La destra che avanza, i nuovi fascismi e la radicalizzazione della lotta di classe

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I fatti raccontati dalla cronaca politica sembrano emergere da cause e fenomeni estemporanei, ma quasi mai è così. Sotto l’increspatura della superficie ci sono processi profondi di cui è necessario essere coscienti. Per lottare meglio.

La vittoria elettorale di Bolsonaro in Brasile non è un fulmine a ciel sereno e non rappresenta alcuna svolta nel corso di questa drammatica transizione storica.

Certo, il Brasile è un grande stato, ha più di 200 milioni di abitanti ed è uno dei paesi emergenti di questo inizio di millennio.

Ma dopo l’avanzata delle destre in Europa e la vittoria di Trump negli USA diciamo che i segnali di questo fenomeno storico c’erano già tutti.

Non si tratta affatto di una deriva populista nata dall’ignoranza degli elettori e dall’efficacia comunicativa dei leader di destra.

Così tendono a raccontarla i mass media principali e anche le forze politiche che hanno dominato la scena fin qui, ma è una rappresentazione di comodo.

Entrambi – mass media e forze politiche – non sono entità autonome, ma dispositivi che rappresentano interessi e motivazioni molto concreti.

Che hanno radici più distanti e profonde di una campagna elettorale.

La fine della minaccia sovietica (più putativa che reale) e la vittoria del mondo capitalista, colonialista e imperialista su tutte le possibili alternative (vittoria ottenuta quasi sempre con la violenza, la guerra, l’eliminazione fisica dei possibili competitori) ha condotto, oggi, alla situazione in cui siamo.

La scena è stata dominata, per trent’anni, da un’élite globale che è riuscita a dettare le regole (il cosiddetto neo-liberismo, con tutti i suoi corollari politici, sociali, bellici) e a mettere in tutti i posti chiave suoi mandatari o agenti.

Ciò è risultato tanto più efficace in quanto il mondo nel frattempo si è piegato all’illusione della “fine della storia” e si è accomodato su una deriva consumistica, ipocrita e perbenista, veicolata dalle maggiori agenzie di formazione del consenso e dalla stessa organizzazione istituzionale del sapere.

Ha prevalso la strampalata idea che i fatti umani non siano di per sé conflittuali e complessi, contraddittori e dinamici.

L’oligarchia dominante è riuscita a illudere un numero notevole di persone di un sacco di sciocchezze, spesso in contrasto tra loro, ma tutte funzionali all’ottundimento delle coscienze.

Un vero capolavoro ideologico, insomma, dove “ideologia” significa – col buon vecchio Marx – “falsa rappresentazione della realtà”.

Perciò, tutti a pensare che non esistano interessi o vantaggi collettivi, ma che conti solo l’individuo.

O che non esistano ricette e soluzioni complesse,  ma solo risposte decise o indecise alle varie situazioni.

O che il conflitto di classe sia magicamente scomparso e che le scelte politiche siano o giuste o sbagliate, in assoluto, non “di destra” o “di sinistra”.

O che la conoscenza e la cultura siano un peso inutile e che gli scienziati e gli intellettuali siano dei parassiti presuntuosi (salvo quelli organici ai grandi centri di interesse e di potere, naturalmente).

Ma di esempi potrebbero essercene altri.

Dopo i primi anni di spiazzamento e di impreparazione, persino internet è stato piegato alla normalizzazione delle masse.

C’è del metodo, in tutto ciò. Votato al male, ma c’è.

Le tecnocrazie, che hanno finito per impersonare il vero governo del mondo, per un pezzo non hanno avuto troppi problemi a gestire l’ordinaria amministrazione.

C’erano stati di tanto in tanto degli scricchiolii, è vero.

Alla fine dell’ultimo decennio del XX secolo sulla scena era comparso un protagonista di massa, transnazionale, plurale, dotato di strumentazione critica consistente e anche di capacità di mobilitazione.

Per giunta esterno alla sinistra tradizionale, ormai votata alle “terze vie” aperte da Clinton e Blair, sostanzialmente organiche al neo-liberismo e alla sua tecnocrazia globale.

Le mobilitazioni no global rappresentavano invece un fattore di rischio concreto per l’oligarchia mondiale.

I vari Social Forum, i libri come No Logo di Naomi Klein e gli studi di sociologi, storici, economisti, scienziati indipendenti dalla tecnocrazia e dal grande capitale stavano costruendo un paradigma ideologico forte e diffuso, estremamente minaccioso per il padronato globale.

Il problema era, allora come oggi, che la coscienza della finitezza delle risorse del pianeta e l’impossibilità di generare processi di eguaglianza e benessere diffusi senza intaccare i privilegi dei grandi ricchi stava diventando evidente.

I grandi ricchi e i loro esecutori materiali sanno perfettamente da almeno quarant’anni dove sta andando il mondo.

Avrebbero preferito tenerselo per sé ed agire del tutto indisturbati, chiaramente.

Per altro, la crisi finanziaria emersa con l’esplosione della bolla della new economy era un segnale da non sottovalutare.

Se la crisi si fosse ingrandita e diffusa? Non era da escludere un rivolgimento di massa, difficile da sedare, anche perché ormai globalizzato.

Le democrazie di stampo occidentale, benché indebolite, consentivano ancora una certa agibilità a forze alternative, anche radicali.

Era necessario indebolirle ulteriormente, svuotarle dall’interno, impedire che le forze sociali popolari e le pulsioni territoriali, critiche del modello padronale ed estrattivo dominante, si saldassero e condizionassero la politica degli stati.

Cosa sia successo nel 2001 lo sappiamo tutti. Il fatto più determinante, però, non è stato l’attacco dell’11 settembre agli USA.

Il fatto che ha chiarito a cosa stavamo andando incontro è stata l’organizzazione-trappola del G8 a Genova, nel luglio di quell’anno.

Certo, con l’11 settembre c’è stato un ulteriore passaggio nella direzione voluta (a prescindere dalle circostanze reali e dalle responsabilità dirette di quei fatti).

Repressione manu militari del dissenso e “guerra al terrorismo” sono due aspetti della stessa deriva.

Che ha contemplato anche: smantellamento delle conquiste sindacali, privatizzazione sistematica di servizi anche essenziali e di beni comuni, indebolimento dell’organizzazione pubblica del sapere a partire dalla scuola, neo-colonialismo, nuova corsa agli armamenti.

Un certo, relativo (e precario) avanzamento nel campo di alcuni diritti civili, avvenuto di recente, non ha affatto bilanciato l’arretramento nel campo dei diritti sociali né favorito una ridistribuzione della ricchezza.

Le classi medie, tuttavia, si sono fatte infinocchiare da queste labili e in fondo innocue aperture nell’ambito del costume e delle libertà individuali.

Aperture sacrosante, sia chiaro, ma usate per dividere il fronte democratico.

Molti attuali difensori dello status quo tecnocratico contro l’avanzata delle destre  appartengono alle classi medie istruite. Le stesse che hanno in odio i poveri, il popolo dei marginali e dei precari, le forme di lotta più radicale.

È stato un gioco da ragazzi, in questo modo, privare le masse popolari di rappresentanza e di punti di riferimento teorici.

Nel frattempo la minoranza più ricca del pianeta ha continuato ad arricchirsi, mentre le classi intermedie hanno perso progressivamente il loro peso economico e politico.

La grande crisi esplosa nel 2008 (episodio macroscopico della crisi sistemica iniziata negli anni Settanta precedenti) ha esacerbato tutte le energie distruttive della nostra specie problematica.

Anche in questo caso c’è stata una risposta di massa potenzialmente pericolosa (i vari movimenti Occupy Wall Street, Indignados, le “primavere arabe”, ecc.), ma è stata sedata abbastanza rapidamente e con pochissimi cedimenti. Anzi, con nessun cedimento, da parte dell’oligarchia.

La residuale pseudo-sinistra filo padronale ha perso la sua funzione, tuttavia.

La sua credibilità presso le masse è ormai calata sotto il livello di guardia. In molti casi è scomparsa del tutto. Tranne dove sta ripescando forza e radicalità (come negli USA con Sanders e in parte nel Regno Unito con Corbyn).

La stagione del recupero di sovranità popolare e il processo di emancipazione sociale avviati in Sud America negli ultimi vent’anni hanno perso smalto e stanno uscendo a loro volta sconfitti.

Il capitalismo come modo di produzione egemone resta saldo al suo posto e protetto da dispositivi ideologici e politici sempre robusti.

Anche perché le classi dominanti non di stretta osservanza occidentale (in Cina e in Russia su tutti, ma anche nel mondo arabo) non hanno alcuna intenzione di metterlo in discussione.

E tuttavia questo successo a tutto campo non ha fatto sparire il disagio sociale, l’impoverimento materiale e immateriale delle popolazioni, i problemi ambientali.

L’obiettivo delle classi dominanti non è però risolvere questi problemi epocali, bensì preservare se stesse.

Illudersi che esse non ricorrano anche ai più estremi rimedi per riuscirci sarebbe davvero stupido.

L’esasperazione delle masse va dunque controllata e tutt’al più incanalata.

Oltre alla disarticolazione sociale e all’indebolimento delle condizioni di vita materiale, sono stati necessari ulteriori strumenti.

Il ricorso a narrazioni menzognere e manipolatorie; l’utilizzo massiccio dello stimolo della paura e della rabbia; l’elargizione di spiegazioni semplici e immediate: tutti espedienti che solleticano l’amigdala del cittadino-spettatore senza chiedergli sforzi di comprensione.

Questi mezzi hanno ottenuto un prevedibile successo.

Per questo è abbastanza ridicolo meravigliarsi oggi dell’avanzata delle destre.

È un fenomeno che ha una precisa radice materiale e ideologica.

Ma non è affatto un fenomeno contingente, né è un fenomeno addebitabile alle sue cause più dirette e mediaticamente più esposte.

Attribuire la responsabilità di questa deriva politica ai suoi protagonisti (da Le Pen a Salvini, da Orban a Trump, da May a Duterte o, adesso, a Bolsonaro) e a una loro presunta qualità politica specifica, ovvero spiegarne i successi con l’ignoranza del popolo (che dunque bisognerebbe privare del diritto di voto) è, se va bene, una auto-giustificazione ingenua (e pericolosa), ma spesso è solo un espediente di comodo.

Ma contro questa deriva c’è poco da opporre, in questa fase. Per lo più si contrappongono i nostalgici appelli ai principi della democrazia liberale e la rassegnazione più passiva, a volte venata di opportunismo.

Entrambe queste pulsioni, derivanti dallo stolido istinto di sopravvivenza della nostra specie, spingono anche una fetta non marginale dell’intellighenzia un tempo di sinistra (soprattutto quella di osservanza stalinista, o comunque di tendenze dogmatiche) a guardare con favore i populismi e i sovranismi attuali .

Eppure avremmo bisogno di nuove riflessioni, di un nuovo approccio teorico, di un nuovo e radicale coraggio civile e politico. Anche ripescando e attualizzando temi e cornici concettuali del passato.

La lotta di classe non è mai finita, semplicemente per ora l’abbiamo persa.

E purtroppo, ora come ora, non abbiamo strumenti idonei a combatterla con speranze di successo.

Non abbiamo una prospettiva politica a breve ma nemmeno a medio termine, se non l’affidamento a quelle stesse tecnocrazie che ci hanno già bellamente abbandonato.

Non abbiamo organizzazioni adatte alla bisogna né sedi di confronto e di pianificazione politica adeguate.

La dialettica egemone, oggi, è tra le tecnocrazie padronali e i nuovi signori dell'”internazionale nera”, la destra rampante e in ascesa.

Quelle stesse destre che sorgono e prosperano nel deserto valoriale e ideale in cui sono state abbandonate le masse, tradite appunto dalla classe intellettuale e dalle sinistre.

Il confronto sul campo dunque è tra due destre, non così nemiche e opposte come sembra (e come esse stesse raccontano, in modo interessato).

È un gioco delle parti, in cui a vincere saranno comunque i detentori della ricchezza e delle informazioni, ossia una ristretta oligarchia.

I famosi “mercati”, che dettano legge sulla vita di tutti noi, non hanno mai reagito negativamente ad alcuna delle vittorie della destra. Non sta succedendo nemmeno oggi, in relazione alle elezioni brasiliane. Chiediamoci il perché.

Il disegno politico in corso è abbastanza esplicito. Proseguire la lotta di classe fino alle sue estreme conseguenze, a costo di sacrificare una parte consistente dell’umanità (del resto, il pianeta è sovrappopolato) e lo stesso ecosistema planetario.

È un obiettivo a medio termine per la realizzazione del quale saranno usati tutti i mezzi necessari.

Se ci illudiamo che la semplice ordinaria amministrazione basterà ad evitare i disastri peggiori, siamo già un bel pezzo dentro ai guai.

Non sarà il gioco di ruolo della democrazia rappresentativa a toglierci dai pasticci. È uno strumento troppo facilmente manipolabile, come dobbiamo constatare.

E, nonostante questo, il poco di democrazia di cui disponiamo non può né deve essere sacrificato, in nome di un tanto peggio tanto meglio che di meglio non porterà nulla.

È contraddittorio? Sì, spesso la realtà lo è.

Bisogna barcamenarsi dentro la complessità delle relazioni di cui è composta la nostra esistenza concreta in questa dimensione spazio-temporale, senza farsene travolgere.

Possibilmente con la mente sgombra di false rappresentazioni e di speranze mal riposte.

Le destre montanti, oggi in festa per il risultato in Brasile, sono il nemico, sicuramente, ma non più delle élite tecnocratiche che imperversano sulle nostre esistenze.

Il neo-colonialismo, l’estrattivismo rapace e i dispositivi di propaganda e di controllo sociale che essi impiegano a proprio vantaggio sono una minaccia ovunque e vanno combattuti ovunque, con strumenti adeguati alle specifiche realtà territoriali e storiche in cui la lotta si svolge.

Con la coscienza, tuttavia, che la lotta è una sola, dappertutto. E che senza la lotta non si ottiene nulla.

La lotta per un mondo in cui sull’egoismo e sugli interessi particolari e a breve termine prevalgano gli interessi collettivi di ampio respiro, la solidarietà, l’eguaglianza, la democrazia reale, la responsabilità, la dignità delle persone e dei popoli, la salvaguardia dell’ecosistema e della biosfera.

Vale in Sardegna non meno che altrove.

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