di Stefano Puddu Crespellani
Dopo la tornata delle municipali in tempo di pandemia, qualche riflessione sullo scenario risultante può essere d’aiuto per orientare l’azione politica nei mesi e anni futuri. Omar Onnis l’ha già fatto con grande puntualità e nettezza sul suo blog SardegnaMondo, in diversi interventi (di recente, qui e qui) che meritano una lettura attenta.
Il primo dato è che, in Sardegna, la rappresentanza politica è stabilmente dimezzata. Questo livello di astensione cronica non viene più considerato un problema. Invece è indizio che c’è qualcosa di strutturale che non va nel modo di fare politica, e anche di parlarne. C’è, di base, uno scollamento inaccettabile tra rappresentanti e rappresentati.
Detto questo, il risultato elettorale ci parla, in primo luogo, di poli politici in fase di disgregazione: questo vale per le destre, per il PD, per i 5 stelle e in buona misura per i sardismi di convenienza. Le candidature forti non sono riconducibili a forze politiche definite, ma si presentano in veste civica e attorno a persone concrete.
La vecchia politica sembra agonizzare, però è ben intubata, e dal capezzale continua a prendere decisioni: le reti clientelari e l’ossigeno finanziario bastano, per il momento, a tenerla in sella. In questo è aiutata, soprattutto in Sardegna, da un sistema informativo quasi tutto nelle mani di chi muove i soldi, in mancanza di idee.
La politica nuova, invece, vive in uno stato di adolescenza prolungata; insomma, non riesce ad indipendentizzarsi. Manca una adeguata coscienza di sé, nonché degli interessi che può rappresentare e deve difendere. Soprattutto, mostra poco coraggio nel provare ad essere davvero “nuova”, nella scelta dei temi, dei linguaggi e dei parametri d’azione.
Si tratta, per cominciare, di abbandonare l’immaginario dei giochi d’azzardo, questa idea di stanze fumose dove segretari di partito giocano al poker, cercando di capire chi tra loro bluffa di più. Sembra sfuggirci l’evidenza che, in questo tipo di partite, alla fine chi vince è sempre il croupier, a nome di chi tiene il banco e distribuisce le fiches.
Invece si tratta di avanzare, magari anche a piedi, verso le famose praterie di cui tanto si parla ma che nessuno osa percorrere. La politica, in Sardegna, è fatta di estensioni enormi di campi incolti, che non hanno bisogno di entrare a far parte di nuove recinzioni, ma di qualcuno che cominci a lavorarli.
Basterebbe scommettere forte su due elementi di novità: l’attivazione di percorsi di economia locale, che affrontino l’emergenza dello spopolamento e dell’abbandono dei territori attorno a iniziative di cooperazione comunitaria; e la scelta del coinvolgimento, specialmente dei soggetti fragili, come base su cui rifondare la rappresentanza politica.
L’elemento identitario, cioè il radicamento in una cultura e comunità specifica, deve sorgere da queste scelte in modo naturale. Non è un contenuto a sé, uno slogan da sbandierare, ma un dato di realtà, un punto d’appoggio su cui far leva. Sarde sono le persone, nei territori in cui vivono. E devono mettersi d’accordo per cambiare percorso.
Per questo l’autodeterminazione non va pensata come un atto di fede, bensì come un metodo di lavoro basato sull’apertura mentale, la chiarezza di obiettivi, il dialogo franco e la disponibilità alla cooperazione. Ci si autodetermina insieme, nei luoghi concreti, per progetti condivisi e mettendo in pratica i valori in cui si crede.
La consapevolezza da cui partire è che, oggi, siamo quasi tutti soggetti fragili. Lavoratori precari in settori che reggono a fatica. La situazione pandemica ha solo accentuato i sintomi di insostenibilità di un modo di vita che ci è stato imposto dal sistema economico imperante su scala planetaria, e che si ripercuote sulle periferie con maggiore durezza.
Una durezza dovuta, nel caso della Sardegna, alla inettitudine costante e simmetrica di governi e opposizioni, che dura già da troppi anni e con pochissime eccezioni; una inadeguatezza che non risparmia, ahinoi, lo spazio “alternativo”, che poi è quello che ci interessa.
Per riuscire a maturare, questo spazio disperso e latente dovrebbe affrontare di petto le grandi sfide dei nostri tempi: la transizione ecologica, la trasformazione del lavoro, l’inversione dei processi di spopolamento e abbandono sofferti da comunità e territori, la lotta all’economia speculativa, la cultura come fonte essenziale di rinnovamento.
A questo lavoro tematico bisogna affiancare l’impegno di costruire politiche di partecipazione, a partire dal coinvolgimento delle persone giovani, che vanno ascoltate, sostenute e accompagnate, in un dialogo intergenerazionale che valorizzi anche le conquiste del pensiero eco-femminista ed emancipatorio degli ultimi decenni.
In particolare, dovremmo coltivare l’idea di empowerment, la crescita di potere dal basso: si tratta di incoraggiare le capacità di auto-organizzazione di comunità e gruppi, disposti a cominciare dal poco —che è sempre meglio del nulla— per combattere il senso di impotenza, sapendo che sono queste le palestre dove si prepara il nuovo.
Una cosa è chiara: in Sardegna non servono “capi”; non abbiamo bisogno di “essere salvati” da nessuno, bensì di imparare a cavarcela, insieme. Per cambiare percorso è necessario rimboccarsi le maniche, vale a dire anzitutto le proprie. Ma serve anche molto incoraggiamento reciproco, per alimentare la fiducia condivisa.
Quindi l’appello a lavorare ad uno spazio politico alternativo va rivolto assai più ai molti che hanno una delega da ritirare che non ai pochi che hanno “pacchetti di voti” da spostare. Il cambiamento lo costruiscono le persone per convinzione propria, facendo rete, cambiando la visione di ciò che è possibile realizzare insieme.
La Sardegna ha bisogno di sperimentare un tipo di politica che finora non c’è stata: orientata ai beni comuni, con un respiro europeo; e soprattutto ha bisogno di lasciarsi alle spalle quella che c’è ormai da secoli, cioè da quando siamo diventati politicamente subalterni: la politica degli intrallazzi, dei favori, degli intrighi, delle lottizzazioni.
A coloro che vorranno provarci va detto che questo è il momento di smettere di fare gli stessi errori di sempre, e che si tratta di cominciare a fare, se non altro, degli errori nuovi. Provare, per esempio, a peccare di fiducia e di chiarezza, anziché di furbizia e di sospetto. Commettere errori di generosità, anziché di grettezza.
Basterebbe anche cominciare ad applicare alla scelta dei rappresentanti politici quei criteri che i giovani devono seguire quando cercano lavoro: la preparazione teorica, la competenza pratica, la predisposizione al lavoro di gruppo, la definizione di obiettivi, la valutazione costante del proprio operato e del modo in cui è stato svolto.
Il compito politico di uno spazio alternativo diventa, alla fine, quello di stabilire un nuovo patto sociale ed ecologico, visto che il vecchio è saltato da tempo. Si tratta di una sfida così enorme che, paradossalmente, bisogna cominciare a costruirla dal basso, mettendo in pratica fin dove è possibile le possibili risposte, a partire dal proprio ambito d’azione.
Le scelte vanno sostanziate attorno a nodi concreti, sul come gestire l’energia, l’acqua, la salute, il settore primario, la cultura, in una logica di bene comune; dovremo pensare a come poggiare il lavoro su basi meno precarie, e questo richiede un modo nuovo di pensare il sistema impositivo e redistributivo, come già stanno facendo da altre parti.
Anche in questo caso, se proprio si deve sbagliare, che sia per lo sforzo di innovare, di attivare esperimenti inediti, di mettere in campo concetti ed esperienze nuove, e non per la ripetizione delle stesse politiche stantie, che impediscono qualunque evoluzione, e che ci allontanano dal diventare responsabili delle nostre scelte.
Per finire, il più desiderabile tra gli errori nuovi è quello di rivolgersi semplicemente alle persone, a cominciare da quelle che fuggono dalla politica così com’è, pur sapendo bene che oggi, più che mai, c’è bisogno di risposte politiche. Sappiamo che “la politica che non saremo noi a fare, verrà fatta contro di noi”. Per questo dobbiamo metterci in azione.
La prospettiva dell’autogoverno, l’aspirazione all’indipendenza, sono un modo di rispondere a problemi più ampi, che hanno come sfondo il collasso del capitalismo, la crisi degli stati nazione, lo stato di emergenza climatica, la recessione economica che già bussa alle porte, accelerata dalla pandemia di Covid.
È per questo che il compito del cambiamento richiede una alleanza molto ampia di soggetti, uniti non tanto da etichette ideologiche, ma dalla coscienza che il momento è drammatico e che abbiamo bisogno di unire le migliori risorse collettive in una dinamica di possibile riscatto, se vogliamo provare a offrirla alle nuove generazioni di sard*.