Insularità, autonomie, subalternità e falsa coscienza

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Torna agli onori delle cronache la questione dell’insularità, diversivo di successo buono per tutte le stagioni. E torna la proposta del “regionalismo differenziato”. Tematiche mal raccontate e mal affrontate nei mass media e dagli stessi “addetti ai lavori”.

Il “regionalismo differenziato” è la proposta, cara alla Lega e a porzioni consistenti degli altri partiti italiani, nelle loro articolazioni settentrionali, di rivedere lo status giuridico di alcune regioni del Nord in modo da garantire loro una maggiore autonomia fiscale.

Il nodo sono i soldi, al solito. Le regioni settentrionali italiane, in particolare Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, aspirano a poter incamerare e gestire autonomamente gli introiti fiscali prelevati sul loro territorio. L’argomentazione decisiva, nella loro ottica, è che sarebbero penalizzate rispetto alle altre regioni, in quanto producono molta parte del reddito nazionale, ma ne hanno un ritorno limitato.

È la questione dei “residui fiscali”: quanto versa una regione alla fiscalità generale e quanto riceve dallo Stato? Queste regioni ritengono di avere un credito molto grande verso lo stato centrale e vorrebbero bilanciare diversamente questo rapporto.

Di solito, in ambito progressista (chiamiamolo così, per comodità), questa rimodulazione fiscale viene considerata una sorta di attentato alla coesione nazionale, perché – si sostiene – privilegerebbe iniquamente le regioni più ricche a danno di quelle più povere, soprattutto quelle meridionali. Da destra di solito la misura viene vista con sfavore, per via della prevalente ideologia nazionalista e centralista: suonerebbe come un attentato all’unità nazionale. Tuttavia, questa posizione è variamente declinata, a seconda delle convenienze propagandistiche del momento, specie considerando che la gran parte dell’elettorato di destra in Italia è settentrionale.

Le due obiezioni principali – da sinistra e da destra, diciamo – emergono in due diversi interventi di questi giorni, reperibili sulle pagine online dell’Unione sarda. Il motivo scatenante sono le dichiarazioni del presidente Solinas favorevoli all’autonomia differenziata, rilasciate nel contesto dei suoi recenti abboccamenti con esponenti del nuovo governo Meloni.

Il primo argomento è espresso da Francesco Agus, consigliere regionale sardo dei Progressisti. Agus tira in ballo l’insularità in costituzione, come elemento forte della propria obiezione. Il suo tuttavia è un discorso piuttosto debole, direi anche pavido, se non volutamente omissivo. La sua difesa dell’insularità rivela una pressoché totale mancanza di riflessione nel merito della questione. È data per scontata e anzi per necessaria la subordinazione della Sardegna allo Stato italiano, principio a cui la sinistra moderata e i liberali, in Sardegna, sono molto affezionati.

Una risposta a questa presa di posizione si può leggere su S’Indipendente e ad essa rimando.

La seconda argomentazione contro la regionalità differenziata, sempre sull’Unione online, è esposta dall’avvocata Giuseppina Di Salvatore. Il nucleo tematico della sua obiezione è la minaccia all’unità “nazionale” rappresentata dalle pretese delle regioni settentrionali. Di Salvatore sostiene che la ragione delle autonomie speciali esistenti (Val d’Aosta, Trentino e Sud Tirol, Friuli Venezia Giulia, Sicilia, Sardegna) risiede nella necessità di mantenere unite allo stato italiano regioni periferiche altrimenti tentate, con varie motivazioni, da sentimenti secessionisti. L’autonomia come male minore e come contentino, più o meno efficace. Naturalmente, in nome della sacra unitarietà della nazione, posta come valore assoluto e a-storico. Le regioni del sud, se entrasse in vigore il regionalismo differenziato, sarebbero “abbandonate a se stesse”. Un po’ come la Sardegna senza la magica insularità in costituzione.

Si tratta, in entrambi i casi, di evidenti paralogismi, di ragionamenti mal fondati, politicamente problematici e storicamente discutibili.

Intanto, mi stupisce sempre come nessun*, in questo tipo di discorsi, parta mai da una ricostruzione almeno onesta, se non analiticamente approfondita, delle ragioni per cui l’Italia, come stato unitario, nasca male e si sviluppi peggio. Nessun tentativo di cercare e riepilogare le cause storiche della divaricazione tra Nord e Sud (e Isole). Eppure se n’è scritto in abbondanza, da più di un secolo a questa parte.

A questo proposito, va chiarito che la stessa argomentazione dei residui fiscali, l’arma-fine-di-mondo del settentrionalismo razzista e rapace, è una fallacia. Certo, se consideriamo solo le imposte versate nei territori e la spesa che lo Stato centrale riversa su quei territori medesimi, il conto algebrico vede le regioni del nord in credito. Ma è un conto così elementare e schematico, quello che va fatto in questa faccenda?

In realtà dipende molto da come si valuta la spesa pubblica territorio per territorio, da quali parametri si scelgono, da cosa si guarda. Se consideriamo, ad esempio, la spesa pubblica pro-capite, tutta questa ingiusta sperequazione tra Nord e Sud (e Isole) a danno del Nord viene magicamente meno. E il discorso si può ampliare anche in termini diacronici (ossia storici).

Le regioni settentrionali, nel corso dei decenni, sono state largamente privilegiate negli investimenti per infrastrutture e nelle normative di favore ai comparti produttivi locali (l’industria e l’allevamento intensivo, giusto per citarne due). Solo per restare al caso sardo nella sua relazione col Nord Italia, provate a guardare che fine hanno fatto le tonnellate di legname estratte dall’isola nel corso dell’Ottocento, causa di un disboscamento selvaggio che ha mutato il regime delle piogge, la qualità dei suoli e lo stesso clima. E il protezionismo esercitato dall’Italia, specie dopo la denuncia degli accordi commerciali con la Francia (1887), chi ha danneggiato di più? E la fiscalità indifferenziata applicata alla Sardegna, con le stesse regole e le stesse aliquote delle regioni italiane? Sapete che la Sardegna, già a fine Ottocento, aveva il triste primato italiano dei pignoramenti?

Al contempo, gli investimenti infrastrutturali, nell’isola – e, con qualche differenza, anche nel Meridione e in Sicilia – sono sempre stati pochissimi. Gli indici di infrastrutturazione della Sardegna, in ambito stradale e ferroviario, sono ancora oggi mortificanti.

Tutto ciò comporta che il Nord ha acquisito, ai danni del Sud e delle Isole, un enorme vantaggio competitivo che ha esercitato innanzi tutto proprio verso il Sud e le Isole, estraendone risorse, valore e manodopera (o “capitale umano”, per usare una terminologia disgustosa ma di moda) e usando quei territori come proprio mercato privilegiato, in regime protetto.

Quando si accusa la Sardegna di godere indebitamente di un vantaggio nei residui fiscali (ossia, lo Stato preleva dall’isola meno di quanto restituisce), si dimentica volutamente tutta la storia precedente e si omette di spiegare che molta spesa dello Stato in Sardegna è destinata a uffici e beni dello Stato medesimo, comprese le attività militari e le forze dell’ordine (che non sono esattamente dei fattori produttivi e/o di progresso sociale). Si dimentica anche che per molto tempo è stata violata la disposizione statutaria – quindi di rango costituzionale – sulla ripartizione delle quote fiscali: la famosa vertenza entrate, risolta poi con una sonora fregatura ai danni dell’isola. Per non parlare della esorbitante occupazione di suolo sardo ad uso militare, una vera pietra dello scandalo, sempre dimenticata nel dibattito politico.

L’intero capitolo dei rapporti tra Sardegna e Stato italiano è da impostare in modo meno semplicistico, considerando tutti i fattori in gioco e anche tutta la storia pregressa. Non solo di analisi e di critica, ma anche di proposta. Invece si è preferito il diversivo dell’insularità in costituzione, facendo passare una sorta di rivoluzione passiva orchestrata dal Palazzo, nel proprio interesse, per una conquista popolare voluta dalle masse.

Diversivo che, come si vede, torna sempre comodo, in un modo o nell’altro, per eludere i problemi e sottrarsi alle proprie responsabilità. Perché retoricamente efficace e al contempo politicamente e pragmaticamente innocuo.

Più in generale, ad essere eluso è il nodo storico della profonda asimmetria congenita dello stato unitario italiano, la sua natura colonialista (interna), la consistenza e la natura dell’apparato mitologico e ideologico nazionalista e razzista con cui la si giustifica e, in ultima analisi, la possibilità di esiti storici differenti.

Per altro, siamo sicuri che dall’imposizione di forme di autonomia regionale più accentuate sia solo il Nord a trarre vantaggio? Per certi versi e nell’immediato forse sì. Ma mi chiedo cosa succederebbe, nel medio periodo, se il Sud italiano e la Sicilia, cominciassero davvero ad esercitare, il primo inedite forme di autonomia, la seconda le prerogative che pure il suo statuto speciale le conferisce. Non sono sicuro che al Nord converrebbe. Soprattutto in una prospettiva storica di democratizzazione reale dell’Italia e più in generale del contesto europeo, di ridisegno della stessa architettura dell’Unione Europea sulla base della solidarietà tra i popoli e della pacifica e libera convivenza. Temi non poi così astratti, visti gli sviluppi storici in corso, e su cui in ogni caso sarebbe doveroso e urgente aprire un serio dibattito.

In ogni caso, non c’è nulla di sbagliato, sul piano storico e teorico ma anche etico, nel prospettare una configurazione dello stato italiano in forme federali o confederali. A patto che si faccia bene e nel rispetto di tutte le soggettività e le realtà territoriali coinvolte. D’altra parte, era una delle opzioni in campo fin dal Risorgimento. Non averle dato seguito – per via della rapacità dei ceti dominanti di allora, progenitori diretti di quelli attuali – è un errore che continuiamo a pagare.

La Sardegna, per ovvie ragioni geografiche e storiche, è un caso peculiare, benché partecipi, volente o nolente, dei destini opachi dell’Italia. Impiccata al suo vetusto e limitato statuto regionale e soprattutto amministrata da una classe politica scalcinata, subalterna e cialtrona, al momento non ha molte speranze di poter trarre giovamento da qualsiasi sviluppo ci riservi l’immediato futuro. Alla nostra politica di Palazzo, con qualsiasi etichetta si presenti, e alle bande parassitarie che la sostengono, va benissimo potersi lamentare del cattivo trattamento ricevuto a Roma, su questa o quella questione, pur di sgravarsi della responsabilità di combinare qualcosa di buono. In questo senso, l’insularità garantisce per il momento una sorta di fittizia credibilità politica, sia in quanto conquista (a loro dire) meritoria, di cui vantarsi, sia in quanto facile strumento di distrazione di massa. Ma non durerà. Prima o poi bisognerà fare i conti con la realtà. Sperando che non sia troppo tardi.

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