La crisi della democrazia rappresentativa è uno degli elementi di questo momento storico complicato. Una crisi dovuta al mutamento delle forme produttive e dei rapporti sociali su cui si è fondata, tra Otto e Novecento, questa “realtà immaginata”, in funzione dell’egemonia delle borghesie nazionali.
Tale fenomeno assume contorni specifici a seconda del contesto in cui si presenta. Se il contesto socio-politico è fragile, anche la democrazia rappresentativa sarà fragile e tanto più gravi saranno le manifestazioni della sua crisi.
Nel contesto politico italiano i fattori di fragilità sono sempre stati notevoli e potremmo dire congeniti. Nella sua succursale sarda ciò ha comportato la mancata realizzazione storica non solo di una vera democrazia in senso compiuto, ma anche di una decorosa democrazia rappresentativa.
In Sardegna questa forma di ordinamento giuridico-politico ha avuto storicamente una “declinazione paternalistica, simil-feudale e para-coloniale” (come scrivevo qui). Niente di particolarmente edificante e sicuramente niente che abbia potuto produrre un reale processo di emancipazione collettiva, a parte rari e circoscritti tentativi, presto normalizzati (vedi le giunte regionali presiedute da Mario Melis, negli anni Ottanta del secolo scorso o il primo biennio della giunta Soru, 2004-6).
In questi ultimi anni il conglomerato di rapporti di forza, di relazioni tra interessi diversi, di accomodamenti utilitaristici, avviatosi nell’isola con la fine della “prima repubblica”, è saltato per aria. Tale fenomeno complica il quadro di una realtà già debilitata, ma costituisce anche una opportunità politica notevole.
Una prima occhiata ai risultati della tornata elettorale amministrativa dei giorni scorsi suggerisce la conferma dello sfaldamento di alcuni gruppi di potere basati sull’affiliazione a forze politiche italiane, in primis il PD, ma anche lo stesso Movimento 5 stelle. Nel cosiddetto centrodestra prevalgono sempre, come fattori favorevoli, la capacità di raccolta di voto clientelare e una certa ostilità diffusa verso il governo centrale, ma senza dare a tali forze alcuna reale egemonia. Anzi, a ben guardare anch’esse escono ridimensionate dalla competizione del voto, forse pagando anche la pessima riuscita della giunta sardo-leghista al governo della Regione.
Un panorama di sfaldamento politico e di disarticolazione della rappresentanza popolare che discende in qualche misura anche dalla scomparsa delle grandi ideologie e delle grandi organizzazioni di stampo novecentesco. Anche in un contesto particolare come quello sardo, tributario e subalterno verso un centro posto altrove, le grandi famiglie politiche novecentesche si erano in qualche modo affermate come punti di riferimento, non solo astratti, teorici, generali, ma anche organizzativi e formativi. La loro crisi storica al centro, ha prodotto un disastro in periferia.
Nell’isola non si è ancora codificata e diffusa una “realtà immaginata” alternativa a cui affidarsi. Perciò sono emersi prepotentemente i limiti strutturali connaturati alla particolare declinazione sarda della politica italiana: scarsa qualità soggettiva del personale politico, clientelismo, nepotismo, commistioni tra interessi privati e interessi pubblici, opachi intrecci tra gruppi di pressione esterni e interni, disponibilità verso pratiche neo-colonialiste.
Ora, poniamo il caso che l’Italia in un modo o nell’altro si salvi, magari tramite il ricorso a un governo di unità nazionale capitanato per una volta non da qualche cialtrone arrivista o da un marpione senza scrupoli, bensì da un personaggio come Mario Draghi (in rampa di lancio da mesi). Dubito che anche lui riuscirebbe nell’impresa, ma ipotizziamo che ci riesca: come si rifletterebbe questo scenario sulla Sardegna?
La butto lì: per la Sardegna non cambierebbe nulla, se non in peggio. Qualsiasi salvezza dell’Italia sarebbe ottenuta a prescindere dalla Sardegna o, più probabilmente, a suo danno. Non per un disegno malvagio di qualcuno, ma per l’inevitabile dispiegarsi di un rapporto di forza del tutto sbilanciato e per l’assenza nell’isola di una potenziale opposizione politica a qualsiasi decisione proveniente da Roma.
In tutte le questioni decisive – dall’energia ai trasporti, dal settore agro-alimentare alla scuola, dal commercio al turismo, per non menzionare l’occupazione militare – lo stato italiano, come e più di sempre, userebbe la Sardegna come fonte di risorse da sfruttare, come territorio da destinare a impieghi dannosi o degradanti; nei casi migliori, la considererebbe una concorrente da tenere a bada (pensiamo ai flussi turistici, o all’agro-industria o a certe partite commerciali).
Nel caso di improvvisa disponibilità di risorse da investire, viceversa, la Sardegna sarebbe come sempre l’ultima ruota del carro o eventualmente la pedina da sacrificare. È sempre una questione di rapporti di forza, ribadisco, e la forza politica della Sardegna nello stato italiano è minima, se non nulla.
Nello specifico della gestione della pandemia di covid-19, stiamo constatando come alle scelte cervellotiche, paternaliste e per lo più inutili o alle non-scelte del governo non risponde alcuna reale forza di contrapposizione virtuosa nell’isola. La giunta Solinas sta dimostrando con ostinazione degna di miglior causa tutta la sua inadeguatezza e la sua intima pericolosità, in uno scenario emergenziale.
Mutare questo stato di cose non è affatto facile. Sarebbe necessario agire su tanti fronti. Ma chiaramente l’ambito politico è quello che ha un ruolo determinante. La maggior parte delle magagne sarde discendono dalla mediocrità della politica, dalla mancata realizzazione appunto di una forma accettabile di democrazia, sia pure rappresentativa. Dalla selezione al ribasso del personale politico consegue a cascata quella dei funzionari pubblici, quella dei gestori dei vari enti, quella degli stessi impiegati delle varie amministrazioni.
Il clientelismo e le consimili forme di gestione privatistica della cosa pubblica non sono solo un male di natura etica, ma prima di tutto un danno di natura pratica, materiale.
Dato che l’economia sarda dipende ancora molto dalla politica, è chiaro che questo sistema di potere implica anche un mantenimento dell’economia stessa a un livello di pura sussistenza, sempre ricattata dal decisore di turno o con esso vantaggiosamente ammanicata. Il che comporta un drenaggio di risorse a favore non sempre delle soluzioni migliori e più lungimiranti, bensì spesso il contrario. Dentro una prospettiva asfittica e sempre subalterna.
Tutto deve restare nella mediocrità, funzionare male. Ogni piccolo guadagno, ogni minima conquista deve costare molto. Nessuno deve illudersi di poter fare a meno di qualche padrino o di qualche padrone. Nessuno deve poter dare per scontato che le cose funzionino bene, caso mai l’opposto. In questa idiocrazia conclamata, oltre al vantaggio diretto per chi trae guadagno immediato dalle pratiche clientelari e dai favoritismi indebiti, c’è il vantaggio generale, di indole etica e culturale, di assuefare la cittadinanza al malcostume, alla rassegnazione, al pessimismo.
I terminali periferici di questo apparato di dominio tossico sono distribuiti capillarmente sul territorio e trovano i loro snodi concreti nella politica locale, quella che di norma controlla i comuni. Per questo è decisivo riconquistarli a una politica diversa. Non solo banalmente più efficiente, ma prima di tutto basata su presupposti, su prassi e su orientamenti ideali radicalmente alternativi.
Una nuova classe politica e un consenso popolare robusto a una prospettiva di rinnovamento profondo non si trovano per strada, non ci si inciampa sopra per un colpo di fortuna. Vanno costruiti e conquistati. E questo va fatto nelle condizioni date e con le carte di cui si dispone.
Per questo ho seguito con sconcerto alcune polemiche – fortunatamente limitate alle “bolle” autoreferenziali dei social media – nate nell’ambito indipendentista a proposito delle candidature alla recenti elezioni amministrative. Veti incrociati, scomuniche reciproche, giudizi frettolosi e superficiali, attenzione compulsiva a scovare gli errori altrui: tutti sintomi di immaturità politica, a mio avviso.
Con questo non voglio dire che non ci sono stati errori o che non si poteva fare qualcosa di diverso. Ma gli errori li fa solo chi, appunto, fa qualcosa, e le critiche è bene esprimerle, anche pubblicamente se è il caso, ma nelle sedi, nelle modalità e nelle circostanze giuste (ossia, prima di tutto non su Facebook).
La politica è l’arte del possibile, ossia deve fare i conti con le condizioni di fatto e con le forze reali in campo. Il solo fatto che tante/i militanti indipendentiste/i si siano candidate/i, o in formazioni indipendentiste o in liste civiche, e che diverse/i siano state/i elette/i, già di suo è un segnale di vitalità.
Se c’è una speranza di rianimare lo scenario politico sardo e sottrarlo alla deriva neo-colonialista in atto, risiede nel rafforzamento e nel coordinamento del fronte democratico, popolare, ambientalista, critico verso gli assetti produttivi e sociali dominanti, anti-imperialista, femminista e autodeterminazionista. È un fronte già attivo, di cui l’indipendentismo è una componente. Un fronte ampio e plurale, con tante anime, non necessariamente sovrapponibili, ma in grado, volendo, di trovare percorsi condivisi sui grandi temi strategici.
Forze sociali e istanze ideali di provenienza e di collocazione eterogenea devono imparare a convivere, ad ascoltarsi, a confrontarsi e anche, quando serve, ad agire di concerto.
Trovare forme organizzative e di coordinamento di questo variegato movimento politico, sociale e culturale è importante per due motivi. Uno è che serve per poter mobilitare le forze quando è necessario, che sia per manifestazioni specifiche o per presentarsi alle elezioni. Un altro è che una forma di ascolto reciproco e di coordinamento garantirebbe anche di non sovrapporre iniziative simili su temi analoghi ma anzi di mettere insieme le forze. Inoltre, trovandosi e confrontandosi, sarebbe più facile rendersi conto di quanto sia ampio e ricco questo movimento, evitando anche lo scoraggiamento delle/dei militanti e favorendo l’ingresso di nuove leve.
Servirebbe un patto politico strategico di ampio respiro, con pochi punti chiave, limiti chiari e rigorosi, ma non settari, occasioni formalizzate di incontro e dibattito, anche senza pulsioni assembleariste né votazioni a maggioranza o altri meccanismi finto-democratici analoghi. E, naturalmente, senza pretese leaderistiche o egemoniche di chicchessia. Molto meglio impratichirsi con i metodi partecipativi (ce ne sono tanti; vedi qui, o qui, per avere un’idea comunque non esaustiva). In Sardegna abbiamo un’esperienza millenaria in organizzazione di feste collettive e rebotas in grande stile: perché non sfruttarla in termini di condivisione e progettazione politica?
Non bisogna arenarsi sulle pretese di unanimismo o, su un altro versante, di purezza ideologica, né sulla retorica “né di destra né di sinistra” e altri diversivi analoghi. Così come sarà sempre necessario un filtro etico abbastanza robusto da evitare di piegarsi alla logica “se gli altri hanno successo facendo in questo modo, facciamo in questo modo anche noi”: certa indulgenza verso operazioni bassamente trasformiste degli ultimi anni o verso conversioni improvvise è giustificabile per chi è alle prime armi o per chi non sappia nulla della politica sarda, ma se facciamo un discorso serio non è ammissibile.
Lo scenario disarticolato in cui si agisce oggi – con la crisi evidente del PD e dei suoi satelliti (forti ormai solo nei meandri del sottogoverno, nelle università e in qualche ambito corporativo e clientelare), la pochezza politica del sardo-leghismo, l’estinzione del berlusconismo e lo scarsissimo peso del neo-fascismo – è il terreno ideale per sperimentare percorsi alternativi e per proporli agli elettori.
Il percorso di autodeterminazione della Sardegna passa necessariamente per queste prove. Non potrà mai portare a nulla di buono se si piegherà sul mero rivendicazionismo (vedi operazioni reazionarie come quelle sulla Zona Franca, ormai un po’ dimenticata, o quella sull’insularità in costituzione, molto gradita a tutto l’establishment coloniale), oppure all’opportunismo entrista (entriamo nel Palazzo in qualsiasi modo, a qualunque costo e con chiunque, poi faremo la rivoluzione dall’interno).
Il processo di conquista della democrazia in Sardegna deve basarsi sulle proprie forze vive, presenti anche nella nostra diaspora, e su risorse attinte dalle nostre articolazioni sociali, dal nostro mondo produttivo e dalla nostra ricchezza culturale, senza attendere sostegno o concessioni dall’esterno, senza inganni né opacità. Giusto qualche destrezza tattica, specie in caso di partecipazione alle elezioni, ma con giudizio. Si può fare.