Potrebbe andare peggio

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La parabola discendente della politica sarda sembra sempre vicina a toccare il fondo, ma non è detto che, una volta arrivati, non si cominci a scavare. Proviamo a trarre qualche indicazione utile da ciò che succede, a vario livello, al di là della pura cronaca.

Fa rumore un’inchiesta del programma “Report” sull’epidemia da covid-19, in particolare la parte relativa alla diffusione del contagio nelle discoteche sarde.

La vicenda è nota. Nell’agosto scorso, mentre già si segnalava una certa ripresa del contagio, con la stagione turistica nel pieno del suo svolgimento, c’era stata una discussione a più livelli sull’opportunità di tenere aperte o chiudere le discoteche. Una decisione della giunta Solinas, su sollecitazione bipartisan (centrodestra e centrosinistra) dello stesso consiglio regionale, aveva consentito infine di tenerle aperte, salvo arrendersi solo pochi giorni dopo – il 16, opportunamente dopo ferragosto – alla decisione del governo centrale di chiudere tutto.

L’indagine di “Report” svela la cedevolezza della politica sarda verso le pressioni di grandi interessi costituiti e di patronati politici d’oltremare. Una evidenza storica conclamata, potremmo dire, che in questo caso trova una conferma testimoniale forte.

Dovremmo stupirci? Evidentemente sì, se le reazioni di queste ore sono sincere (e non c’è motivo di dubitarne). Nemmeno chi si sente distante dalle posizioni politiche dell’attuale maggioranza in Regione arriva a concepire che la politica sarda possa essere fatta di questa pasta avariata. Spesso si tratta di chi pensa, in buona fede, che partecipare alla politica in Sardegna consista nella scelta a cadenza periodica tra uno o l’altro dei franchising elettorali italiani, che si esaurisca nel dover “battere le destre” o “la sinistra” o “i populisti”.

È un drammatico abbaglio nel migliore dei casi. A meno di non volersi illudere, o di essere del tutto ignari di come funzionano le cose, è impossibile non vedere quale sia il grado di commistione e di complicità all’interno dell’oligarchia che controlla le istituzioni sarde. Il trasformismo endemico, la prassi consolidata delle doppie o triple agende, delle spartizioni clientelari concordate, degli accordi sottobanco ne sono le caratteristiche costitutive. È una triste verità alla cui evidenza conviene arrendersi, se si vuole trovare un’alternativa democratica.

Il caso dell’apertura delle discoteche è solo uno dei tanti episodi mortificanti della nostra storia più o meno recente. La salvaguardia di un settore economico totalmente estraneo al tessuto produttivo e sociale sardo, di proprietà per lo più di società anonime con sede in paradisi fiscali, la cui attività per la Sardegna rappresenta sostanzialmente costi, qualche busta paga stagionale e poche o nessuna entrata tributaria, prevale su considerazioni di salute collettiva e di salvaguardia del tessuto produttivo e sociale locale.

Quello che vale per le discoteche, vale per molte altre partite. Non ultima la sanità.

Il grande fervore con cui le varie giunte regionali, di centrodestra e di centrosinistra, hanno messo in pratica le indicazioni ministeriali volte a smantellare la sanità pubblica e favorire quella privata, non è cosa di questi mesi. Il fatto che la Sardegna, pur in presenza di una diffusione dell’epidemia meno drammatica di alcune regioni italiane, si trovi in evidente affanno è dovuto a scelte non attribuibili solo alla giunta Solinas.

Benché la Sardegna sia titolare dell’esclusività nella gestione della sanità pubblica, con i conseguenti oneri per il bilancio regionale, la pianificazione di questo settore così delicato e vitale ha sempre risposto a criteri opachi e mai davvero funzionali alla sua efficienza e alla soddisfazione dei bisogni della cittadinanza. Inevitabile che, davanti a una sollecitazione straordinaria come quella rappresentata dalla covid-19, l’intero settore rischi di andare in tilt.

Il vero dramma è che in queste come in altre faccende sembra sempre che nessuno abbia la minima responsabilità su quel che succede. Il gioco dello scaricabarile è uno degli sport preferiti della politica coloniale sarda. Un continuo rimpallo di accuse e controaccuse, alimentato dai mass media, che finisce sempre per lasciare tutto come prima. Esemplare, in questo senso, la sceneggiata, per altro tardiva e poco credibile, di alcuni esponenti del centrosinistra sardo, improvvisamente consci delle debolezze di un servizio sanitario pubblico che loro stessi hanno contribuito a debilitare.

La politica sarda, nel suo aspetto pubblico, è una grande rappresentazione scenica. I suoi obiettivi e le sue pratiche reali non sono mai sbandierati né mostrati.

Il conglomerato di gruppi e portatori di interessi forti che domina l’isola da decenni ha sempre avuto nella sua proiezione elettorale e pubblica solo una facciata, mentre le vere leve del potere stanno al riparo da occhi indiscreti e soprattutto dalla volubilità del voto. Pensiamo oggi ad entità come la Fondazione di Sardegna o la SARAS, alle potenti lobby del mattone, ai grandi operatori turistici internazionali, al fondo sovrano del Qatar, ai comparti produttivi legati alla Difesa, ecc. Nel passato abbiamo avuto analoghi centri di potere e interesse a dettare la linea, senza dimenticare i giochi geo-politici, di cui la Sardegna è sempre stata pedina strategica, sia pure in posizione totalmente passiva.

I meccanismi di controllo del territorio da parte delle congreghe dominanti sono sempre stati molto efficaci. Una rete di complicità, fedeltà personali, scambi di favori, legami con referenti esterni forti che ha sempre consentito di controllare fino alla più piccola amministrazione locale, senza timore di sconvolgimenti dello status quo.

I più abili tra i commedianti hanno sempre avuto buone chance di fare carriera, passando dalla politica comunale, ai livelli intermedi (prima provinciale, quando ancora c’era una politica provinciale, poi regionale), fino a giocarsi la possibilità di essere eletti a Roma. Oppure, e forse addirittura meglio, trovare posto in qualche ente pubblico o para-pubblico, in qualche consiglio di amministrazione, ritagliandosi una propria area di influenza e di potere, con una propria clientela consolidata e propri pacchetti di voti da mettere all’asta di volta in volta. Quante carriere politiche di successo in Sardegna hanno seguito questo percorso?

Il voto democratico è sempre stato una variabile dipendente, in Sardegna; un rito collettivo volto a convogliare l’attenzione e la discussione pubblica, un gioco di ruolo tra fazioni politiche nominalmente avversarie, in cui simulare di scontrarsi e di proporre cose diverse; ma non ha mai rappresentato il vero cardine di una democrazia reale pienamente realizzata. Neanche lontanamente.

Col tempo sono mutati gli scenari internazionali e statali, sono mutati i referenti oltremarini, sono crollate intere impalcature di potere e sono scomparsi i grandi partiti novecenteschi; ma il meccanismo di fondo è sempre rimasto quello. Caso mai la differenza, negli ultimi trent’anni, è stata la progressiva caduta di ogni velo ideologico e/o ideale, a vantaggio di una sorta di pragmatismo tattico disincantato e di bocca buona.

Il meccanismo ha funzionato finché ha funzionato perché è – o era – pervasivo e ben oliato. Il suo primo livello era appunto quello municipale ed era lì che si vedeva la sua efficacia. Oligarchie locali, magari apparentemente divise in fazioni l’una contro l’altra schierate, che si contendevano il controllo sul comune. Con relative possibilità di gestire appalti, affidamenti, assunzioni, favori. Non è un caso se storicamente i comuni sardi sono stati governati male o malissimo, con rare, effimere e superficiali eccezioni. Faceva parte del gioco.

Tuttavia, sono ormai anni che questo coacervo di bassi istinti, mediocrità etica e politica, opportunismo e furbizia mostra segni di cedimento, davanti alle spinte della storia. Spinte che non riguardano necessariamente grandi temi e vicende di portata universale, ma spesso e volentieri la vita concreta delle persone.

L’inefficienza della pubblica amministrazione, la cattiva gestione di servizi e infrastrutture, le difficoltà materiali che la cattiva politica comporta sono sempre meno tollerabili per larghe fasce della popolazione. Nemmeno la rete clientelare tiene più.

Negli ultimi tempi, poi, essendo diventato estremamente fragile e disarticolato l’ambito politico italiano, la sua propaggine coloniale sarda non poteva non risentirne.

Se il primo segnale di possibile rottura, rappresentato dalla vittoria di Renato Soru alle elezioni regionali del 2004, era stato provvidenzialmente disinnescato, con la normalizzazione seguita al primo biennio di quell’esperienza di governo, gli anni successivi hanno messo sempre più in evidenza la fatica e la goffaggine con cui l’oligarchia coloniale sarda è riuscita a mantenere il potere.

Per tenere in piedi tutto questo meccanismo i partiti e le loro diramazioni locali dovevano essere efficienti, organizzati, sostenuti da un minimo di consenso, almeno occasionale. La finzione, per durare, doveva essere credibile. E per essere credibile ha sempre avuto bisogno di un notevole numero di persone che ci credessero sinceramente.

Oggi tutto questo sembra entrato in crisi. E questo nonostante non si sia ancora coagulata una proposta politica organica che sia chiaramente e radicalmente alternativa al pasticcio all’italiana che ha dominato la scena fin qui.

Che ci sia spazio e vita fuori dagli schieramenti egemoni di centrodestra e centrosinistra, basati su clientele e relazioni coloniali, era emerso anche alle elezioni regionali del 2014, nonostante l’abile mossa difensiva di una legge elettorale scandalosa, approvata in fretta e furia in prossimità del voto. Anche in quell’occasione, scampato pericolo. Ma ormai, soprattutto a livello locale, le articolazioni periferiche dell’oligarchia coloniale sarda faticano a tenere tutto sotto controllo.

Queste ultime elezioni comunali hanno sancito una debacle del sardo-leghismo, ancora al potere in Regione, ma sempre più screditato. Clamorosa la sconfitta a Quartu S. Elena. E nessuno sapeva ancora niente dell’inchiesta di “Report”! Per i sardo-leghisti e i loro complici il giro di giostra si avvia alla fine, e sarà una fine ingloriosa.

Ma anche gli altri franchising elettorali italici, il PD e il Movimento 5 stelle, escono ridimensionati fin quasi all’irrilevanza. Il PD, se vuole avere chance di piazzare qualcuno dei suoi nei consigli comunali, deve far finta di non esserci, perché se si presenta in proprio viene severamente sanzionato dal voto. Il Movimento 5 stelle, con tutto il rispetto per il suo elettorato in buona fede, potrebbe serenamente cambiare nome in Movimento 5 stalle, data la repentina e rovinosa caduta.

Da tenere presente che, con la pandemia in piena espansione, con i sommovimenti in atto nella politica mondiale, con le crisi globali in corso, la politica coloniale nostrana discuteva, dietro le quinte, nel bel mezzo della campagna elettorale, di spartizioni nelle aziende sanitarie ed altre analoghe amenità. Caso mai non fosse chiaro il livello.

A elezioni concluse, ci ritroviamo con un certo numero di sindaci e sindache eletti/e in nome e per conto di liste civiche, più o meno indipendenti, e un po’ di nuovi consiglieri comunali di area indipendentista o autodeterminazionista o comunque estranei alle solite combriccole locali. Nel complesso una buona lezione di democrazia, a dispetto di condizioni oggettive difficili, e non solo per via della covid-19.

Più che fare analisi troppo sofisticate e cercare di capire chi ha sbagliato e dove, negli schieramenti estranei all’oligarchia dominante, si tratta a mio avviso di prendere atto che la situazione è questa: piuttosto fluida e aperta a vari scenari. Non lo resterà per molto. Bisognerebbe attrezzarsi per occupare lo spazio politico e produrre qualcosa di solido in previsione dei prossimi passaggi.

Non escludo affatto la possibilità che, per parare il possibile ribaltamento politico, venga fatta emergere qualche figura apparentemente portatrice di novità e di principi emancipativi, ma in realtà legata e organica ai gruppi di potere fin qui dominanti. Sarebbe un gioco fin troppo facile e non vedo perché non dovrebbero provarci. Qualche anima ambiziosa, dalla parlantina sciolta e con un po’ di pelo sullo stomaco si trova sempre.

Spero solo che ci caschino in pochi, eventualmente. E che intanto si proceda a consolidare e a organizzare, magari in forme creative e diverse dal solito, l’ampio fronte politico popolare e democratico, al di là delle specifiche appartenenze e delle diverse prospettive di partenza. Prima di tutto coinvolgendo i cittadini, le formazioni sociali intermedie (comitati, associazioni, volontariato, mondo della scuola e della cultura) e la classe lavoratrice in generale, compresa – forse prima di tutto – la sua componente precaria e giovanile.

Sarebbe anche ora che la maggioranza dei sardi la smettesse di accettare come un destino ineludibile di doversi vergognare dei propri rappresentanti politici e che ambisca a un governo della cosa pubblica quanto meno decente. Prima di altre e più grandi conquiste, mi accontenterei di questo risultato.

7 Comments

  1. La tua analisi è come sempre perfettamente lucida ed emerge una visione complessiva oltre il servizio di Report, non posso però che provare un po’ di sconforto se penso al lato “pedagogico” della questione: come può, in questa situazione così radicalmente compromessa, formarsi una nuova classe politica sana che vada al di là del bixinau o comunque del comitato, associazione ecc.? Come interrompere il circolo vizioso se siamo sempre ricattabili ed in posizione di dipendenza? Forse, superato lo sconforto, ripensando alla Storia possiamo trovare esempi di casi analoghi dove si è riusciti, ma in questo momento mi sembra che siamo ancora ai margini di un vero cambiamento.

    1. Mai detto che sia facile, tanto meno che sia scontato.
      Non essere sconfortat* in questa situazione sarebbe da incoscienti. Io farei giusto un paio di considerazioni.
      La prima è che comunque si gioca con le carte che ci sono nel mazzo. Anche a me piacerebbe che fossimo messi meglio, con una classe politica meno scalcinata e nuove leve pronte a prendersi le proprie responsabilità con piglio democratico e la giusta dose di grinta. Invece l’unica cosa che possiamo augurarci e alla quale possiamo lavorare entro i limiti della ragionevolezza è prima di tutto salvare il salvabile e cominciare ad aggiustare tutto ciò che è rotto o malandato.
      Non da soli e non solo a livello di bixinau. Però comunque questo è un primo passo. Poi bisogne entrare nell’ottica che la Sardegna è un’isola, una terra che sta già per conto suo e che chi la abita ha, volente o nolente (stavo per scrivere “molente”), un destino di condivisione necessaria con chiunque altro la abiti. Dobbiamo maturare un’idea di comunità ampia, che vada al di là del giro di parentele amicizie e del vicinato, appunto, ed anche del proprio comune. E senza aspettare la politica istituzionale, che anzi campa da sempre sul divide et impera. Per questo parlo di organizzazione, di confronto necessario, di momenti di sintesi. Senza leadership calate dall’alto o l’attesa dell’ennesimo guru illuminato che ci guidi verso la salvezza.

      Ripensare alla storia per cercare esempi virtuosi può essere un esercizio interessante, ma anche ingannevole, perché le condizioni non sono mai le stesse e in particolare oggi affrontiamo sfide inedite, per l’umanità (non solo per la Sardegna). Storicamente, ci sono stati diversi momenti in cui i sardi se la sono dovuta cavare sostanzialmente da sé e quasi sempre ne siamo usciti bene. Altrimenti non saremmo ancora qui a raccontarcelo. Possiamo prendere queste vicende come un incoraggiamento o un esempio, ma non altro. Non c’è un Sardus Pater o un Mariano IV a toglierci le castagne dal fuoco, e non c’è una flotta francese al largo di Cagliari da cui difenderci.

      A me basterebbe che imparassimo – imparassimo di nuovo – a discutere, a comunicare tra noi, a fidarci di chi chi merita fiducia e a lasciar perdere chi tale fiducia non la merita, facendo affidamento sulle forze reali di cui disponiamo, poche o molte che siano. Possibilmente senza troppi dogmatismi e troppe pretese di dettare la propria linea a tutt*. Partiamo da quel che c’è: una manciata di bravi sindaci e brave sindache, un po’ di sana militanza sociale e politica, qualche intellettuale disponibile, un po’ di battaglie combattute insieme. Facciamo in modo di ritrovarci, anche fisicamente, non appena si potrà, e cerchiamo di costruire un’alternativa democratica che possa anche esprimere una partecipazione robusta alle competizioni elettorali, con una voce e una forza proprie, senza padrini o padroni esterni. Non vedo altra strada, sinceramente. Anche in considerazione del fatto che a un certo punto potrebbero essere le circostanze a chiamarci a un sussulto di responsabilità collettiva a cui non siamo del tutto pronti.

      1. Facciamolo, Omar!
        Facciamolo per davvero.
        Facciamolo adesso.

        Credo che i tempi e le contingenze rendano propizio il momento per indire un raduno obbligatorio di quelle personalità che hai indicato, perché chi ha voglia di riprendere in mano la socialità di questa isola al fine di traghettarla verso porti sicuri non si senta solo, impotente e sconfortato.

        Da dove (ri)iniziamo? Forse dalla scrittura e condivisione pubblica di un “programma manifesto”, che sia sintesi di quella forza e generosità politica che c’è, pulsa nelle istituzioni, nelle amministrazioni, nei sogni di ogni singolo cittadino, ma che oggi fatica a emergere.

        Guardiamo alla storia, ma impariamo a immaginare soprattutto un futuro. Diamoci un’utopia che ci faccia correre e prendere decisioni che vadano nell’interesse della nostra ampia comunità.

        Immaginiamo la Sardegna più bella e mettiamo in piedi una proposta politica che scuota le coscienze prima ancora di vincere una competizione elettorale.

        Facciamolo.

        1. Si dice che volere sia potere, ma non è proprio così.
          Intanto sarebbe necessario che questa cosa fosse voluta da molta gente. Su questo non ho certezze, anzi, a naso, le aspettative di un mutamento politico significativo potrebbero essere più alte di quanto possano sembrare.
          Ma poi c’è il lato pragmatico della faccenda.
          La disarticolazione dei rapporti sociali e (dunque) della rappresentanza politica ha avuto effetti anche presso la militanza alternativa, quella radicalmente democratica, indipendentista, ambientalista, ecc. Qualche segnale buono arriva dal mondo femminista (che non è un monolite, sia chiaro) e dal nuovo ambientalismo politico giovanile. Ma mancano forti collegamenti con le varie articolazioni del tessuto produttivo e sociale. Non c’è un movimento sindacale alternativo alle decrepite sigle confederali italiane (ormai dei meri centri di piccolo cabotaggio clientelare, per lo più). La borghesia produttiva è troppo vincolata ai favori della politica, per diventare un soggetto autonomo, anche se pure lì ci sarebbe da fare dei distinguo e forse qualche energia fresca e più libera si può trovare. Il mondo della cultura è ingessato dalla propria dipendenza dalle elargizioni politiche. L’università… Cosa vogliamo dire dell’università, dopo la tragica esperienza della “giunta dei professori”?
          Insomma, ritrovarsi sì, con una piattaforma politica condivisa, certo. Ma chi convoca chi? E, caso mai qualcuno lanciasse l’iniziativa, chi aderirebbe?
          Sto facendo l’avvocato del diavolo. Ma queste domande dobbiamo porcele.
          Però è anche vero che qualcosa bisognerà fare. Anzi, sono sicuro che qualcosa sta già succedendo, anche se non è chiaramente percepita dai più e per nulla intercettata dai mass media.
          A me piacerebbe che iniziassimo ad ascoltarci, intanto, e imparassimo di nuovo a discutere, anche pubblicamente, con serietà e magari una certa intransigenza etica.
          In Sardegna abbiamo una profonda cultura della cooperazione e del lavoro insieme, ma difficilmente riusciamo a tradurla in politica. Chissà che non succeda di qui in poi.
          Serve anche che ognuno ci metta del suo, senza pretendere nulla in cambio, con una buona dose di generosità. Sono cose che ho già scritto. Continuo a ritenerle giuste.

      2. Le due /tre cose che dici indispensabili, ma carenti, se non del tutto assenti, nell’uomo sardo, sono quelle che tu indichi, Onnis. E cioè: conoscenza della propria storia (che però ci è preclusa istituzionalmente), per cui manca la consapevolezza di quel che siamo, come siamo diventati”tali e quali potenzialità sono in noi; coscienza di essere popolo e non un insieme di tribù/clan; comunicazione interna (non sappiamo parlare/discutere/confrontarci tra di noi). Su tutti e tre gli aspetti pesa fortemente la costrizione/abitudine/rassegnazione al “non ascolto” da parte tutte le forze esterne dominanti del passato (e anche del presente!), che ci costringe a cercar l’ombra di padrini, naturalmente esterni alla Sardegna.

        1. Potrebbero essere davvero assenti nell’uomo sardo, ma presenti nella donna sarda.
          Il che risolverebbe almeno in parte la questione.
          Non credo all’esistenza di tare ataviche congenitamente impresse nell’ethnos sardo. Concordo però che le relazioni di potere e i rapporti sociali così come si sono stratificati negli ultimi secoli ci condizionano negativamente.
          E allora? Cosa facciamo, ci rassegniamo? Il primo passo nella risoluzione di un problema è essere coscienti del problema. Siccome mi pare che non siamo solo io e te ad esserlo, forse non siamo proprio messi malissimo.
          Certo che la storia ha un peso e che conoscerla serve sempre. Su questo, qualcosa si sta facendo, da più parti. Ma ad un certo punto si tratta anche di guardare alla propria condizione materiale e fare 2+2, anche senza tante elaborazioni teoriche.
          Oggi come oggi, temo che pesino di più sulla nostra sorte le pratiche corruttive e tossiche della nostra politica clientelare, la sua ignoranza e la sua sfacciataggine. Il pesce puzza dalla testa. Sto aspettando che siano i cittadini, specie quelli più dotati di strumenti critici e meno vincolati al ricatto occupazionale, a decidere di cambiare le cose. I cittadini in termini collettivi, non ognuno per sé, naturalmente.
          Io comincerei col decidere che i vari centrodestra e centrosinistra, per quanto rimixati e dissimulati si presentino, non siano più votabili. Sia come schieramenti, sia come personale politico. Ma questo è un discorso elettorale. A monte c’è un lavoro più profondo e diffuso da compiere, sia di riflessione, sia di unione delle forze sane, senza farci fregare da richiami all’ordine strumentali o da schemi politici ricalcati su quelli politico-mediatici italiani.
          Vedremo se questi prossimi anni ci proporranno qualche alternativa politica credibile. Facciamo però che ognuno ci mette un po’ del suo, senza aspettare che qualcuno ci apparecchi la pappa pronta e magari precisamente quella che avevamo in mente noi.

  2. Cioè, diciamocela tutta: se si volesse creare questa alternativa democratica, Indipendentista, scettico-autonomista (affinché chi si senta tale si convinca del tutto), occorrerebbe seppellire l’ascia di guerra.
    Mentre trascorrono i migliori anni della nostra vita – pieni di energia, di entusiasmo, di voglia di fare e di creatività -, siamo ancora qui a rimuginare su cosa fece “quello” nel 2014 e cosa “quell’altro” anni prima.
    Ci scannavamo per miserie del tutto archiviabili, e intanto la classe unionista si prendeva il Palazzo e il potere in toto, fino a lasciarci in balìa della sua inettitudine nel mezzo di questa gravissima crisi socio-economica.
    Davvero la nazione sarda merita, da parte nostra, così poco? Crediamo di no: ripartiamo, uniamo le forze al più presto e, ancor prima, facciamo la pace.

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