La Sardegna è un’isola grande, a dispetto dell’autopercezione di molti sardi. È una delle 50 isole più grandi del mondo, la seconda (di poco) del Mediterraneo.
Il milione e 600mila abitanti (nominali) che vi risiedono sono distribuiti in modo tutt’altro che omogeneo. La maggior parte dei comuni dell’isola ha meno di 5mila abitanti. I centri abitati sono circondati e separati da ampi spazi poco antropizzati. Nel complesso la densità di popolazione è una delle più basse d’Europa.
Già questo dovrebbe indurre una riflessione appropriata sulla pertinenza col caso sardo delle misure restrittive varate dal governo italiano per arginare il contagio.
Certo, anche in Sardegna c’è differenza tra chi vive in un’area metropolitana e chi vive in un piccolo paese, sia come stile di vita, sia come spazi a disposizione, e dunque anche come possibilità/probabilità di contagio.
Ma in generale quella sarda è una situazione peculiare, con caratteristiche proprie e necessità altrettanto peculiari da soddisfare.
Applicare pedissequamente in Sardegna misure pensate per le aree urbanizzate, infrastrutturate e densamente antropizzate dell’Italia non ha molto senso.
È stata fatta questa considerazione, a livello di politica sarda? Non risulta. L’impressione è che non sia stata fatta *nessuna* considerazione seria, né siano state disposte misure adeguate e tempestive in nessun ambito.
La risposta sarda all’emergenza COVID-19 è stata tardiva, debole, subalterna, retorica, pasticciata e fondamentalmente orientata a garantire vantaggi contingenti alla compagine che oggi domina la scena. La quale sta goffamente provando a darsi se non altro un po’ di spazio di manovra e qualche potere straordinario, che tuttavia non oso nemmeno immaginare come saranno usati.
La Sardegna poteva essere un’area virus-free, se si fosse riusciti a contenere il contagio ai pochissimi casi riscontrati inizialmente.
Se non si fosse consentito l’arrivo incontrollato di “migranti dell’epidemia” e se il personale ospedaliero fosse stato fornito dei dispositivi necessari (i famosi DPI), oggi probabilmente avremmo eretto già un primo, solido argine alla diffusione del virus nell’isola.
Ma non è andata così. Su tutto ciò la riflessione va fatta senza sconti e andrà sviluppata ancora, anche quando l’allarme sarà scemato.
L’inadeguatezza della politica istituzionale sarda mostra tutta la sua consistenza ed è tanto più inopportuna in queste circostanze eccezionali, ma non dovrebbe essere una novità sorprendente.
Scelte strategiche sbagliate, a volte palesemente stupide, hanno caratterizzato il governo dell’isola nell’ultimo quarto di secolo. In generale questo è il quadro, al di là delle poche e circoscritte eccezioni (salverei giusto alcune cose del primo biennio della giunta Soru).
La falsa rappresentazione di un preteso conflitto tra forze contrapposte (centrodestra vs. centrosinistra), ricalcata mimeticamente sullo scenario italiano ed egemonica fino a ieri, oggi perde efficacia, di fronte a dati di realtà drammaticamente evidenti.
Il tentativo di riprendere il controllo da parte della mediocre giunta Solinas suona come un tentativo autoritario ma non autorevole di riverniciare una facciata non solo scrostata, ma in fase di crollo.
Le opposizioni per altro non sono pervenute. Il silenzio inerte aleggia tra le forze politiche che nelle campagne elettorali trascorse amavano presentarsi come gli unici presidi di democrazia (“voto utile”, “battere le destre”, “onestà”). Salvo sostenere operazioni di potere politicamente reazionarie, passivamente coloniali e non meno sconclusionate e clientelari delle altre, come la giunta Pigliaru; o, nel caso dei 5 stelle, dimostrare di non sapere nemmeno dove si poggiano i piedi.
Oggi non hanno nulla da dire, non hanno nulla da proporre. Non possono nemmeno rivendicare successi pregressi a cui richiamarsi come a un termine di paragone virtuoso. O ci dimentichiamo del colpo esiziale dato proprio alla sanità pubblica sarda dalla “riforma” Pigliaru-Paci-Arru?
I tagli al personale e ai presidi locali; il favore smaccato per la sanità privata; gli sprechi conclamati, tra forniture ospedaliere e farmaceutiche fuori controllo e assunzioni clientelari; la sciagurata operazione “Qatar fundation-Mater Olbia”: sono tutte magagne la cui responsabilità non è certo addossabile solo all’ultima incarnazione sardista-leghista dell’apparato di dominio podatario.
E oggi ci presentano il conto.
La devastazione della sanità pubblica, per giunta, è andata di pari passo con la militarizzazione, concreta e simbolica, dell’isola, come lucidamente sottolineato da Andria Pili sul manifestosardo.
Tutte le partite strategiche in Sardegna, da sempre ma in particolare negli ultimi venticinque anni, sono state giocate in termini subalterni, dentro le cornici egemoniche del neoliberismo e la sua retorica del TINA di thatcheriana memoria (There Is No Alternative, non ci sono alternative), per di più declinate in termini coloniali.
Non poteva andare diversamente per questa emergenza, a cui nessuno nell’isola era preparato meno della nostra classe politica.
Che ora dovrà gestire non solo l’emergenza sanitaria in quanto tale, ma anche le sue conseguenze materiali (economiche, sociali, demografiche).
È palese che non ne sia in grado. Bisognerà mettere in campo sia una forte mobilitazione dal basso, sia una adeguata risposta politica democratica.
La posta in gioco non è solo la necessità di avere una classe politica meno impresentabile in queste circostanze particolari, ma più in generale di dare una svolta a una condizione storica che sta rapidamente declinando verso il disastro epocale.
Come già scritto, l’epidemia è solo una cartina di tornasole e una rappresentazione didascalica di un problema in realtà profondo e strutturale.
La crisi sarda si inserisce nella più ampia crisi planetaria. Una crisi non certo causata dal SARS-CoV-2. Da mesi si preconizzava una possibile, imminente recessione globale. Oggi ne leggiamo gli annunci, nelle cose e nelle dichiarazioni pubbliche.
Una recessione che l’epidemia quasi riesce a mascherare e camuffare, più che enfatizzare.
Certo, nel breve termine l’impatto economico delle misure di contenimento del contagio sembra quello più evidente. Ma in realtà non è detto che nel medio/lungo termine l’epidemia darebbe necessariamente un esito devastante.
Nella storia, le grandi epidemie sono state di solito momenti di crisi creatrice, valvole di sfogo di sistemi economici e sociali in declino, circostanze drammatiche da cui poi emergevano processi di progresso e di miglioramento delle condizioni di vita di tutti.
È una mera constatazione, sia chiaro, non una cinica aspettativa.
Il problema è che la nostra specie è giunta a una situazione di crisi sistemica per ragioni più profonde di una nuova forma di influenza particolarmente virulenta e anche oltre le “naturali” crisi del ciclo capitalista.
Anche su questo andranno fatte riflessioni approfondite. Anzi, è giusto che si facciano già oggi.
Chi pretende che, data la condizione emergenziale, venga spento lo spirito critico e si rinunci a capire, a condividere analisi, dubbi, prospettive di cambiamento, pretende una adesione passiva e rinunciataria a una deriva molto pericolosa, e già in corso.
La natura autoritaria delle misure intraprese dal governo italiano, la loro ratio centrata sul controllo, la repressione, il disinnesco di ogni possibile opposizione, la retorica nazionalista e militaresca, sono tutti segnali politici da soppesare come tali, fuori dalla cappa ansiogena generata dall’emergenza.
La palese inadeguatezza di alcuni stati, considerati il faro della politica mondiale liberista e “democratica”, come il Regno Unito e gli USA, dovrebbero richiamarci a uno sforzo di riflessione più ampio.
I feticci ideologici con cui si è imposta la prevalenza dell’interesse dei ricchi su tutto il resto, la logica dell’individualismo competitivo su quella della collaborazione solidale, la rapacità privata come unico criterio economico si dimostrano per quello che sono.
I beni materiali e immateriali indisponibili, la salute, la salvaguardia dell’ecosistema e della biosfera, la conoscenza, i bisogni fondamentali non possono essere gestiti e soddisfatti in base alle normative ideologiche del capitalismo.
In generale, dovremmo aver capito che nessuna dogmatica farà mai funzionare meglio le cose per il numero maggiore possibile di esseri umani. Tanto meno una dogmatica fondata sull’egoismo più ottuso, sul nazionalismo reazionario, sulla tecnocrazia autoritaria.
Alla luce di queste considerazioni generali, è evidente come le risposte dei governi, e di quello italiano in primis, siano tutt’altro che irreprensibili. Alcune forse risulteranno più efficaci.
Quelle della politica sarda sono penosamente ridicole.
Dentro la crisi globale, la nostra condizione coloniale e subalterna è un’aggravante estremamente minacciosa.
Dovremmo approfittare, in Sardegna, della dura lezione che ci sta impartendo l’epidemia per ridiscutere radicalmente la percezione di noi stessi come collettività storica, i fondamenti della politica sarda contemporanea, i termini della nostra partecipazione all’economia internazionale.
Né gli stati-nazione in mano a élite sempre più deboli e inadeguate, né la tecnocrazia europea, che domina la costruzione burocratica e di classe dell’UE, né la logica della competizione tra popoli e tra culture possono offrire ricette virtuose per il presente e per il futuro.
Le élite globali e le loro articolazioni locali, come in ogni momento storico di crisi sistemica, tendono a preservare se stesse, anche a dispetto di qualsiasi altro bene o fattore e persino in modo controproducente.
È un effetto della nostra innata stupidità, una facoltà che ci ha favorito evolutivamente, ma che a certe condizioni mostra i suoi limiti.
Dovrebbe essere ovvio che serve pressoché il contrario di quello che si è fatto fin’ora.
Collaborazione internazionale, scambio e confronto delle conoscenze, solidarietà tra popoli e territori, privilegio dei beni comuni e del vantaggio diffuso sull’interesse individuale, produzione energetica a basso impatto e sua democratizzazione, abbandono del modello consumista, decisioni politiche basate sul principio confederale e su quello di sussidiarietà.
Sono tutti elementi di riflessione teorica e pragmatica sul tappeto da anni, ma che nel presente frangente assumono un’evidenza molto più concreta.
Nella situazione sarda questi ragionamenti devono diventare non solo fucina di contenuti intellettuali diffusi e condivisi, con cui alimentare il dibattito pubblico, ma anche fondamenti propositivi di indole pragmatica.
Dobbiamo imparare dalla crisi e dobbiamo forse imparare ad imparare, prima di tutto.
Non che abbiamo chissà quanto tempo, ma se non altro, se è vero il detto che “s’apretu ponet su betzu a cùrrere”, chissà che l’urgenza non sia uno stimolo sufficiente a farci fare il salto di qualità collettivo che stiamo aspettando e auspicando da anni.
Ma le stesse peculiarità si trovano in altre aree rurali della Penisola e Sicilia. Dire una simile castroneria è atto fazioso. Sopratutto in virtù del fatto che le tempistiche di applicazione erano limitate
È un tipo di commento che non dovrei lasciar passare.
Ma comunque…
Scrivere “le “altre aree rurali della penisola” sottintende che la Sardegna sia un’area rurale della penisola. Il che palesemente non è. Prima pecca.
Il termine “castroneria”, al singolare, riferito a non si sa bene cosa dentro un articolo lungo e piuttosto denso, sa molto di tentativo di buttarla in casino, tanto per. Seconda pecca.
Le peculiarità di aree rurali italiane e siciliane non sono prese in considerazione (parlo della Sardegna), ma – supponendo che da qualche parte, cercando bene (penso alla Lucania, per dire) esistano caratteristiche demografiche, antropologiche e orografiche simili a quelle sarde – niente impedisce di estendere il ragionamento anche ad esse. Terza pecca.
La faziosità è una categoria che non riesco ad applicare a nulla, in questo discorso. Forse hai scelto male il termine. Quarta pecca.
Le tempistiche di applicazione poi rilevano poco o nulla. Quinta pecca.
Cinque magagne in due righe.
Come obiezioni, oltre che mal formulate, mi sembrano anche piuttosto deboli.
Riprova, argomentando meglio, e vediamo se ne viene fuori uno scambio costruttivo.