislazione, al controllo e alla gestione dello Stato centrale? Una buona parte dell’intellighenzia sarda negli ultimi trent’anni ha sempre risposto sì, scambiando la mediocrità e la cialtronaggine della politica sarda attuale per un tratto connaturato e insuperabile della nostra genia. Quando invece è una conseguenza diretta della dipendenza e della subalternità, a cui essa stessa, l’intellighenzia sarda – magari di sinistra (o sedicente tale), magari con ruoli rilevanti in ambito accademico e istituzionale – non ha mai saputo opporre nulla.
La lotta politica a proposito di autonomia, in Sardegna, dovrebbe essere rivolta ad accrescere e stabilizzare il proprio spazio di competenza e la propria autodeterminazione. Nessun “livello essenziale di prestazione” è mai stato garantito alla popolazione sarda dal fatto di appartenere allo Stato italiano e di dipendere dalle sue scelte e dagli interessi della sua classe dominante. Persino le circostanze in cui alcune decisioni della giunta o del consiglio regionale sono state impugnate a Roma per buone ragioni il risultato finale è stata un’ulteriore erosione delle capacità politiche dell’ente Regione, al di là dell’effetto diretto, magari banalmente conservativo, di quelle impugnazioni. Non poter rivedere la materia paesaggistica per indebolire le tutele va bene, ma va altrettanto bene non poter intervenire per renderle più consone al contesto sardo attuale?
Combattere contro l’autonomia differenziata che vuole spostare la competenza sull’ambito scolastico e quella sulla sanità in capo alle regioni in che modo farà migliorare la situazione della scuola e della sanità in Sardegna? Considerato che la sanità sarda la pagano già i/le contribuenti sardə?
Proprio la scuola dovrebbe essere un terreno di battaglia su cui la Sardegna ha stringente bisogno di intervenire con una propria prospettiva, una propria competenza aumentata (qualcosa già c’è) e una propria legislazione. A partire dalle infrastrutture e dal famigerato “dimensionamento” (sono decine le scuole sarde che subiranno ridimensionamenti o chiusure per via dei nuovi tagli decisi a Roma).
Le giunte regionali che si sono succedute negli ultimi vent’anni hanno sempre ceduto ai desiderata dei loro “governi amici” o si sono schierate come pretendevano le loro case madri italiane, su molti temi decisivi. Hanno sistematicamente rinunciato a far valere i diritti e i bisogni dell’isola nei confronti dello Stato. Hanno piegato la testa, anche quando in ballo c’erano diritti essenziali da proteggere, davanti ai diktat dei propri leader o dei propri centri d’interesse di riferimento. Spesso con la scusa della “lealtà istituzionale”. Ma la lealtà istituzionale, se è diretta in un verso solo, non è più lealtà: è mera dipendenza.
E così ci siamo giocati la partita delle vertenze entrate, la partita dei trasporti esterni, la partita della transizione energetica e anche quella, che può sembrare meno impattante, dei beni storico-archeologici, culturali e paesaggistici.
Abbiamo subito danni dall’autonomia e/o dalla maggiore autonomia di altre regioni, oppure dal centralismo e dalla conseguente frustrazione delle prospettive di autodeterminazione? Facciamoci questa domanda.
È onesto fingere di voler promuovere l’autonomia, in un’ottica però sempre centralista, dipendente e, direi, dipendentista (vedasi questione “insularità in costituzione”), quando le necessità collettive e l’evidenza storica ci suggeriscono che dovremmo aprire il nostro orizzonte e pensare in modo finalmente adulto? La democrazia in Sardegna o sarà autodeterminata o non sarà. Fino ad oggi non è stata. Pensare di risolvere un vecchio problema con soluzioni già sperimentate e fallite è stupido, oltre che inutile.
Se il dibattito sull’autonomia differenziata e sulle sue conseguenze per la Sardegna non terrà conto di tutto questo, non avrà alcun senso.