La politica sarda, a un anno dalle elezioni, e la rimozione del problema

Tra poco più di un anno, salvo improbabili anticipi, la Sardegna andrà a elezioni per il rinnovo del Consiglio regionale e l’elezione del/lla presidente della RAS. Le grandi manovre sono già iniziate, gli schieramenti sono ancora molto fluidi, alcuni possibili attori mancano all’appello. Ma soprattutto mancano totalmente un dibattito pubblico all’altezza e una prospettiva democratica solida.

Nel mondo politico sardo c’è chi ammette che le manovre di avvicinamento alla scadenza elettorale siano già iniziate e chi mente. Da mesi ormai si lavora a conquistare una collocazione vantaggiosa in vista delle trattative finali: chi fa piani, chi intesse relazioni, chi cerca appoggi robusti, chi si offre sul mercato. È un lavorio frenetico e incessante, di cui si percepisce il tramestio e la crescente vivacità, ma come dietro un paravento.

Il paravento non è totalmente opaco, qualcosa si intravvede. E si sente. In ogni caso, siamo a un livello molto basso dell’ecosistema politico democratico. Tanto basso da essere forse sotto il limite al quale si può decretare che sia vivo. Ecco, probabilmente in Sardegna l’ecosistema democratico è morto. O, in altre parole, non esiste.

Tra qualche mese cominceremo ad assistere alla solita fiction della campagna elettorale, preceduta dall’infittirsi di contrattazioni, accordi sotto banco, alleanze inconfessabili e cooptazioni dell’ultim’ora. Niente di quello che verrà raccontato dalle cronache risponderà a ciò che succede realmente e di sicuro non avrà niente a che fare con ciò che succederà dopo.

Che poi sarà il solito traffico di poltrone e prebende, la solita coltivazione delle sacche clientelari, l’aggravamento sistematico – causa cialtronaggine e ignoranza – dei problemi strutturali che si dichiara di voler affrontare. E molta costernazione, indignazione e impegno, davanti a ogni “non si può”, prima di gettare la spugna con nessuna dignità.

Resta poco tempo per provare a costruire un’alternativa alla congrega che domina la scena, fittiziamente suddivisa nei due conglomerati clientelari detti centrosinistra e centrodestra. I 5 stelle hanno pochissimo peso e non hanno alcuna agenda autonoma da proporre. È del tutto ipotizzabile che finiranno per allearsi col centrosinistra. Se fossero un po’ svegli e/o politicamente onesti, mollerebbero il PD e guarderebbero fuori dal Palazzo, dove un tempo soggiornavano. Ma non mi pare probabile.

Cosa resta? Resta tutto ciò che è rimasto escluso da qualsiasi rappresentanza istituzionale, ossia la maggioranza della cittadinanza e molte sensibilità politiche e sociali: il grande bacino dell’indipendentismo, la sinistra senza casa, le categorie sociali più svantaggiate, il sindacalismo di base, il circuito dei comitati civici, l’ambientalismo più verace e democratico.

L’unica novità in campo, per ora non in termini propriamente elettorali, è “Sardegna chiama Sardegna”, a cui fa riferimento Stefano Puddu Crespellani nel suo intervento pubblicato qui su SardegnaMondo qualche giorno fa. È un’esperienza seria e promettente, a cui però non basta dare credito in linea teorica: servirebbe anche partecipazione e sostegno. Alcune diffidenze e alcuni sospetti, che vedo aleggiare nella mia bolla social, mi paiono ingiustificati e anche parecchio ingenerosi.

Mi preoccupa l’immobilismo della politica sarda esterna ai poli dominanti. Non bastano le lotte e le prese di posizione, serve anche dare ad esse un seguito a livello di mobilitazione e di conquista del consenso. È così che funziona dentro la democrazia rappresentativa. L’immobilismo mi preoccupa in sé, in quanto sintomo di debolezza e/o di incomprensione della realtà, ma mi preoccupa anche come possibile segnale di opportunismo, dell’attesa di occasioni di accasamento presso il migliore offerente (ossia presso una delle fazioni clientelar-coloniali in campo).

È dai tempi di Soru che l’incantamento della cooptazione agisce potente su questi ambiti politici, sull’indipendentismo non meno che su altri. Ci sono stati aspri dissidi, in passato, su questa opzione, sia tra le diverse sigle, sia all’interno delle organizzazioni. Quando è capitato che qualche spezzone dell’indipendentismo sia stato accolto dentro uno dei due poli coloniali, non solo l’indipendentismo ne ha ricavato un danno netto, ma ne ha subito un danno anche il processo di autodeterminazione democratica nel suo complesso. È una lezione chiara, che però a quanto pare non è stata recepita.

Del resto, è più facile e più comodo coltivare ambizioni personali o familiari o di gruppo attaccandosi al carro del vincitore di turno. Magari spacciandole per scelte convenienti allo stesso ambito alternativo che si è appena tradito. C’è stato, nell’indipendentismo, chi era convinto di poter “contaminare dall’interno” la politica podataria sarda. Sappiamo com’è andata.

Al momento manca anche un dibattito all’altezza delle sfide che stiamo affrontando. Manca sui media, manca tra le forze politiche, manca nell’ambito culturale. L’unica pietruzza che sta smuovendo in superficie lo stagno pubblico e politico sardo, in queste settimane, è il giro di presentazioni del libro di Massimo Dadea Meglio Soru (o no?). La febbre del fare 13 anni dopo (EDES), dedicato all’esperienza di Progetto Sardegna, della giunta Soru e di quel che ne seguì. Giunta Soru di cui Dadea era stato assessore.

Non sarebbe nemmeno male, come occasione di discussione sul fallimento di quell’esperienza e, più in generale, come consuntivo di questi vent’anni di politica sarda. Se non fosse che la faccenda ha i toni e le sembianze di un’operazione preparatoria alla candidatura del medesimo Renato Soru alla presidenza della RAS.

L’intenzione di candidarsi di Soru è palese. Se ne parla negli ambienti politici, anche in quelli per così dire periferici. Difficile trovare un senso a questa operazione. Se non nella rimozione delle cause del fallimento di Soru come politico. Ma su questo rimando a ciò che ne hanno scritto nei giorni scorsi due persone informate e dotate di solidi strumenti interpretativi come Andrea Pubusa e Tonino Dessì, su Democrazia oggi.

Sempre su Democrazia oggi, si è aperto un dibattito a proposito della cosiddetta “autonomia differenziata”, cara ad alcune regioni italiane settentrionali (soprattutto Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna). Il 24 prossimo è in programma un’assemblea organizzata dichiaratamente “contro” quest’ipotesi. Al solito, in Sardegna dobbiamo andare a traino dell’agenda politica italiana, in termini oppositivi oppure passivi, ma sempre senza esprimere una nostra agency, una nostra soggettività dispiegata dentro un orizzonte al cui centro ci sia l’isola e chi la abita.

È un problema segnalato dallo stesso Pubusa nel suo pezzo a commento della convocazione dell’incontro del 24. Le cui argomentazioni però mi paiono a tratti approssimative (attribuire a Giommaria Angioy intenti federalisti è alquanto scorretto) e in definitiva anche contraddittorie. Così come quelle di un altro intervento in materia, quello di Fernando Codonesu. In questo caso, tra le altre cose, si tira in ballo l’indipendentismo evidentemente senza averne una conoscenza adeguata (si contrappone l’indipendentismo sardo a quelli scozzese e catalano, per dire, pretesa abbastanza assurda) e a mio avviso si fa parecchia confusione su cosa significhi oggi un processo di autodeterminazione democratica. Ma sulla questione sarà bene tornare.

Il guaio è che l’opinione pubblica sarda è drammaticamente debilitata, privata di mezzi di comprensione e ignara della vera radice materiale e politica dei nostri problemi strutturali. La Sardegna, come ormai dico da tempo, è e resta una colonia televisiva italiana. A questo drammatica condizione di subalternità non corrisponde una reazione culturale e intellettuale ad ampio respiro, che ne smonti i meccanismi e che apra e alimenti un’agenda alternativa. È un fallimento terribile della classe dirigente sarda contemporanea nel suo complesso. Compreso Renato Soru e chi lo segue. In questo senso, è persino ridicolo pensare che davvero una sua candidatura possa rappresentare un rilancio in avanti dell’offerta politica.

La politica sarda, ossia la politica che si fa in Sardegna, non dipende o non dovrebbe dipendere solo da quella italiano. O meglio, la politica podataria sarda sì, dipende in toto da quello che succede a Roma o Milano e dai piani e dagli intenti di chi da lì dirige le proprie succursali coloniali nell’isola. Ed è un problema. Ma, nel complesso, la sorte della Sardegna è inserita giocoforza in un contesto più vasto, dentro le dinamiche internazionali, dentro gli sviluppi della grande crisi globale che stiamo attraversando.

Da un punto di vista generale, ho provato a tracciare una mappa di questa crisi e una prospettiva possibile a livello europeo nell’articolo che ho scritto per il Forum 2043 del gruppo “Autonomia e Ambiente”: a quello rimando.

Per restare nello specifico della campagna elettorale sarda prossima ventura, posso dire questo. Chiunque tenga davvero a una prospettiva democratica, chi non sia ancora rassegnato al peggio, può e deve essere disponibile a cooperare e a costruire insieme ad altre persone e ad altri gruppi un’alternativa praticabile e credibile allo schifo imperante. E non in termini astratti e futuristici.

Con le prossime elezioni sarde non si farà l’indipendenza, non si scongiurerà il disastro ambientale in corso, non si edificherà il socialismo (e nemmeno altri -ismi, per quello), non si conquisterà alcuna meta strategica. Si potrà però, molto più realisticamente, provare a inserire nell’ingranaggio mortifero della dipendenza e della subalternità qualche granello di sabbia. E magari aprire uno spazio democratico su cui far germogliare un altro modo di fare politica. Questa sarà la base per cominciare davvero ad affrontare tutti i nodi strategici ancora sul tappeto, a cui la politica dipendentista e coloniale non può né vuole dare risposte.

Anche chi non ha a cuore l’autodeterminazione dell’isola, ma nutre sinceri sentimenti democratici, deve rendersi conto che si tratta appunto di costruire un processo di democrazia compiuta, prima di tutto. E deve rendersi conto che tale processo di conquista democratica, per forza di cose, condurrà presto o tardi a un conflitto con lo Stato italiano.

Persino gli appassionati della “costituzione più bella del mondo” dovranno ammettere che la stessa realizzazione in Sardegna dei nobili principi scritti in quel documento (su cui spesso basano la loro appartenenza italiana) porta inevitabilmente a questo risultato. Nessuna conquista civile, sociale, economica, politica potrà essere conseguita in Sardegna senza mettere radicalmente in discussione il suo rapporto con l’Italia. E dunque anche con le forze politiche che ne rappresentano gli interessi dominanti. È un nodo storico inaggirabile.

Perciò, nessuno che si schieri con i partiti oltremarini e le loro rappresentanze locali, alleati opportunisti compresi, potrà rivendicare la benché minima credibilità politica ed etica, per quanto cerchi di rivestire di principi ideali o di obiettivi altisonanti la propria organicità al sistema di dominio coloniale.

Ricordiamocene quando verranno a chiederci il sostegno a questa o quella candidatura per “battere le destre”, oppure ci ammorberanno il cervello con promesse assurde e fuori dal mondo, accampando la scusa di avere a Roma un “governo amico”. Roma e lo Stato italiano sono e saranno sempre una controparte. L’unica discussione possibile è sui modi con cui affrontare questa realtà e sulle misure necessarie per uscire dalla dipendenza, tenendo conto del quadro internazionale e delle questioni globali.

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