Il popolo sbaglia sempre, specie quello sardo

Quel che colpisce molto, in tutta la discussione sulla riforma costituzionale approvata definitivamente col voto del 20 e 21 settembre, è la natura e il contenuto della discussione stessa, soprattutto in Sardegna.

È come se questa riforma costituzionale rivelasse una confusione di fondo e una certa vaghezza negli obiettivi e prima ancora nella percezione della realtà da parte di chi, nell’isola, si occupa di politica, la pratica, fa militanza attiva o comunque se ne interessa non a livello episodico.

Nell’ambito dei partiti e dei gruppi di potere istituzionalizzati, quelli che siedono a Palazzo e hanno connessioni con l’apparato di potere italiano, il dibattito è stato ben poco animato, ricalcando sostanzialmente gli ordini di scuderia arrivati da oltre Tirreno, ma senza enfasi, senza particolare coinvolgimento.

È comprensibile: non conveniva esporsi troppo. Ma dubito che almeno i più furbi non ci abbiano riflettuto su. In fondo la riduzione automatica del numero di potenziali deputati e senatori da eleggere in Sardegna tocca direttamente le loro speranze di carriera e sistemazione.

Non deve essere stato facile scegliere tra la fedeltà agli ordini ricevuti e il calcolo sulle possibilità future di mantenere status e privilegi. Il fatto che la legislatura statale abbia davanti a sé ancora due anni e mezzo buoni e quella regionale addirittura tre e mezzo ha influito senz’altro: c’è il tempo di riorganizzarsi e ricalibrare posizionamenti, alleanze, complicità.

Il livello a cui si svolge la politica vera, ossia quella di chi è già dentro i meccanismi di potere e le istituzioni, è sempre un livello molto pragmatico e tattico, mai astratto, ideale o teorico. Teniamolo presente.

Il dibattito è stato invece molto più acceso tra i gruppi e i commentatori esterni al gioco di potere reale. Come osservavo in una riflessione precedente, c’è stata una spaccatura abbastanza trasversale e disordinata anche nel variegato ambito autodeterminazionista e indipendentista.

Non ripeto la mia valutazione – soggettiva e opinabile, chiaramente – su questo fenomeno. Bisognerà ragionarci su ancora, secondo me. Ma in questo caso mi colpisce in modo particolare la reazione con cui è stato accolto il risultato sardo della consultazione.

In Sardegna, l’affluenza alle urne per il referendum costituzionale, pur in concomitanza con le elezioni suppletive in un collegio sassarese per il Senato, si è fermata a meno del 36%, il dato più basso di tutto lo stato italiano, a parte la Sicilia. Un dato ben distribuito su tutto il territorio sardo, senza significative differenze da un’area a un’altra. Tra chi ha votato, ha prevedibilmente prevalso il SI, a favore dunque della riduzione dei parlamentari.

C’è dunque da valutare sia il dato dell’affluenza sia quello del risultato in quanto tale.

L’affluenza, lo dico con sincerità, mi ha stupito: prevedevo che andasse a votare sì e no un quarto dell’elettorato (il 25%, per capirci), e mi sembrava già una previsione molto sbilanciata a favore dell’affluenza. È un segnale, dunque, non di mero disinteresse generalizzato, ma della difficoltà oggettiva della scelta, una scelta comunque non scevra di dubbi, contrastata. Il grado di menefreghismo attribuibile all’astensione a mio avviso è piuttosto basso. Chi non ha votato lo ha fatto dopo averci riflettuto su, a volte con amara rassegnazione.

Anche la percentuale a favore della conferma della riduzione dei parlamentari mi ha sorpreso, perché mi sarei aspettato una vittoria del SI molto più schiacciante. Anche qui evidentemente il risultato rispecchia una scelta non superficiale e/o semplicemente emotiva, ma almeno in parte ragionata.

Le reazioni al risultato sardo, tuttavia, sono state per lo più di disprezzo e di stigmatizzazione negativa. Soprattutto chi si era espresso per il NO ha giudicato molto severamente sia il dato dell’affluenza sia quello del risultato specifico.

Faccio un esempio, giusto per capirci:

È un tweet di Alessandro Masala, in arte SHY, un noto youtuber cagliaritano, con un certo seguito in Italia.

Diversi commenti in calce al tweet ne confermavano il senso, precisando ulteriormente che esiste – in questo come in altri casi – una “colpa” dei sardi, che – per un problema evidentemente congenito della loro razza – non saprebbero partecipare adeguatamente alle dinamiche democratiche “nazionali”. Ne presento giusto un assaggio:

Anche su altri social media i commenti sono stati del medesimo tenore. Da notare che spesso, chi si esprime in modo critico, dà ad intendere di saperla più lunga dei sardi (o degli altri sardi, nel caso il commento provenga da qualche isolano/a) sia su questo tema particolare, sia su tutto il resto (“i sardi dovrebbero…”).

È sorprendentemente pieno di gente che possiede ricette miracolose per risolvere i problemi strutturali e storici dell’isola. Il mistero è come mai nessuno di questi si sia mai cimentato in politica e abbia regalato a volgo tanta competenza. ma anche questa mancanza probabilmente è attribuibile ai difetti atavici dei sardi.

Insomma, questi benedetti sardi sono una popolazione minus habens, incapace di capire quale sia e dunque di perseguire il proprio stesso bene. Naturalmente, quando un giudizio del genere viene espresso da un/a sardo/a si sottintende che i sardi e le sarde colpevoli siano sempre gli altri e le altre.

Sono reazioni che mi sembrano estremamente infantili, che rivelano in ogni caso una scarsa propensione democratica prima di tutto in chi le esprime ed anche una notevole superficialità di giudizio su questioni invece complesse e non riconducibili a fatti di cronaca contingente né a presunti deficit specifici dell’ethnos.

Prendiamo un termine di paragone vicino e perfettamente calzante: il referendum costituzionale del dicembre 2016. In quel caso la riforma era anche più complessa e di difficile valutazione, nel suo insieme. Anche in quella circostanza c’era stata molta discussione, soprattutto al di fuori della politica istituzionale.

Il risultato, sia come affluenza sia come scelta di voto, era stato molto diverso da quello odierno, come forse qualcuno ricorderà. Non sono passati tanti anni. Allora si valutò, secondo me giustamente, che i sardi avessero assunto una posizione molto consapevole e molto determinata su una questione pure delicata, di cui non era sfuggita la natura reazionaria e penalizzante verso la già debole autonomia regionale.

Un elettorato dunque tutt’altro che passivo, o preda della propaganda e facilmente condizionabile. Possibile che in quattro anni tutta quella sagacia e quello sforzo di consapevolezza si siano tramutati in disinteresse, passività e scarsa coscienza di sé?

Più probabile che il risultato complessivo del voto, dunque ricomprendendo anche l’astensione come scelta esplicita e non irriflessa, sia il frutto di fattori e di valutazioni che, sommandosi, hanno dato tale esito. Fattori e valutazioni diversi e di diversa indole, da vagliare e soppesare separatamente e nella loro rispettiva portata.

Le ragioni per il NO erano consistenti, ma abbastanza astratte, per lo scenario sardo abituato a scarsissima rappresentanza dei propri interessi a Roma. Le ragioni del SI suonavano in certi casi legittime, ma prevalentemente dentro una sorta di pulsione punitiva che non è corretto ascrivere totalmente a orientamenti populisti acritici e autolesionisti. L’astensione è stata il frutto, credo nella maggior parte dei casi, della irrisolta contraddizione tra ragioni che si elidevano tra loro e anche di una certa consapevolezza che le questioni politiche reali e pressanti esulano dal tema di questa riforma costituzionale.

Tra le legittime ragioni del SI non ricomprendo quelle espresse dai primi promotori della riforma, i 5 stelle. La loro è una posizione non solo genericamente populista e “anti-casta”, ma più precisamente orientata alla dissoluzione del sistema democratico rappresentativo, per sostituirlo, appena possibile, con una democrazia plebiscitaria, sul tipo di quella che loro stessi esercitano sulla piattaforma Rousseau.

È una posizione espressa chiaramente a partire dal fondatore e guru Beppe Grillo e ribadita anche da altri esponenti del movimento. Temo che non sia stata ben compresa la portata e la natura di questa prospettiva. Che non è emancipativa né espansiva degli spazi democratici, bensì, al contrario, pericolosamente consonante con la deriva reazionaria e anti-democratica che sta prendendo sempre più piede, sia nell’establishment economico e politico internazionale, sia nei suoi (finti) oppositori populisti-sovranisti.

Lasciando per un momento da parte questo disegno e tornando con i piedi sul terreno sardo, a me sembra evidente che non sia tanto questo il senso della prevalenza del SI alla riforma costituzionale approvata. Piuttosto si tratta di una forma di disillusione e di intervento sul terreno stesso non della rappresentanza politica in quanto tale, bensì dei magheggi e delle manipolazioni che l’hanno trasformata in qualcosa di radicalmente diverso da ciò che dovrebbe essere.

In questo senso, è doveroso ricordare che l’erosione della democrazia rappresentativa e dei suoi meccanismi virtuosi non dipende dall’apparizione del movimento di Grillo né è fenomeno ascrivibile a questi ultimi anni di successi populisti-sovranisti, bensì deriva da scelte compiute fin dall’indomani della caduta del Muro di Berlino e della fine della cosiddetta “Prima repubblica” in Italia.

L’appiattimento su un efficientismo decisionista di stampo autoritario, il progressivo ampliamento delle prerogative formali e informali dell’esecutivo a discapito del parlamento sono frutto di una legislazione e di una prassi attuate da tutte le formazioni che hanno governato l’Italia negli ultimi trent’anni (ma non è un fenomeno esclusivamente italiano). L’esito estremo dei mesi scorsi, con un intero stato governato a colpi di Decreti del Presidente del Consiglio, è solo l’ultimo passaggio di una tendenza in atto da molto tempo.

In questo scenario, il peso e la portata del voto sardo sono estremamente limitati. Accapigliarsi e dividersi a proposito delle ragioni e dell’esito di una riforma costituzionale che penalizza la Sardegna solo in termini relativi non appare saggio oggi come non lo appariva alla vigilia del voto. È una considerazione dunque che prescinde dal risultato del medesimo e dalla stretta contingenza.

Caso mai, come ha fatto presente su Facebook Maurizio Onnis, sindaco di Villanovaforru, bisognerebbe cogliere l’occasione per ragionare in termini più pragmatici e più strategici. Concentrare le forze sui livelli politici più prossimi, su cui l’elettorato sardo ha la possibilità di agire direttamente, in primis quello delle amministrazioni locali.

Tra poche settimane in Sardegna si voterà in diversi comuni, tra cui alcuni “di peso”, come Nuoro (e non lo dico per puro spirito campanilista nuorese). Sarà un banco di prova sulle tendenze in atto oggi nell’isola. In ogni caso, le (poche?) forze democratiche in campo hanno di che occuparsi, senza farsi distrarre.

La migliore risposta alla concentrazione di potere in atto a livello statale e globale, facilitata anche dalla pandemia di covid-19, dovrà essere la conquista progressiva di maggiori spazi di democrazia e di autodeterminazione. Non solo in termini elettorali, ma anche e prima di tutto in termini di partecipazione attiva e di dibattito pubblico. In Sardegna ce n’è un estremo bisogno.

Il resto, se verrà, verrà perché ce lo conquisteremo collettivamente. Che Roma (o Milano, o Bruxelles, o Washington) voglia o non voglia.

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