Piccolo vademecum in due capitoli per affrontare le elezioni senza farsene travolgere e senza farsi ingannare dalle apparenze. Seconda parte.
Riprendo dal tema “comunicazione e media”, dove eravamo rimasti nella prima parte.
Per chi ha già ruoli istituzionali, risorse a disposizione e l’appoggio di grandi centri di potere esterni, è tutto più facile, ovviamente.
Basti pensare a quanto contino in Sardegna la televisione italiana e, in seconda battuta, la stampa italiana.
Qualsiasi proposta politica rivolta alla Sardegna che abbia un riscontro nei mezzi di comunicazione principali italiani conquista già solo per questo una legittimazione e una certificazione che le istanze estranee all’apparato di potere dominante non avranno mai, o solo marginalmente.
Qualsiasi manichino impagliato venga candidato in Sardegna con l’investitura e la benedizione dei capi politici e dei mass media italiani (leggi soprattutto televisione) ha un vantaggio competitivo.
Questo proprio perché esiste un’indubbia egemonia culturale italiana, in Sardegna, soprattutto nei mass media tradizionali, e l’elettorato sardo è piuttosto anziano e ancorato a un retaggio di subalternità difficile da scalfire.
Gli outsider hanno a disposizione altri strumenti, meno docili, meno facili da usare. Nessun outsider può permettersi squadre di spin doctor, social media manager, un esercito di troll o, banalmente, i servizi di propaganda a pagamento.
Le campagne elettorali costano molto, è un dato di fatto. Ed anche questo contribuisce a smentire la pretesa di eguaglianza delle opportunità e di democraticità reale del voto.
Chi non ha fondi o finanziatori (più o meno occulti) deve necessariamente lavorare di ingegno, studiare, sapere come funziona la comunicazione nelle campagne elettorali e inventarsi qualcosa.
I politici più spregiudicati e cinici, nonché dotati di fondi sufficienti, fanno un uso particolarmente efficace delle tecniche di comunicazione politica, servendosi anche di un monitoraggio dei contenuti più di tendenza e adeguandosi al sentire comune.
Quando si dice “quello lì sa parlare alla pancia della gente” sembra che si evochi chissà quale talento personale del politico in questione, invece quasi sempre è solo un algoritmo.
Su questo fronte sono tantissime le cose di cui tenere conto e non vi si può sottrarre.
D’altra parte i voti ingabbiati nei pacchetti preconfezionati o vincolati a rapporti di ricatto occupazionale e di clientelismo non li si conquista con le buone intenzioni, né con i buoni argomenti e nemmeno con la buona comunicazione.
I fattori che influenzano le scelte, apparentemente libere, dei cittadini sono tanti.
Pensiamo al ruolo delle reti associative, per esempio nel mondo del volontariato o del folklore. Lì si annidano grumi di consenso che le fazioni più robuste e i capibastone locali hanno imparato a gestire in modo molto efficiente.
Pensiamo al peso che ha ancora oggi, nonostante tutto, la chiesa.
Non c’è bisogno di scomodare il caso eclatante del referendum abrogativo della Legge 40 sulla fecondazione assistita (2005). Quello fu un evento particolare in cui la chiesa, anche in Sardegna, uscì allo scoperto, prendendosene i rischi.
Di solito, tuttavia, la sua azione è più discreta. Ma, per semplificare, possiamo dire che almeno dalla conclusione del periodo rivoluzionario sardo (primo Ottocento) la chiesa nell’isola ha assunto e mantenuto nel tempo un ruolo di guardiano dello status quo.
Con le debite eccezioni e momenti di maggiore o minore capacità d’intervento, ma in maniera costante.
Facciamoci delle domande sull’assenza della chiesa sarda da tutte le questioni strategiche e fondamentali che ci affliggono: le risposte saranno dirimenti.
Naturalmente, la chiesa ha avuto il suo momento di gloria soprattutto nel secondo dopoguerra, con il dominio politico della DC.
Ma ancora oggi può decretare il successo o l’insuccesso di una carriera politica o di una campagna elettorale. Anche indirettamente, tramite l’associazionismo, la cooperazione e il sindacalismo ad essa collegati.
Come si vede, interferire con tutte queste forze, da tempo collaudate e consolidate, non è affatto facile.
Diciamo che, prima di tutto, bisogna essere coscienti della loro esistenza e del loro peso.
Perciò questa cosa va ribadita: non sogniamoci che la competizione elettorale, in Sardegna, sia davvero alla pari, democratica e libera. Non lo è.
C’è poi un altro aspetto che le forze dominanti conoscono e praticano perfettamente.
Al dunque, quando ci si deve presentare agli elettori, conta essere in forma e con la squadra migliore possibile, non se sei più o meno bravo, più o meno coerente, più o meno integro eticamente.
Molte volte le forze politiche e sociali che aspirano all’autodeterminazione democratica si sono perse dietro a distinguo, nominalismi, contrapposizioni settarie, personalismi.
È un male inevitabile di movimenti giovani e non strutturati né abituati a ruoli istituzionali (o, più banalmente, al potere).
Ma basta guardare ai partiti dominanti per capire come funziona.
La dialettica e persino il conflitto acceso sono elementi più o meno fisiologici della politica quotidiana e delle fasi di preparazione e posizionamento prima delle campagne elettorali.
Quando si entra nel gioco elettorale, però, il fronte si ricompatta, i dissidi vengono messi in freezer, le ostilità tralasciate.
C’è un istinto di sopravvivenza e anche una sorta di spirito di corpo (votato al male) che spinge a ricomporsi, specie davanti alla minaccia di una forza esterna reputata pericolosa.
Il ricompattamento può avvenire anche tra due parti nominalmente avverse, ma accomunate dall’interesse a non mutare lo status quo, condizione in cui esse possono spartirsi tutto ciò che c’è da spartire.
Per esempio tra i cosiddetti centrodestra e centrosinistra (due etichette di comodo prive di qualsiasi significato politico reale).
Ovviamente, poi anche lì si sviluppano tattiche e operazioni secondarie, in cui ogni fazione prova a ritagliarsi spazio e potere, anche ai danni dei propri alleati.
Sono operazioni sottili e studiate a puntino, facili da attuare quando puoi disporre di pacchetti di voti sicuri.
Questo genere di giochi è molto agevolato dal cosiddetto “voto disgiunto”, permesso nella normativa elettorale regionale sarda.
Così – e chi ha fatto lo scrutatore lo sa – non è raro imbattersi in pacchetti di voti dati alla lista di riferimento, ma con un voto compatto su un candidato presidente di una parte avversa.
Sono tutte manovre la cui sommatoria alla fine tende ad accontentare tutti i pesci grossi della politica sarda.
In questo meccanismo, così perverso e difficile da dominare, alla fine gli schieramenti alternativi possono ragionevolmente aspirare giusto a ritagliarsi un risultato non marginale e ad aprire uno spazio politico inedito, non egemonizzato dalle forze politiche conservatrici.
A ciò possono servire le elezioni regionali, in questa fase. Che, ribadisco, è una fase transitoria.
Certo, poi bisogna presidiare lo spazio conquistato, se possibile allargarlo e magari renderlo accogliente anche per altri.
Non è facile, perché dietro non ci sono interessi consolidati, grandi gruppi di potere o appoggi esterni.
E si tratta di un ambito politico fin troppo facile da debilitare. Basta anche solo inserirci degli infiltrati, condizionarne pochi esponenti, sabotarlo dall’interno e delegittimarlo dall’esterno.
E tuttavia questo spazio in Sardegna esiste da tempo e i risultati elettorali ne certificano la permanenza, al di là dei soggetti che lo animano di volta in volta. La certificano, ma non la creano né la garantiscono.
D’altra parte, se la battaglia elettorale va combattuta secondo le sue proprie regole, ciò non significa affatto che si debba cedere a qualsiasi compromesso per potervi partecipare con speranze di successo (almeno parziale).
Vincere conta relativamente, anzi a certe condizioni – come nella fase attuale – è addirittura meglio perdere. Fidatevi.
Ma perdere bene, appunto.
Il che può significare a volte anche solo ottenere una quantità cospicua di voti, da capitalizzare poi con l’attività politica post e infra elettorale (ossia quella vera), a prescindere dal numero di eletti (che possono non esserci affatto, a seconda della normativa vigente).
I segnali che presso il pur bistrattato e spesso ingannato elettorato sardo esista già una sacca consistente di voti liberi e disposti a credere a un progetto di radicale rottura democratica sono ormai stabili. Anzi, direi che sono sempre più forti.
Le elezioni, in questa fase storica, devono dunque essere un momento tattico dentro un processo politico molto più articolato, di cui non sono affatto la sintesi o l’apice.
Oggi come oggi uno schieramento democratico, di emancipazione sociale e di autodeterminazione collettiva non può sconfiggere elettoralmente, solo presentandosi, il fronte avverso.
E per “fronte avverso” intendo i partiti italiani, tutti, compresi i loro reggicoda locali, nonché un eventuale fronte pseudo o para-indipendentista o sovranista reazionario, votato a una rivoluzione passiva.
Si tratta, in definitiva, di un ampio e composito fronte della conservazione, animato da diverse destre politiche: la destra implicita del centrosinistra italiano; la destra esplicita del centrodestra italiano; la destra populista e pasticciona dei 5 stelle; un’eventuale destra nazionalista o para-nazionalista sarda.
Questi schieramenti, solo nominalmente alternativi tra loro, hanno tutti scopi, referenti sociali e metodi simili. Il loro obiettivo è perpetuare se stesse dentro lo status quo.
In ogni caso non hanno alcun interesse a modificare in termini strutturali e strategici i rapporti di forza con lo stato italiano e con i gruppi di interessi consolidati che oggi spadroneggiano nell’isola, compresi gli assetti geopolitici e affaristici che condizionano la questione dell’occupazione militare dell’isola.
Se conquistare una maggioranza, almeno in termini relativi, per una forza sarda alternativa e democratica oggi è impossibile, a prescindere dalle capacità soggettive di chi si cimenta, nondimeno assumerne i risultati elettorali come la cifra della sua reale rappresentanza o della sua reale consistenza è un grave abbaglio.
In ogni caso, per tale fronte politico, primo obiettivo strategico deve essere tenere aperto questo spazio politico-elettorale, conquistato negli anni, tenerlo al riparo da azioni di cooptazione e/o di inquinamento (compresa la retorica dell'”unità indipendentista”, feticcio ideologico palesemente conservatore), e renderlo “abitabile” a tutte le forze sociali e culturali che ne condividano obiettivi e valori.
In Sardegna, purtroppo, non esiste l’abitudine alla democrazia. Non esiste in termini di voto – e spero che quanto detto fin qui chiarisca il perché – ma non esiste nemmeno come abitudine a rapporti politici e a un confronto sociale compiutamente liberi, consapevoli e aperti.
È sempre esistito, anche in epoca repubblicana e autonomistica, persino tra le forze che si presentavano come emancipative, qualche elemento di forte condizionamento esterno e una radicale e profonda incomprensione storica e politica.
Oggi che tante certezze sono venute meno e che i rapporti di forza si presentano in termini brutalmente neo-colonialisti, senza nemmeno più il rivestimento ideologico del secondo dopoguerra, vanno fatti i conti con questa incapacità di esercitare e di vivere pienamente la democrazia.
Eppure è lì che bisogna puntare. Ma non semplicemente presentandosi ogni cinque anni alle elezioni regionali, confidando di essere abbastanza bravi e intelligenti e onesti e puri per conquistare il consenso maggioritario.
Il generale fraintendimento circa il senso che hanno oggi le elezioni per la Regione per le forze emancipative sarde ha impedito fin qui di farne un momento di consolidamento politico, al di là del risultato elettorale.
Per lo più non siamo nemmeno riusciti a riconoscere i successi quando si sono verificati.
Chi oggi fa politica attiva fuori dai facili posizionamenti negli schieramenti dominanti è una compagnia poco numerosa di volenterosi che però rappresenta un ambito politico molto più ampio di quanto si veda.
Qualcuno, in tale ambito, pensa che si debba ragionare negli stessi termini e seguire le stesse regole pragmatiche dei partiti dominanti. È un altro errore grave.
L’ossessione entrista (bisogna riuscire “a entrare”) è un boomerang esplosivo.
La rottura politica deve esserci e deve esserci in termini profondi, nei metodi, nelle scelte, nella capacità di rappresentare forze e interessi sociali esistenti.
E questo lavoro va fatto fuori dalla campagna elettorale. L’opposizione, anche dura, puntuale e diffusa, va fatta prima di tutto *fuori* dal Palazzo.
In campagna elettorale, se si partecipa, si partecipa coscienti di cosa significhi e di come funziona, di quale sia la posta in gioco e di cosa si può o non si può ottenere.
E, se non si partecipa direttamente, si offre sostegno alla proposta in campo che presidia lo spazio politico-elettorale a cui fa riferimento il processo di emancipazione sociale e di autodeterminazione collettiva in corso.
Non c’è molto altro da fare o da dire.
Spiazzare le forze conservatrici, essere più furbi, più abili, meno ingenui e al contempo preservare il patrimonio ideale, di passione civile e di speranza che è stato accumulato in questi anni è un impegno a cui non ci si può sottrarre, al di là delle predilezioni soggettive e dalle velleità di differenziazione settaria.
Ed è un compito che – ribadisco – bisogna imparare a condividere con tutti coloro che ancora non hanno fatto una scelta di campo, ma condividono i medesimi valori di fondo e un orizzonte democratico analogo.
Lo dico senza alcuna pretesa di avere la ragione in tasca, ma come auspicio di un salto di qualità nel dibattito e della prassi che devono animare il processo di liberazione democratica a cui abbiamo diritto.
Al di là delle contingenze elettorali.