In un pezzo sul suo blog “Sardegna e Libertà”, Paolo Maninchedda, già assessore ai Lavori pubblici con la giunta Pigliaru e ancor prima presidente di importanti commissioni consiliari in diverse legislature, lancia un appello alla mobilitazione per creare un fronte politico comune, antitetico all’attuale maggioranza in Regione, ma non precisamente coincidente col centrosinistra a guida PD. È un testo interessante da analizzare e che merita anche una risposta adeguata.
Cominciamo dall’analisi. A chi si rivolge Paolo Maninchedda col suo appello? Lo precisa subito lui stesso:
Se c’è una cosa di cui si può essere certi è che bisogna mettere insieme i diversi, non solo i simili.
Tutti mi dicono che occorre riunire tutte le anime dell’indipendentismo e del sardismo-non-sardista, che in realtà non sono anime simili, sono anime diversissime, come dirò, che usano parole simili.
Sicuri che basti?
A me non pare.
Serve qualcosa di molto più grande, dove possano ritrovarsi anche i socialisti senza patria, i liberali e i libertari, i radicali storici, i democratici, i non violenti, gli ambientalisti seri che hanno insegnato a tutti che la sostenibilità è non solo un contenuto della politica ma dovrebbe esserne un presupposto, i liberi d’animo e di vita (è quel tipo di anarcoide non violento, pacifico, altruista, di cui non mancano grandi esempi intorno a noi, ma che bisogna saper riconoscere perché tendenzialmente non fa baccano).
È una posizione condivisibile. Non nuova né originale, tuttavia. È una opzione su cui l’indipendentismo si interroga da molto tempo. Dirò di più, è una necessità politica oggettiva, evidente da molti anni.
Non per caso, almeno nell’ultimo decennio, sono già state fatte esperienze di questo tipo, non segrete né di poco conto, con successo alterno e variamente valutabile, ma non ignorabili.
Basti pensare, a titolo esemplificativo, alla Consulta rivoluzionaria (2012), alla coalizione Sardegna Possibile per le elezioni regionali del 2014 (decine di migliaia di voti ottenuti), al più recente esperimento di Caminera noa, alle mobilitazioni come quelle coordinate da “a Foras” contro l’occupazione militare dell’isola, al vasto movimento che si è opposto con successo al referendum costituzionale del 2016, all’assunzione di una visuale sarda e sulle cose sarde in percorsi collettivi come Fridays For Future, o Non Una di Meno (Manc’Una de Mancu), o il movimento LGBT+, senza dimenticare le realtà amministrative locali in cui sono presenti a vario titolo indipendentisti/autodeterminazionisti, spesso in aggregazioni civiche.
Insomma, sono ormai anni che l’indipendentismo dialoga, collabora e “fa cose” insieme ad altre componenti sociali e politiche. Singolare che Paolo Maninchedda non lo sappia. Forse perché intanto che migliaia di attiviste e attivisti tessevano relazioni, animavano discussioni e organizzavano eventi lui era impegnato a governare prima col centrosinistra, poi col centrodestra poi di nuovo col centrosinistra, spesso in ruoli di rilievo.
Ma va benissimo anche una conversione tardiva. Meglio tardi che mai. Il percorso democratico auspicato deve necessariamente restare aperto e inclusivo. Beninteso, non senza filtri e qualche dose di prudenza.
Paolo Maninchedda ha una sua idea, naturalmente, che prende le mosse da una rapida disamina sulle ultime legislature sarde, descritte come viziate da un cedimento alla mera amministrazione dell’esistente, senza visione, senza una prospettiva ideale.
Non potrei essere più d’accordo. Non mi convince il ricorso a Massimo D’Alema come punto di riferimento teorico, ma accolgo il succo della disamina con favore. Ricordo tuttavia che dentro quelle esperienze senza visione, senz’anima, rivolte alla mera gestione del potere per il potere, Paolo Maninchedda c’era, c’era sempre, e non era una comparsa. Maninchedda si chiede:
E dunque il problema è: come costruire una cornice ampia, ma coerente, dove ci si possa organizzare in modo non opprimente?
Come rendere esplicita da subito la necessità di produrre una lista alle prossime elezioni regionali che porti in Consiglio persone libere e capaci, senza che questo appaia come una proiezione opportunistica che svuoti di significato il percorso anziché arricchirlo?
Ecco, forse un primo passo sarebbe quello di non pensare subito e unicamente alla sfida elettorale. Questa visuale limitata indebolisce il discorso in partenza. Ma, anche restando su questo stesso terreno, una prima condizione potrebbe essere la scelta di non coinvolgere, almeno in prima fila, personale politico che ha già partecipato alle ultime legislature, con ruoli di responsabilità. Costoro dovrebbero farsi da parte e lasciare campo libero a un reale rinnovamento anche nella selezione delle candidature, al limite dare il proprio contributo in modo collaterale, senza aspirare a nulla per sé.
Nel passaggio seguente, poi, Maninchedda sembra addirittura sbilanciarsi pericolosamente a sinistra:
Occorre prendere atto che bisogna ricostruire in Sardegna un pensiero democratico, libertario, solidarista, modernamente socialista, fuori della Sinistra di governo.
Non è facile, ma è necessario.
Non può esistere un luogo di discussione a perimetro largo e libero, che non parta da una ripresa delle categorie di base della migliore tradizione democratica e liberale europea.
Non può nascere una posizione politica ampia e articolata che non abbia un pensiero divergente, solido ed efficace, rispetto al grande tema politico universale: l’egemonia dei poteri dei mercati e delle armi rispetto a qualsiasi altro potere e a qualsiasi altro diritto.
Non può nascere un’ampia area politica piacevole da vivere, senza un’esperienza culturale e educativa che la accompagni. Mica semplice, ma urgente.
Personalmente sarei anche d’accordo, in linea di principio. Potrei dire: benvenuto nel club! Magari, prima di accettare l’iscrizione, farei qualche domanda su come Maninchedda si pone riguardo ad alcuni temi decisivi.
Per esempio, riguardo all’occupazione militare della Sardegna: ritiene ancora di dover rassicurare la NATO a proposito del ruolo che un’eventuale Sardegna indipendente, naturalmente con la sua guida, manterrebbe? E poi, ancora, dovrebbe fornire garanzie sulla propria svolta sincera a favore dei beni comuni, degli interessi generali su salute e gestione sostenibile e democratica del territorio, anche a discapito di quelli privati di grandi operatori nei settori strategici (ricordiamo i suoi rapporti con Coimpresa, a proposito dell’affaire Tuvixeddu, o a quelli con Paolo Clivati, o, tra le più recenti, la posizione favorevole al nuovo inceneritore di Tossilo da parte del suo partito, a Macomer). E via elencando.
“L’egemonia del potere dei mercati e delle armi” su qualsiasi altro potere e diritto, inoltre, ha un nome: è il dominio generalizzato del modello capitalista, neo-colonialista, estrattivo, a cui la Sardegna non è certo estranea. Metterlo in discussione significa necessariamente mettere in discussione gli stessi assetti del potere così come consolidatisi in Sardegna da un paio di secoli. Sono gli stessi assetti di potere dentro i quali Maninchedda ha saputo muoversi con scaltrezza e disinvoltura per molti anni. È disposto a prosciugare lo stagno dentro il quale ha nuotato a suo agio per tanto tempo? Se sì, perfetto, ottima notizia.
Tuttavia anche questa manifestazione di resipiscenza potrebbe non bastare a rendere convincente il suo appello.
Uno dei principi cardine di un percorso di assemblaggio politico come quello proposto dovrebbe essere che le cose non siano decise in modo verticistico e gerarchico, tra pochi leader, spesso auto-proclamati. E che i percorsi e le azioni comuni non siano concordati nelle segrete stanze (o a un tavolo di ristorante), sulla base di relazioni opache tra portatori di interessi, detentori di “pacchetti di voti”, occupatori compulsivi di cariche di peso.
In questo senso, chiamare in causa Antonello Cabras (presidente della Fondazione di Sardegna), con cui Paolo Maninchedda evidentemente intrattiene un rapporto fiduciario, non depone a favore della sua premessa. O stai con le forze sociali e politiche popolari, alternative al pastrocchio neo-coloniale e subalterno che domina la scena, o stai con quest’ultimo, accettandone regole e forme di esercizio del potere.
Sono aspetti da precisare e su cui poi essere conseguenti. Se fai parte del problema, non puoi essere la soluzione. Questo vale per tutta la classe politica che ha esercitato il suo ruolo negli ultimi lustri, specie i suoi esponenti di spicco. Soprattutto quando manca il minimo accenno di autocritica.
Non basta definirsi “indipendentista democratico” per guadagnarsi una nuova verginità politica, senza per altro essere mai stato presente nelle vertenze, nelle lotte e nelle mobilitazioni sociali e politiche di questi anni, o addirittura essendo stato dall’altra parte del fronte. Tanto meno può essere lecito dettare un’agenda dall’alto, imponendo priorità del tutto soggettive e/o parziali.
Mi riferisco in questo caso all’“emergenza giustizia”, cui si accenna in conclusione. Sollecitazione singolare, dato che in passato lo stesso Paolo Maninchedda era sembrato impaziente che la stessa magistratura “sguinzagliasse i cani” contro un suo avversario politico del momento. Per giunta, se si deve discutere del ruolo della magistratura e dell’ordine pubblico in Sardegna, andrebbe fatto sì in modo critico, ma in un’ottica democratica ed emancipativa, di decolonizzazione, non sul piano dei meri rapporti di potere.
La questione non è dunque di natura personale e soggettiva. È una questione generale di igiene politica, di rigore etico e pragmatico. La Sardegna non ha bisogno di rivoluzioni passive, basate sul trasformismo e sull’opportunismo. Non possiamo sperare di mutare le cose affidandoci a metodi e persone che hanno già dato cattiva prova di sé.
Va scardinato il meccanismo politico in cui la cittadinanza è esclusa da qualsiasi ruolo attivo e il voto è solo la certificazione di un mero rapporto di forza tra fazioni locali, corporative e/o clientelari, magari garantite e legittimate dalla loro obbedienza a centri di interesse esterni. Un meccanismo in cui le trattative sotto banco, gli accordi trasversali, i patti di spartizione, la gara senza esclusione di colpi per occupare i vari posti di potere sono elementi normali della prassi politica. Ciò che configura precisamente quella mancanza di visione, di ideali, di politica vera che Maninchedda scopre solo oggi, tremendamente in ritardo.
Parliamoci chiaro, il fronte democratico auspicato da Maninchedda esiste già e lui stesso, per anni, lo ha ignorato o, altre volte, contrastato e considerato avversario, salvo, a volte, cercare di cooptarne spezzoni o singoli esponenti.
È un fronte vario, eterogeneo, ancora non organicamente distribuito sul territorio sardo, ma in cui sono già presenti, insieme ad altre ancora, le componenti che Maninchedda stesso chiama in causa. Non ha una forma organizzativa generale, non ha una leadership precisa, non si candida compattamente alle elezioni. Ma esiste, è vivo, ha molti argomenti e molte risorse morali e politiche nel proprio bagaglio. Non ha bisogno di grandi guide illuminate che lo mobilitino al proprio seguito, né di farsi spiegare le proprie ragioni e i propri obiettivi da qualcun altro.
Va irrobustito, reso più cosciente di sé attraverso il confronto, la discussione, i contenuti, le azioni comuni. Ne ho già parlato diverse volte (per esempio, di recente, qui e qui). È un lavoro collettivo a cui sono chiamate tante persone e tante realtà associative, da svolgere in modo capillare, dentro le vertenze territoriali e settoriali, dentro le lotte di interesse generale, nelle città e nei paesi, per le strade e nelle campagne, immersi dentro la realtà socio-economica e culturale della Sardegna.
A patto di procedere in questo modo, questa forza collettiva potrà anche partecipare alla contesa elettorale con buone prospettive di successo, senza padrini/padroni o guide illuminate di sorta. Al fine non di accaparrarsi il potere per il potere, ma di rappresentare finalmente anche dentro il Palazzo la Sardegna vitale e democratica che in questi anni ne è stata rigorosamente esclusa.
Parli di interessi privati ma sono interessi clientelari favoriti da chi ha potere nelle istituzioni. Di libero mercato e libera concorrenza non v’è nemmeno l’ombra in Sardegna. Parli di bene comune ma alla luce dei fatti dimostri in maniera evidente e chiara come le istituzioni sono le ultime a portare avanti il beni comune e le prime a portare avanti interessi privati/clanici. Un argomento fortemente a favore alla concorrenza come strumento per raggiungere il bene di ciascuno e di tutti
È una tua posizione, molto ideologica, secondo me, ben poco giustificata dal punto di vista storico e sul piano dei rapporti sociali reali. Non la condivido, ma sei libro di pensarla così, se credi. Tuttavia, in questo caso il tema principale è tutt’altro.
Articolo decisamente condivisibile. Se posso intromettermi, vorrei sottolineare un passaggio dell’articolo “Covid: Santa alleanza tra dance e mojito” del 13 novembre, il quale richiama, in maniera diversa, una delle osservazioni del suddetto appello (“…nelle ultime elezioni regionali, la scelta del Pd di un candidato post-comunista ha coinciso con l’annichilimento di un lungo percorso di avvicinamento tra l’area socialista e l’area dell’indipendentismo democratico”):
“Si paga l’assenza di pensiero, la folle rinuncia del Pd alla prospettiva politica contenuta nel valore della Nazione Sarda…” [in merito alla “crisi di serietà dell’alternativa a Solinas”]
La folle rinuncia del Pd alla prospettiva politica contenuta nel valore della Nazione Sarda. Più rimugino su queste parole, più i contorni (contenuti nel valore) della mia realtà si sfaldano.
È auspicabile/prioritario un concorso del Pd (partito) alla prospettiva politica contenuta nel valore della Nazione Sarda? Siamo sicuri che sia mai esistito? Può esistere? È questa “folle rinuncia” che si pensa davvero di pagare? “Folle”, per chi? Per il Pd?
Semus in bàtoro…o semus in chimbe?