La grande trappola

La pandemia e la guerra in Ucraina mettono in rilievo alcuni fattori profondi della nostra contemporaneità. Non li creano, ma li rendono più evidenti. Bisognerebbe imparare a comprenderli e ad assumere posizioni non condizionate.

Il vero scontro in atto non è solo o tanto quello tra Russia e Ucraina (pure reale e drammatico), né quello – più o meno lineare, più o meno consistente – tra NATO e Russia. Non è nemmeno precisamente quello tra Occidente e Russia. E anche il grande conflitto tra USA e CINA è solo una parte della questione.

L’Occidente è una realtà un po’ astratta, se non metafisica, ed è difficile che una realtà del genere diventi parte effettiva di un conflitto reale, di indole storica. Sarebbe più corretto porre al centro dell’analisi le classi dominanti di ogni latitudine e longitudine, che detengono il controllo della forza, dell’informazione e delle risorse.

Il vero attore storico non è dunque l’Occidente, o la Cina, o che so io, ma gruppi di persone, portatori di interessi e obiettivi, che concorrono a orientare le scelte generali e perseguono i loro scopi a spese del resto dell’umanità. Quali scopi? In che modo? E questi modi e questi scopi divergono davvero da quelli della pretesa controparte geopolitica?

Se guardiamo ai fattori decisivi che regolano o condizionano l’esistenza della nostra specie, le differenze sostanziali tra la Federazione russa e il cosiddetto Occidente, o tra USA e Cina, non risultano poi così chiare e determinanti.

Nessuna delle varie entità politiche ripudia il modello socio-economico dominante, il meccanismo capitalista nelle sue varie incarnazioni materiali. Non c’è in campo una reale alternativa, nemmeno a livello teorico, come prospettiva storica. Quindi, nessun vero scontro di civiltà. Mutano alcuni aspetti di indole culturale, giuridica e politica. Ma la relazione tra i centri di potere e le masse, sia dove dispongano di una sfera di diritti astrattamente più ampia, sia dove tale sfera sia maggiormente compressa, tende a somigliare sempre di più. Così come l’atteggiamento delle diverse classi dominanti nei confronti del pianeta Terra e dei suoi equilibri.

È piuttosto difficile comprendere dove si collochi la linea del fronte, dunque. Qual è la ragione del conflitto globale in corso? E, prima ancora, qual è il conflitto globale in corso?

Potremmo accontentarci delle spiegazioni geopolitiche. La concorrenza spietata tra potenze economiche e militari, le sfere di influenza, gli spazi vitali, gli orientamenti strategici. Ma, posto che abbiano un fondamento concreto, le spiegazioni geopolitiche non sono spiegazioni, non chiariscono nulla, non ci fanno comprendere davvero cosa succeda e perché. È una visione limitata di fenomeni complessi.

Fino al 1989-91 si poteva pensare che il vero scontro globale fosse quello tra economie liberali, di stampo capitalista, ed economie pianificate, di radice socialista. Ma anche questa era una distinzione un po’ di comodo, che trascurava i dati di realtà, le vite concrete delle persone, la relazione tra attività umane e ambiente naturale.

Le democrazie liberali di stampo europeo non avevano disdegnato il fascismo e temevano il comunismo, salvo poi, tra 1941 e 1945, ritrovarsi a combattere il primo alleandosi col secondo. Certo, l’idillio è durato poco e ben presto, a giochi fatti, le democrazie occidentali hanno volentieri ricominciato a flirtare con ciò che restava di fascismo e nazismo. Non solo e non tanto per odio ideologico, di principio, verso il comunismo, quanto per la paura che movimenti democratici di massa potessero minacciare gli assetti di interessi materiali costituiti. Le ragioni di principio, nella politica internazionale come in quella interna agli stati, sono sempre – SEMPRE – coperture di interessi materiali più o meno confessabili.

Se ci fidiamo delle letture puramente ideologiche e insieme a queste delle analisi geopolitiche, cadiamo in una serie di aporie e di contraddizioni insuperabili. Lo stesso marxismo, se si esce dal livello analitico e si procede su un piano più decisamente politico, finisce per diventare inservibile o addirittura dannoso. Da cui poi gli esiti storici contraddittori, a volte drammatici, dei regimi ispirati alla teoria di Marx o alle sue varie interpretazioni.

Uno dei limiti decisivi del marxismo, a mio avviso, è la rinuncia ad affrontare il tema del potere. La dittatura del proletariato, oltre che essere una mera astrazione, per certi versi debitrice dello spirito romantico ottocentesco, era anche tributaria verso la visione hegeliana della storia. Come tale, del tutto inservibile, sul piano pragmatico. Invece la visione borghese, capitalista, è sempre stata squisitamente opportunista, ancorata ai dati di realtà, senza alcuno scrupolo etico a condizionarla. Ha così potuto combattere contro lo Stato, quando serviva, e sfruttarlo a proprio vantaggio quasi sempre.

Il problema del potere è uno dei nuclei fondamentali della nostra crisi epocale. In questo senso, resta ancora oggi molto più utile Gramsci, di Marx. E non butterei via, come fanno spesso con sdegno i marxisti di varia confessione, lo stesso Michel Foucault. (Chiaramente, la mole di riflessioni, studi e approcci teorici va ormai molto oltre questi nomi, ma è giusto per dare dei riferimenti di massima.)

In questo senso, ci aveva visto bene il vecchio Bakunin, quando si dichiarava poco persuaso dalla prospettiva marxista della conquista del potere senza una radicale critica allo stesso Stato. Ma le tesi anarchiche, benché affascinanti e su alcuni punti tutt’altro che infondate, restavano a loro volta piuttosto astratte. Difficile ripescarle sic et simpliciter come spiegazione e, ancor meno, come soluzione, nel mondo attuale.

Le varie teorie politiche novecentesche soffrono tutte di incompletezza e di una visione limitata dei problemi di fondo. Danno per scontati elementi storici che, proprio in quanto storici, andrebbero restituiti a una dimensione dinamica, transeunte, non assunti come a priori trascendenti, indifferenti al tempo, alle circostanze, ai fattori materiali. Lo Stato è il più significativo e il più noto, ma non è il solo.

Insieme al nodo del potere e a quello della natura dello Stato c’è il tema della “società aperta”, ossia del modello delle relazioni politiche e sociali. Entrano in gioco qui la definizione e la natura stessa dei diritti di cittadinanza, delle libertà civili, dei diritti umani, dell’eguaglianza.

Tutti i governi, più o meno apertamente, intendono scongiurare la possibilità che si instauri o si perpetui una società aperta e compiutamente democratica, ossia una forma di convivenza in cui:
– le persone e i gruppi sociali possano interagire nel modo più libero possibile,
– le minoranze di qualsiasi tipo siano garantite,
– sussistano e siano protette le libertà di parola e di espressione, il diritto all’informazione, la libertà di spostamento, l’eguaglianza di genere, la piena legittimazione delle diversità culturali, la dignità e le possibilità di realizzazione di sé di tutte le persone.
E, soprattutto, intendono impedire, anche attraverso l’uso manipolato della democrazia rappresentativa, che sia davvero il popolo a detenere ed esercitare la sovranità.

La Russia di Putin, la Cina di Xi Jinping, la Turchia di Erdogan, l’Ungheria di Orban, oggi anche l’India di Modi e vari altri stati più o meno grandi mostrano nelle loro classi dirigenti una notevole avversione per la società aperta. E lo dimostrano coi fatti, non esitando a scatenare la violenza di stato, a generare conflitti etnici, a legittimare discriminazioni di minoranze, a praticare la guerra come strumento ordinario di governo e di dominio. Ma siamo sicuri che il cosiddetto Occidente sia molto più avanzato, nelle sue classi dominanti?

La nostra epoca dimostra quanto sia fallace la pretesa che le differenze sociali e le diseguaglianze non contino molto, se sono garantite alcune libertà formali. Dopo tutto, esiste ancora la libertà di voto e si tengono regolari elezioni a tutti i livelli, nei nostri paesi democratici. Non è poco, intendiamoci, ma è ben lungi dall’essere il migliore dei mondi possibili.

Negli ultimi 45 anni, al vecchio mito della democrazia liberale si è sommata l’ideologia neoliberista, per cui bisogna affidare la regolazione dell’economia e dei rapporti sociali a quella strana entità chiamata mercato. Che in realtà non ha molto a che fare col “libero mercato” di accezione scolastica, ma, caso mai, al contrario, con la protezione degli oligopoli e delle rendite di posizione acquisite dalle classi abbienti. Il comandamento cardine è che i ricchi si arricchiscano sempre di più: qualcosa sgocciolerà anche verso il basso. Sappiamo, per fatti concludenti, che questa è appunto solo ideologia, che con le vicende reali non ha molto a che fare. Lo ha mostrato con i suoi studi, in modo particolarmente efficace, Thomas Piketty.

In definitiva, nelle democrazie liberali la libertà è ammessa fondamentalmente come libertà di consumo e, in generale, solo se non ostacola l’arricchimento delle componenti egemoni della collettività. In altri termini, non tutte le persone devono essere davvero libere, tanto meno uguali. E non devono mettere becco nelle decisioni più rilevanti.

Da tempo è evidente che le democrazie occidentali sono orientate a restringere la sfera dei diritti di cittadinanza, comprimendo le istituzioni rappresentative a vantaggio del potere esecutivo, allargando al massimo qualche sfera di libertà formale, in risposta al mutare delle sensibilità diffuse. Per altro, ciò avviene di regola sempre con un occhio di riguardo verso la sfera dei consumi. Spesso quelle che appaiono come concessioni di diritti si riducono ad aperture di nuove fette di mercato. La mercificazione universalizzata e i meccanismi consumistici non sono solo un effetto del modello socio-economico dominante, ma ne sono anche uno strumento potente.

Vale anche per la politica estera. La famosa esportazione di democrazia, anche quando non sia una brutale aggressione imperialista, si traduce al massimo nell’imposizione di modelli produttivi e di consumo occidentali, e in nuove forme di dipendenza. Lo stesso sviluppo capitalista “occidentale” non sarebbe mai avvenuto senza il colonialismo, l’imperialismo e la sua giustificazione ideologica razzista.

La relazione con pianeta Terra e con i suoi ecosistemi è un altro indice dell’impasse in cui siamo finiti, nelle democrazie liberali, ma anche negli altri regimi. Persino la tanto declamata transizione ecologica è solo un’etichetta attaccata su pratiche di produzione, di profitto e di consumo della stessa specie di quelle che hanno generato il problema. Per altro, come dimostrano questi mesi, qualsiasi buon proposito è del tutto provvisorio, rapidamente accantonabile alla prima occasione.

In realtà si fa di tutto per scongiurare una reale transizione ecologica, soprattutto nell’ambito decisivo della produzione e distribuzione dell’energia. Questo è un fattore su cui i governi e i grandi poli privati di interessi (a cui i governi sono organici) intendono mantenere uno stretto controllo.

Mutare il modo di produrre, distribuire e usare l’energia rischia di mettere a repentaglio egemonie consolidate e rapporti sociali estremamente vantaggiosi per la minoranza dominante dell’umanità. Puntare strategicamente sulla produzione da fonti rinnovabili e naturali, su una distribuzione reticolare, auto-alimentata e auto-regolata, che superi le distinzioni territoriali e renda l’uso dell’energia realmente democratico e tendenzialmente a basso costo, se non gratuito, sarebbe un vero disastro epocale per alcuni dei maggiori attori economici e politici del nostro tempo. Purtroppo, sono gli stessi che controllano anche la politica, il settore militare-industriale e in larghissima misura l’informazione.

Anche per questo mi atterrisce la facilità con cui, partendo da posizioni critiche, con la volontà di comprendere meglio quel che succede e di democratizzare tale consapevolezza, cadiamo invece nelle trappole più grossolane.

Se ci sembra di poterci esprimere liberamente e di poter agire pienamente nella sfera politica, è solo perché siamo stati incastrati dentro un grande gioco di ruolo in cui ci sembra di poter scegliere da che parte stare. Salvo non poter evitare di schierarci secondo schemi precostituiti e agendo dentro cornici predisposte. Anche quando ci sembra di svolgere un ruolo critico e oppositivo, accettiamo le categorie concettuali e le cornici interpretative imposte dall’alto, senza metterle sistematicamente in discussione. Ci dividiamo su aspetti parziali delle questioni, perdendo completamente di vista l’insieme, replicando la forma del discorso voluta da chi detiene il potere e le risorse. È successo con la pandemia, succede ora con la guerra.

Infatti, in questi stessi giorni, in Sardegna, davanti all’esercitazione “Mare aperto” e alla sfacciata imposizione coloniale da parte del Ministero della Difesa, la reazione è risultata debole, scoordinata, in ordine sparso. Alcune voci, per paura di dover ridefinire la propria posizione sulle vicende belliche in corso, si sono semplicemente zittite. Altre hanno ripetuto slogan abusati, perdendo di vista le questioni più dirette e immediate e ancora una volta il quadro d’insieme. E perché? Perché ci siamo adagiati a schierarci sulla vicenda ucraina secondo i criteri e i posizionamenti costruiti da altri, senza dotarci di uno sguardo e una voce più nostri.

Su un altro terreno, e spostandoci di poche centinaia di chilometri a ovest, un’altra vicenda politica potrebbe insegnarci qualcosa sul nostro tempo: l’affare dello spionaggio ai danni della classe politica catalana, denominato giornalisticamente “catalangate” (sic!). Non ne sai niente? Appunto. Invece è una faccenda pesantissima, estremamente rivelatrice sulla reale consistenza dei nostri regimi democratici.

Le classi dominanti, anche nei regimi democratici, hanno grosso modo sempre gli stessi scopi:
– estrarre valore e trarre vantaggi privati da ogni cosa, compresi i beni comuni, possibilmente drenando a proprio favore fondi pubblici;
– scaricare i problemi e i costi verso il basso;
– dividere le masse, parcellizzando e precarizzando il mondo del lavoro;
– disinformare sistematicamente e manipolare l’opinione pubblica
– svuotare le istituzioni democratiche ancora in piedi di funzioni e rilevanza.

Tutto ciò succede regolarmente, sia pure nelle varie declinazioni “nazionali”. È appunto a questo che dovremmo opporci. Ma troppo spesso, se provi a evadere dal gioco, diventi un paria. Se provi a mostrarlo per quel che è e a svelarne il meccanismo autoritario, arriva la condanna. Basta poco, i mezzi a disposizione sono potenti. Lo sanno bene gli attivisti politici di mezza Europa, con Italia e Spagna (e Sardegna e Catalogna) in prima fila, così come le voci dissenzienti del ceto intellettuale (e non sto parlando degli opinionisti a contratto che devono recitare la loro parte nei talk show televisivi o dei commentatori prezzolati sui social).

Così, anche le cose migliori di questa nostra epoca tardo-capitalista finiscono per perdersi nel marasma consumistico, nell’infodemia e negli ingranaggi di delegittimazione o repressione del dissenso. Senza quasi rendercene conto, viviamo esistenze sempre più alienate, più paranoiche, più violente.

Ci meravigliamo delle conquiste della scienza ma non ne capiamo il senso e il funzionamento. Addirittura l’egemonia politica e mediatica, con la partecipazione attiva di troppi intellettuali, è riuscita a imporre un concetto autoritario e oscurantista di scienza. E noi tuttə lì prontə a replicare pedissequamente queste trappole discorsive.

Guardiamo invece a come avvengono le scoperte scientifiche, dalla medicina alla tecnologia informatica, dalla biologia all’astronomia, ecc. La regola è la cooperazione, al di là – e a volte a dispetto – delle frontiere e delle inimicizie nazionaliste; la regola è lo scambio e la circolazione delle idee e delle informazioni. Il contrario di ciò che vorrebbero i governi e le grandi corporation, che hanno come primo scopo il profitto privato. E anche la soluzione alle grandi crisi, siano esse ambientali o belliche o pandemiche, sta nella solidarietà e nella collaborazione, non certo nella competizione, nell’egoismo e nella chiusura culturale. Questo sarà sempre più vero.

Lo stesso vale per l’arte, la musica, ogni forma di creatività. È la circolazione e la reciproca contaminazione delle idee a produrre progresso sociale, bellezza, ricchezza diffusa.

Siamo troppi, fortemente interconnessi, in un pianeta sempre più piccolo e affaticato. E non ne abbiamo un altro a disposizione. Ragionare per “conflitti di civiltà” o per “scontri tra potenze” o per “interessi nazionali” è del tutto anacronistico, oltre ad essere sommamente stupido. Privilegiare gli interessi privati rispetto a quelli collettivi, continuare a imporre la logica della competizione e dell’egoismo come regola universale, che implica, quando serve, il ricorso alla guerra, è evidentemente inaccettabile.

Su questo occorrerebbe ragionare, prima di dividerci sui fatti esposti al nostro giudizio dalle cronache manipolatorie. Non tanto per evitare di prendere posizione sui vari temi, quanto per poterlo fare senza perdere di vista la vera partita in corso in tutti i suoi aspetti.

1 Comment

  1. L’esito delle elezioni legislative francesi e quello delle presidenziali colombiane sembra cogliere impreparati gli osservatori politici italiani. Che, del resto, in genere sono pagati non per informare ma per orientare l’opinione pubblica. Opinione pubblica che però, per lo più, non li legge.
    Non li leggono nemmeno le opinioni pubbliche di altri paesi, evidentemente.
    In particolare, la vittoria in Francia della sinistra centralista e giacobina, con una spruzzata di verde, guidata da Mélenchon sta gettando la classe digerente italiana nel panico. Gli editoriali dei grandi giornali padronali lanciano l’allarme sulla “radicalizzazione” del voto. Aveva dunque ragione la pletora di commentatori orientati a un progressismo da salotto, sostanzialmente conservatore, che passa per essere la sinistra intellettuale italiana, ad auspicare la soppressione del suffragio universale. L’elettorato, come fa, sbaglia. Perché si ostina a non votare in massa come vogliono loro.
    Il ceto dominante italiano è provincialotto, gretto, retoricamente sciovinista (poi, in realtà, ognuno pensa al proprio “particulare”), vanaglorioso, sempre filo-autoritario e anti-popolare. Non per niente in Italia c’è un governo di larghissime intese, presieduto da un banchiere. Da settimane serpeggia il terrore, all’idea di cosa potrà venire fuori dalle urne al prossimo giro (al più tardi nei primi mesi del 2023). La promozione a principale controparte di una figura mediocre come Giorgia Meloni, per di più apertamente fascista, è indispensabile all’establishment italico per allestire la fiction della competizione elettorale, da cui alla fine verrà fatta emergere una soluzione di governo pensata a tavolino e avallata dai grossi centri di potere finanziario e politico internazionali. In Italia è più facile che altrove piegare le forme democratiche ad esiti anti-democratici.
    Ma il succo rimane lo stesso ovunque. Come dico da tempo (anche nel post qui sopra), il vero pericolo, per le classi dominanti globali, è la democrazia stessa, sia dove esiste, in qualcuna delle sue forme storicamente realizzate, sia dove non esiste.

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