Il virus non è il nemico: paura, infodemia e autoritarismo ingredienti della distopia in corso

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La sensazione di impotenza davanti all’espansione dei contagi da SARS-CoV-2 è forte e si tramuta facilmente in esasperazione, quando non in ricerca di uno sfogo e/o di un capo espiatorio. È normale. Probabilmente non abbiamo ancora visto nulla.

Benché ormai alcune cose si sappiano su questo virus, sulla sua contagiosità e sulle sue conseguenze, sembra che le decisioni politiche procedano su un binario parallelo e solo superficialmente giustificato da ragioni strettamente epidemiologiche. Rispondono, evidentemente, a ragioni di altra natura.

Con tutta probabilità. si tratta di motivazioni dipendenti da rapporti di forza tra interessi costituiti, tra gruppi di pressione e centri di potere informale. Basterebbe anche solo guardare quali settori il governo italiano evita accuratamente di toccare, per farci un’idea di quali interessi prevalgano nelle decisioni politiche. “Nessuno tocchi Confindustria (e in special modo Assolombarda)!”

L’Italia rispetto ad altri stati si distingue – come al solito – per la propensione a preservare interessi di bottega specifici e tutt’altro che strategici, sia pure a discapito della tenuta stessa del “sistema paese” (come dicono gli editorialisti bravi). Beninteso, presentando queste scelte, tutte concentrate sul guicciardiniano “particulare”, come fatte in nome di interessi generali.

Non esistono interessi *generali*, nello stato italiano. E non solo per via dell’irriducibile dialettica sociale. Non sono mai esistiti, da quando è stato avventurosamente messo insieme alla meno peggio. Per ovviare a questa debolezza intrinseca, la classe dominante italiana è sempre stata propensa a ricorrere a strette autoritarie e alla repressione anche violenta del dissenso. Il fascismo è solo una manifestazione estrema e pateticamente folkloristica, nella sua tragicità, di questa propensione congenita. Una propensione che esisteva dunque da prima del fascismo, fin da subito, e non si è estinta nemmeno in epoca repubblicana e fino a oggi.

Così, mentre in molti paesi europei – non necessariamente modelli ideali di virtù democratiche, ma solo banalmente seri – una delle priorità anche nel corso della prima ondata di contagi sono state la scuola, la formazione, la cultura, in Italia questi settori, e la scuola in prims, sono stati individuati come pedine sacrificabili. In generale i giovani sono stati fin da subito additati, in un modo o nell’altro, come vettori di contagio e come gruppo sociale irresponsabile da tenere sotto controllo, fino a privarlo della libertà.

Notevole che persino oggi, in prossimità di una nuova fase di confinamenti generalizzati e chiusure drastiche, paesi come Francia e Germania su una cosa concordino e cioè nel non chiudere le scuole. Certo, probabilmente più per favorire il lavoro dei genitori, che per considerazione delle esigenze dei minori. Ma tant’è.

I giovani, la cultura, la scuola. Non sono bersagli casuali. Da un paese vecchio, in decadenza, con la classe dirigente – sia economica che politica – più ignorante, scalcinata, gretta e provinciale d’Europa, non è che ci potessimo aspettare di meglio.

Così come non ci si poteva aspettare che si facesse di tutto per preservare il Sud e le isole dall’espansione dell’epidemia. A dirla tutta, sembra quasi che si sia fatto l’esatto contrario. Non senza complicità in loco. Ma le scelte centrali sono state decisive, a dispetto della retorica centralista e anti-regionalista. Anche qui, non è impossibile ricostruire quali interessi siano stati privilegiati e quali sacrificati.

L’abitudine dei governi italiani a mentire spudoratamente ai cittadini, salvo intortarli con toni paternalistici e chiamate scioviniste al sacrificio di tutti per il bene supremo del paese, è stata più forte di qualsiasi sentimento di dignità personale, di empatia relazionale e di sensibilità sociale. Un fallimento politico e culturale epocale. Che subiamo, a volte passivamente a volte attivamente, quasi sempre senza nemmeno capire cosa sta succedendo.

Tutta l’azione del governo nella prima fase dell’epidemia è stata una sorta di grande rappresentazione scenica e simbolica, con punte di ritualità apotropaica ben meritevoli di accurati studi antropologici. La recita è stata così efficace, che la politica e la classe dirigente nel suo insieme ci hanno creduto davvero.

L’estate poi – aperta dalle polemiche turistiche, bellamente superate dalla realtà – anziché portare consiglio e persuadere i decisori politici a prepararsi a un’eventuale (e probabile) seconda ondata di contagi, è stata drammaticamente persa. In Italia si è discusso di campionato di calcio, di stadi, di banchi a rotelle e – solo dopo la loro chiusura – di discoteche.

Eppure, se davvero si fosse voluto fare qualcosa, lo spazio temporale c’era tutto e le coordinate pragmatiche secondo cui agire erano chiare.

Potenziare i trasporti pubblici era una priorità già da marzo. Riorganizzare la scuola, adeguando infrastrutture e personale alla bisogna, idem. Potenziare la sanità territoriale era una delle primissime esigenze emerse. Creare strutture ospedaliere e/o di accoglienza dedicate agli infetti era una raccomandazione fatta da tanti epidemiologi, così come operare un tracciamento dei contatti dei positivi il più possibile preciso ed esaustivo.

Poteva essere fatta una scelta di imposizione tributaria straordinaria sui patrimoni più grandi e sui redditi sopra una certa soglia. Potevano essere requisiti beni immobili o messi a disposizione quelli pubblici inutilizzati. Potevano essere calibrate meglio le misure compensative per le categorie più danneggiate, fino alla previsione di un reddito di base universale, almeno per la durata dell’emergenza. Potevano essere fatte scelte drastiche e radicali, perfettamente giustificabili con le condizioni di fatto da affrontare, esattamente come si sono giustificate le non-scelte e le cattive scelte fatte davvero.

Invece non è stato fatto nulla, tranne misure palliative e di cortissimo respiro, quasi sempre a costo zero (tranne i milioni di euro versati alle grandi imprese). Se ora paghiamo il prezzo di questa inerzia non è certo per colpa dei cittadini “che non rispettano le regole”, dei giovani scapestrati, dei vari untori additati alla bisogna (dalla “movida”, alle scuole, come prima erano i “runner” e i “furbetti” della pisciatina del cane).

Adesso dovremmo accettare – ma qualcuno addirittura lo chiede – di essere privati delle libertà fondamentali e delle uniche risorse emancipative e potenzialmente salvifiche a disposizione – la scuola, l’università, la creatività, la cultura, le forme di relazione spontanea – pur di non fare i conti con l’inaccettabilità politica di questo fallimento e l’ipocrisia di cui si ammanta. Chiudere la scuola, le palestre e i teatri va bene, ma non toccate il calcio professionistico, le sale slot e i grandi empori di aggeggi elettronici.

Col virus dovremo convivere, si diceva. Va benissimo (si fa per dire). Parliamoci chiaro: non vogliamo morire di covid-19 ma nemmeno di fame, di inedia, di solitudine, di grettezza. E allora, confessiamo a noi stessi che ragionevolmente non si può fermare il contagio, perché il tracciamento con questi numeri è difficilissimo e forse inutile, e il vaccino – che non sarà mai efficace al 100% – lo avremo l’anno prossimo.

In ogni caso è probabile che dovremo per forza fare i conti con la diffusione endemica della covid-19, come li si è fatti con la diffusione endemica dell’influenza (altra bruttissima malattia), a partire dalla fine dell’Ottocento.

Del resto, come si apprende dalle stesse cronache, facendo la tara degli allarmismi e del ciarpame sensazionalistico, in realtà la covid-19 si cura, già oggi. È sul fronte della terapia che abbiamo buone possibilità di risposta. Dunque, più che passare da un momento di emergenza all’altro, andrebbero riorganizzati permanentemente tutta la sanità e tutto il welfare. Sanità e welfare che sono entrati in crisi non per via della particolare natura di questa sindrome, ma perché erano già ai minimi termini (e forse qualcosa meno) già da prima. Uno dei lasciti diretti ed esiziali dell’ideologia neoliberale dominante.

Insomma, dato che questa pandemia è solo uno degli episodi possibili di una nuova realtà sanitaria sistemica, dovuta alle condizioni storiche contemporanee, non resta che prenderne atto e attrezzarsi di conseguenza.

Allo stesso modo, alcune lezioni apprese in questi mesi potrebbero diventare patrimonio consolidato e orientare le scelte generali anche in campi ulteriori, rispetto a quello puramente sanitario. Una rivisitazione dell’organizzazione del lavoro, una nuova concezione del reddito, una maggiore attenzione alla salute complessiva delle persone, una nuova sensibilità ecologica che metta radici nel senso comune, la drastica riduzione delle spese militari, la razionalizzazione di quelle sulle forze dell’ordine. Se volessimo, avremmo tanto su cui lavorare proficuamente, fuori dall’isteria emergenziale, in fondo così vantaggiosa per i governi e per i grandi speculatori sulla paura.

La difficoltà ad affrontare con un minimo di saggezza sia gli aspetti pratici immediati sia quelli sistemici emersi in questi mesi deriva da una sostanziale caduta delle capacità di immaginazione della nostra specie. Siamo ormai irregimentati in un pensiero unico, ottuso, monodimensionale e fondamentalmente stupido. Mancano “realtà immaginate” di riferimento, in un mondo umano ormai sfaldato in milioni di rivoli di egocentrismo e di consumo compulsivo. Non solo dunque abbiamo a che fare con un problema concreto di proporzioni storiche, ma siamo anche privi di un orizzonte di senso in cui inserire le nostre scelte e le nostre aspettative.

Siamo una specie “narrativa”, almeno dalla rivoluzione cognitiva di 70mila anni fa, e abbiamo costante bisogno di costruirci un mondo ideale, almeno come obiettivo a cui aspirare, per dare senso a ciò che ci succede e per non farci travolgere dagli istinti primordiali (che si agitano sempre nel nostro sistema neurovegetativo).

Non hanno altro senso la religione, la filosofia, la storiografia, la letteratura, le grandi ideologie, la scienza, il diritto, la politica. Al di là della differenza tra i loro status epistemologici, del loro grado di aderenza alla realtà (posto che possiamo definire la realtà come qualcosa di consistente di per sé) e dal numero di esseri umani che presta fede all’una o all’altra di esse, di tutto questo abbiamo una necessità vitale, di natura evolutiva.

Qual è il mondo ideale, la realtà immaginata, a cui facciamo riferimento oggi? E come si relaziona, come interferisce essa con la pandemia e la pandemia con essa?

Come ho già scritto, l’epidemia da SARS-CoV2 si innesta su una situazione già critica, di cui vediamo – a volte vagamente, a volte in modo estremamente chiaro – sia le manifestazioni più macroscopiche e diffuse, sia quelle più prossime e circostanziali.

A me sembra che gli effetti deleteri del contagio e della sua cattiva gestione siano solo la conseguenza di un processo storico, di natura produttiva e sociale ma anche e soprattutto politica e culturale, che ci ha reso estremamente fragili e indifesi verso qualsiasi reale mutamento delle nostre routine di consumo e di relazione.

Il sovraccarico di beni e di informazioni inutili, a cui siamo assuefatti fino alla dipendenza patologica, diventa una zavorra difficile da maneggiare e un elemento di disordine anche psicologico, davanti a una necessità brutale e insensibile come quella che ci impone un virus.

Che non è un’entità senziente, non ha volontà e non è nemmeno un “nemico”. Ridurre un microscopico filamento di RNA a qualcosa di affrontabile secondo i parametri ordinari che presiedono alle nostre esistenze è sì un espediente retorico consolatorio, ma non aiuta ad affrontare il lato pratico della faccenda.

Nella prima fase della pandemia uno degli slogan più diffusi era: ne usciremo migliori. C’era un vago ottimismo circa la possibilità che le circostanze eccezionali a cui stavamo facendo fronte ci insegnassero qualcosa o ci aiutassero a mutare comportamenti e rapporti sociali che altrimenti non avremmo avuto la forza di mutare.

Anche questo un mero espediente retorico. Nessuno, a cominciare dai governi europei, aveva davvero intenzione di mutare nulla. Mentre la frazione più ricca della popolazione diventava ancora più ricca, i governi per lo più cercavano di mettere una pezza sul disastro, ma senza toccare nulla dei meccanismi produttivi e sociali. Dietro la cortina fumogena provocata dall’infodemia, una parte del capitalismo, quella più robusta, più forte politicamente, più rapace, prosperava o comunque non vedeva affatto erosa la sua capacità di estrarre valore dal lavoro e dalle risorse materiali disponibili.

Anzi, è diventata usuale una modalità di decisione politica senza mediazioni, per decreto, emergenziale e autoritaria. Modalità a cui i governi si sono affezionati. Più sono deboli, più adorano ricorrere a tali strumenti impositivi. Col consenso di una fetta notevole della cittadinanza. Spesso quella che si auto-rappresenta come progressista, maggiormente istruita, civile e democratica.

Cos’è cambiato, alla fin fine? Non certo la nostra bulimia consumistica. Addirittura è scomparso dai radar l’allarme per i cambiamenti climatici e per i guasti inflitti alla biosfera.

La moltiplicazione artificiosa dei bisogni, a cui deve ricorrere per forza il sistema produttivo dominante, se non vuole collassare, ha subìto solo un piccolo rallentamento e forse nemmeno quello, grazie alle piattaforme di e-commerce e al quotidiano sfruttamento di manodopera a basso costo.

Non c’è niente di razionale, in tutto questo. È solo lo sbando della nostra presunta intelligenza collettiva, ridotta a funzione strumentale dell’accaparramento capitalista e del consumo ossessivo compulsivo.

Ne usciremo, forse, come siamo usciti da altre fasi problematiche della storia. Quando e come, tuttavia, non è dato sapere. Difficile che ne usciremo migliori e non è affatto garantito che “andrà tutto bene”. Possiamo anzi ragionevolmente aspettarci ulteriori sviluppi drammatici.

Il pianeta attuale e la sua componente umana non sono gli stessi di cento anni fa, tanto meno di cinquecento o di mille anni fa. La biosfera è menomata, le dinamiche fisiche e chimiche dell’atmosfera intaccate, la nostra specie più numerosa che mai, ma aggressiva e invasiva come e più di sempre. Non possiamo fare paragoni con alcun’altra epoca. Il che implica che in realtà non abbiamo idea di cosa possa succedere. E non per colpa di un virus, che di “colpe” non ne può avere.

Perciò tocca sperare nel meglio ma prepararsi al peggio. E ciò per i cittadini significa essere pronti non solo a rinunce dolorose e a sofferenze assortite, al di là di quelle prodotte direttamente dalla covid-19, ma forse prima di tutto a resistere a imposizioni insensate e a possibili derive autoritarie. Tutta la fiction distopica dell’ultimo cinquantennio, letteraria, televisiva o cinematografica che sia, a qualcosa servirà.

Naturalmente, non possiamo pianificare il nostro futuro basandoci solo sulla narrativa distopica, tanto meno su quella centrata sulle capacità individuali e sulla retorica schematica e manichea del “bene” contro il “male”. Un male per di più solitamente incarnato in qualche esempio di malvagità pura e fine a se stessa o in un nemico esterno.

L’individualismo è una parte del problema, non certo una risposta intelligente. E la controparte non sono gli alieni o un’intelligenza artificiale impazzita o qualche super cattivo fumettistico. Ci salveremo salvando le nostre relazioni, la solidarietà, le priorità collettive, la capacità di discernere le parti in gioco nel conflitto sociale e politico in atto.

E tenendo conto della realtà concreta in cui agiamo e in cui hanno luogo i nostri rapporti sociali, senza andare dietro a feticci egemonicamente imposti (e subiti passivamente dalle masse), o affidarci alla speranza che l’aiuto ci venga da qualche altra parte, o da qualche governo illuminato.

Dove il mondo sembra spingerci all’egoismo più ottuso, o al conformismo consolatorio alle decisioni dell’autorità (sempre meno democratica), o a diversivi di comodo come le teorie del complotto, o al “tutti contro tutti”, dobbiamo fare uno sforzo per rispondere col nostro senso critico e con la nostra empatia. Non dobbiamo rinunciare alla cultura e alla creatività, alla “alleanza dei corpi” e al diritto a manifestare collettivamente il nostro dissenso. Dobbiamo sforzarci di non cadere nella paranoia e di mantenerci lucidi.

Chiaramente, non è facile capire e orientarsi, prima ancora che agire. Ma arrendersi e spegnere il cervello, farsi travolgere dall’infodemia e dalla politica della paura non risolverà nulla. Anzi accelererà il disastro, se disastro deve essere. Facciamo in modo che, se succede, non succeda con la nostra complicità.

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