Quel che è stato fatto, quel che resta da fare: inettitudine e interessi opachi nella gestione sarda dell’emergenza covid-19

fonte: IlSole24ore, 3/5/2020

Ieri sera è stata finalmente emessa l’ennesima ordinanza del presidente della giunta regionale Solinas a proposito della fantomatica Fase 2.

Non c’è traccia di un’elaborazione in proprio e di una prospettiva che si discostino dalla piatta esecuzione, in termini persino più prudenti, delle disposizioni governative centrali.

Se si spoglia tutta l’azione della giunta regionale dalla retorica e dalle incrostazioni propagandistiche, rimane la cruda verità di una colpevole inerzia politica ormai conclamata.

Cosa voglio dire? Voglio dire che non ci sono più possibili scusanti per la scadente e per certi versi drammatica gestione (o mancata gestione) di questa emergenza da parte della classe politica sarda.

La situazione in Sardegna è per alcuni aspetti molto positiva, per altri estremamente opaca. I dati disponibili possiedono una dose di attendibilità piuttosto bassa, data l’esiguità dei tamponi effettuati nell’isola. E tuttavia i risultati che emergono dai tamponi fatti sono in qualche modo confortanti.

Anche i dati dei ricoveri nelle terapie intensive sono abbastanza rassicuranti. Inutile nasconderci che un’espansione di tipo “lombardo” dell’epidemia metterebbe le strutture sanitarie sarde in gravi difficoltà. Tanto più in quanto non è stato fatto NULLA per predisporre una risposta adeguata tanto al picco del contagio quanto alla gestione della “convivenza” col virus.

Ecco, restiamo un attimo su questo aspetto. Benché non vi siano ancora certezze consolidate sul virus, sul contagio, sul decorso della malattia e sulle terapie, a distanza di qualche mese qualcosa si può cominciare a dire.

Ossia, gli esperti e soprattutto chi con la covid-19 ha avuto a che fare sul campo possono cominciare a tirare qualche conclusione un po’ meno aleatoria.

In generale dobbiamo entrare nell’ottica che il virus non sparirà magicamente di punto in bianco, ma dovremo conviverci, per un periodo la cui durata non è prevedibile.

A parte le questioni più strettamente cliniche e terapeutiche, sembra ormai consolidata la necessità di rispondere al contagio con poche ma ben organizzate mosse.

Intanto i tamponi. Se ne parla da tempo, ma di fatto, in Sardegna, non si è fatto niente per dotarsi dei materiali e degli strumenti necessari ad una applicazione a tappeto dei tamponi. Procedura che invece è necessaria per circoscrivere le aree di contagio e per affrontarlo con decisione nelle sue prime fasi.

Questa è una delle più sicure e solide raccomandazioni: riconoscere il contagio alle primissime avvisaglie e isolarlo tempestivamente, facendo tamponi a tutti coloro che siano entrati a contatto con gli infetti, sintomi o non sintomi.

Naturalmente, condizione preliminare di qualsiasi efficacia negli interventi di risposta al contagio è che tutto il personale coinvolto – dunque non solo i medici e i paramedici – sia dotato di dispositivi di protezione adeguati. Anche qui si tratta di procurarseli in quantità sufficiente e in tempi rapidi. È stato fatto? Non sembrerebbe.

Altre condizioni da rispettare sono la predisposizione di corridoi sanitari ben studiati, nonché la realizzazione di strutture di ricovero e di cura ad hoc, destinate ai casi più gravi di covid-19, con conseguente liberazione degli ospedali da questo pericoloso fardello.

Inoltre bisognerebbe disporre di procedure e protocolli chiari per tutto il personale coinvolto, anche qui non solo medico e para-medico.

Non sono illazioni o opinioni estemporanee, ribadisco, ma linee guida basilari che emergono dalle conclusioni degli esperti e dall’esperienza sul campo.

Quanto ne stanno tenendo conto, in Regione, per pianificare la Fase 2 (e la 3, ecc.)? Purtroppo, temo che sia una domanda retorica.

Non mi sembra di aver letto alcun serio impegno sulla necessaria riorganizzazione dei servizi sanitari sul territorio sardo. Una marcia indietro indispensabile rispetto all’andazzo dominante almeno nelle ultime tre legislature regionali (quindi indifferente rispetto alle pretese distanze politiche tra centrodestra e centrosinistra).

Potenziare la medicina di base, ossia la risposta di prossimità alle esigenze delle comunità. Riaprire i presidi sanitari locali smantellati. Chiudere i rubinetti dei finanziamenti alla sanità privata. Assumere stabilmente nuovi medici e infermieri professionali, fuori dalle logiche clientelari e spartitorie consuete.

Dato che la sanità in Sardegna è di pertinenza esclusiva della Regione, si tratta di rivedere le voci di spesa – sempre ingente – in termini diversi. Non escludo nemmeno che, a fare le cose per bene, ne venga fuori pure qualche risparmio.

Ma le lacune e le carenze della politica sarda non si fermano a questo ambito.

Se ampliamo lo sguardo all’ambito socio-economico, la valutazione sull’operato della giunta Solinas non può che peggiorare.

Lascerei stare, in questo frangente, le critiche alla conduzione della crisi da parte del governo Conte. Anche quelle non strumentali e ben argomentate, che per fortuna non mancano, a dispetto della cappa di disinformacjia stesa dagli organi di informazione mainstream. Ciò che colpisce di più, guardando la cosa dalla Sardegna, sono l’inerzia e la subalternità della risposta politica sarda.

Pensiamo, per fare un raffronto, alla prepotenza e all’arroganza con cui la politica lombarda ha preteso – e ottenuto – che l’intera gestione della crisi dipendesse dalle esigenze del padronato padano. La metà delle attività economiche lombarde non ha MAI chiuso e da domani saranno di nuovo tutte aperte e operative, specie le fabbriche e i cantieri. Questo, nell’area dello stato italiano con la situazione sanitaria di gran lunga più drammatica.

Il confronto con la realtà economica sarda è mortificante.

Di fatto, la Sardegna, in una condizione molto più favorevole della Lombardia e del Piemonte (ma anche dell’Emilia-Romagna e dello stesso Veneto) e potenzialmente ancora migliore (data la possibilità di organizzare per tempo la risposta alla fase di “convivenza” col virus) si ritrova priva di risorse, senza un piano, con l’economia, già debole, ancora bloccata sine die e nessuna voce in capitolo in alcuna sede istituzionale.

Se la situazione ci sembra oltremodo drammatica ora, temo che saremo smentiti dagli sviluppi ancora più devastanti di là da venire, se non si procede a un immediato cambio di rotta.

Un cambio di rotta che deve essere attuato su diversi piani. Sia sul piano dell’emergenza, sia su quello dell’uscita dall’emergenza stessa, sia su quello ulteriore di un mutamento strategico dei paradigmi generali.

Deve attuarlo la politica sarda. Non possiamo davvero illuderci che basti andare a rimorchio delle scelte tattiche e strategiche dei referenti politici di turno (leggi padroni oltremarini), o del governo centrale, per uscire dalla crisi in condizioni quanto meno accettabili.

Qual è la visione della giunta Solinas? Davvero l’urgenza principale era consentire le messe (senza consultare nemmeno le gerarchie ecclesiastiche, che infatti hanno immediatamente preso le distanze) e cercare di addossare un po’ di responsabilità ai sindaci? Non c’era null’altro da fare, magari organizzando per tempo le condizioni di sicurezza minime e indispensabili?

E l’opposizione in consiglio regionale non ha nulla da dire o da proporre?

Certo, è comprensibile che nel centrosinistra si guardino bene dall’assumere pericolose prese di posizione, sia per non inimicarsi i propri referenti politici (leggi anche qui padroni oltremarini), sia per non doversi rimangiare le proprie stesse scelte (l’operazione Mater Olbia, l’alleanza strategica – e coloniale – col Qatar, la gestione clientelare e privatistica della sanità pubblica non sono opera esclusiva della giunta Solinas). Ma naturalmente anche in quel campo vige la “ragion coloniale” e l’opportunismo da podatari (o aspiranti tali).

Così, nell’isola, ci accingiamo a rassegnarci a una prolungata chiusura della maggior parte delle attività economiche, a una proroga dei vincoli alle libertà costituzionali e all’esercizio di diritti di base dei (sub)cittadini, mentre riprendono alla chetichella le esercitazioni militari, prosegue indefessa l’attività delle industrie parassitarie e inquinanti e la grande distribuzione e i giganti dell’e-commerce lucrano imperterriti sulle vite e sui bisogni delle nostre comunità.

In attesa dell’arrivo di un’ondata di speculazione ad ampio spettro e su vasta scala che tenterà di accaparrarsi le ultime spoglie del cadavere, approfittando dello sfinimento generalizzato, oltre che della debolezza della politica locale.

Per di più, non dimentichiamolo, in un quadro di controllo poliziesco e militare non nuovo, in Sardegna, ma le cui connotazioni autoritarie e anti-democratiche avranno una ulteriore legittimazione e una inevitabile recrudescenza.

Se avessimo avuto una politica sarda all’altezza, non subalterna, non cialtrona, non selezionata sulla base dell’incapacità e dell’opportunismo egoistico più meschino, oggi potremmo guardare all’emergenza in corso come a una situazione sì grave e meritevole di misure eccezionali, ma gestibile.

Potremmo fare tesoro della nostra peculiare demografia, delle nostre caratteristiche geografiche, della nostra rete di solidarietà spontanea, della dimensione ridotta delle nostre comunità, di un’economia informale basata sullo scambio ancora forte e diffusa.

Potremmo riprendere le attività culturali, almeno all’aperto, date le condizioni climatiche favorevoli. Potremmo far rivivere il commercio di prossimità e i mercati rionali; potremmo rivitalizzare il terziario, almeno quello più avanzato e a maggior valore aggiunto; potremmo addirittura riprogrammare una stagione turistica che per forza di cose dovrà fare a meno di gran parte della sua clientela forestiera.

Per non parlare degli interventi possibili e necessari in ambito scolastico.

E prima di tutto, potremmo predisporre misure di sostegno economico immediato, diretto e indiretto, alle categorie più colpite e più bisognose, senza ricatti, senza arbitrarie selezioni in base alla fedeltà a questo o a quel padrone di pacchetti di voti.

Se non si fa, non è perché non si possa fare. La Sardegna come magica terra del “non si può” è un’invenzione ideologica potente, ancora egemone, ma del tutto fittizia. Mettiamocelo in testa.

Non si fa perché non conviene a nessuno, tra coloro che traggono vantaggio dalla condizione deficitaria e dipendente dell’isola, così come tra coloro che sono messi lì per perpetuarla.

Il feticcio dello scontro istituzionale viene sventolato dalla nostra classe politica podataria solo quando si tratta di proteggere e assecondare gli appetiti o gli interessi di questo o quel gruppo di pressione, di questa o quella oligarchia padronale, sarda o non sarda. Se si tratta di difendere e attuare un minimo di autonomia reale, rivolta a interessi e bisogni generali e alla salvaguardia della democrazia, magicamente tutto il coraggio dei nostri sedicenti rappresentanti svanisce e si traduce in pavida acquiescenza, camuffata da “correttezza istituzionale”.

Non aspettiamo di essere usciti dall’emergenza per conquistare una consapevolezza sulle dinamiche in corso, sulla radice dei problemi e sulla possibile risposta democratica ed emancipativa alla crisi. Non è detto che ne usciremo tanto presto, né che ne usciremo vivi.

È indispensabile rifletterci ora e trovare le contromisure collettive in tempi ragionevolmente rapidi, senza aspettare che dal Palazzo arrivino soluzioni che il Palazzo non ha interesse, capacità, volontà di cercare.

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