Scandire la vita collettiva con ricorrenze e rievocazioni del passato è un fatto connaturato nella nostra specie, sembrerebbe. Una specie che ha fatto del linguaggio e del livello simbolico della comunicazione un suo tratto evolutivo peculiare.
Il cosa e il come, quando si rievocano fatti del passato, danno la cifra politica di tali ricorrenze.
Per la loro natura simbolica i ricordi istituzionalizzati di fatti storici sono a volte occasione di polemiche, quando inseriti in un contesto almeno formalmente democratico. Altrimenti, si subiscono e basta.
Succede tanto più quanto più sono discussi i valori e i significati che tali ricorrenze evocano.
In particolare succede col 25 aprile in Italia, come abbiamo visto in questi giorni. E, in Sardegna, succede col 28 aprile. Nell’isola le due date a volte vengono addirittura messe in contrapposizione.
Le polemiche, inevitabilmente, risultano sempre sterili. Ed è un peccato, perché qualcosa di cui discutere c’è.
Mi pare che il dissenso sfoci in ostinata contrapposizione soprattutto laddove si confondono diversi piani del discorso, su questo tema.
Le ricorrenze storiche hanno diversi livelli di senso e vanno tenuti presenti tutti, ma imparando a separarli quando è necessario e ad affrontarli uno per uno, secondo il loro contenuto.
Prendiamo il 25 aprile. È chiaro che si tratta di una data scelta arbitrariamente, ma sulla base di fatti storici significativi: la liberazione dal nazifascismo dell’Italia settentrionale.
Come tale, la data ha un suo portato simbolico che va oltre la rievocazione del fatto specifico. Quindi si usa una data come una sorta di sineddoche, una parte per il tutto.
Perché è vero che il 25 aprile per moltissimi italiani di allora non fu una data particolare.
Il Meridione italiano e la Sicilia erano già da tempo usciti dal fascismo e anche dalla guerra, per molti versi. Così la Sardegna.
Ma nell’ambito italiano si è scelta quella data perché è quella che chiude un processo.
C’è un aspetto filologico, storiografico, in questa come in altre rievocazioni. È l’aspetto che riguarda la cura e la salvaguardia della verità storica, del senso di quell’avvenimento dentro il corso delle vicende che rappresenta.
A questo livello di lettura, è corretto continuare a studiare, a raccogliere e pubblicare documenti, a sforzarsi di comprendere idee, pulsioni e azioni dei protagonisti storici.
Poi c’è un livello più simbolico, che è quello che attualizza il senso di una ricorrenza e la fa restare contemporanea, ne traduce i significati nel contesto del nostro presente.
In questo senso, alcune date possono essere di importanza molto grande persino a grande distanza di tempo, persino al di là del loro stretto significato storico.
In un’epoca di fascismo risorgente e largamente legittimato dai mass media e da una parte consistente delle classi dominanti, tanto da farne un sentire diffuso, spesso inconsapevole, presso una larga fetta di cittadinanza, ricordare la liberazione dal nazi-fascismo (in Italia e non solo, sia chiaro) è un fatto politico che ha un suo significato nel nostro oggi.
C’è un ulteriore aspetto, di questa e di altre ricorrenze, ed è la loro problematicità.
Ci sono sempre aspetti o significati che vanno indagati, chiariti, discussi. Anche la ricorrenza più accettata e universalmente sentita come giusta può avere lati opachi, può stridere con qualche aspetto della nostra realtà.
Interrogarsi su questo non è male, perché è lecito mettere sempre in discussione ciò che il potere di turno vuole celebrare. A patto di non farlo strumentalmente per ragioni di bieco calcolo.
Per esempio, contestare il 25 aprile come data “divisiva” – come ho letto che è stato fatto in molte parti d’Italia, in comuni, scuole, piazze – non è un atto neutro, ma avalla una contestazione più profonda – e spesso taciuta – ai valori della Resistenza stessa. È un fatto grave, in questo senso.
O ancora, è alquanto inaccettabile che si contesti la presenza delle bandiere palestinesi ai cortei antifascisti, come ha fatto buona parte della comunità ebraica (filo-sionista) italiana.
I valori simboleggiati dalla sconfitta del nazi-fascismo oggi devono fare i conti col regime oppressivo di Israele nei confronti dei Palestinesi.
Poco importa che nel corso della II Guerra mondiale la classe dirigente palestinese fosse schierata con i Tedeschi. Fu una scelta grave, ma che allora aveva un senso, dentro il conflitto palestinese, dato che dai Palestinesi la Germania nazista veniva percepita come “nemica del loro nemico”.
Si può condannare, per quel che vale farlo adesso, ma ciò non giustifica la pretesa odierna dei vertici delle comunità ebraiche italiane che si prenda posizione contro i Palestinesi e a favore di Israele, secondo i loro rapporti attuali.
La critica “pelosa”, ipocrita e tendenziosa è un rischio sempre presente, ma va tenuta separata dallo sforzo di chiarezza e di consapevolezza che va sempre fatto su tutte le ricorrenze ufficiali, affinché non siano un mero fattore di indottrinamento delle masse a vantaggio della classe dominante del momento.
Bisogna saper distinguere e per saper distinguere è importante mantenere vivo lo studio e l’acribia storica (e da qui si ritorna al primo livello di lettura, di cui si è parlato).
Rievocare il 25 aprile, in ambito italiano, ha un significato politico preciso, anche oggi, a dispetto dell’ipocrisia delle istituzioni, spesso incarnate da personaggi che soggettivamente hanno infranto o quanto meno minacciato di infrangere i valori pure ufficialmente evocati da questa data.
Contestarne la legittimità e l’universalità dice molto su chi lo fa e non è niente di edificante, che sia chiaro.
Lo stesso tipo di discorso vale per il nostro 28 aprile. Ne ho già parlato, in queste pagine, e non ripeterò cose già dette (per es. qui o qui).
Tuttavia è significativo – e dà il senso dell’attualità di questa data – che Sa Die de sa Sardigna sia sempre mal accolta dall’establishment politico, accademico e mass mediatico.
Il fastidio per ciò che essa rappresenta si evidenzia, anche in modo inconsapevole, in molte scelte istituzionali.
Per esempio nella scelta di dedicare questa giornata, ogni anno, a un tema specifico a caso.
E persino, per paradosso, nelle scelte dei simboli e dei veicoli dei significati di questa ricorrenza.
Per dire, nell’occasione del 28 aprile di quest’anno (tra due giorni) verrà ufficialmente scelto come inno dei Sardi (o della Regione sarda?) il famoso poema politico di Frantziscu Innàtziu Mannu, s’Innu de su patriota sardu a sos feudatàrios.
È evidente che la nostra classe politica – giunta dei professori in primis – non ha la più pallida idea di quel che sta facendo.
Essendo per lo più tutti sardofobi, non conoscendo o schifando il sardo, nessuno di loro ha mai davvero letto e compreso quei versi che si apprestano a rendere ufficiali.
È una fortuna per noi, ma è anche un motivo di curiosità.
Molte delle cose che il notaio di Ozieri scriveva nel 1794 contro la classe dominante sarda filo-sabauda dei suoi tempi e contro il feudalesimo e contro i Piemontesi possono serenamente essere applicate al nostro oggi, alla nostra stretta attualità.
I primi bersagli di tale invettiva sarebbero proprio loro, i consiglieri regionali, la giunta, l’ambito politico clientelare e coloniale che domina la scena sull’isola oggi.
Non è un caso se si sia rinunciato da tempo a realizzare le rievocazioni storiche in grande stile, com’era nei primi tempi di celebrazione di Sa Die.
Basta guardare questo video, relativo alla prima Die de sa Sardigna, per capire tutto (specie dal minuto 9.30).
La folla di spettatori diventa parte della rappresentazione e la rappresentazione si trasforma in manifestazione politica. E questo è un pericolo, naturalmente, per chi ha paura del risveglio sociale e politico del popolo.
Per altri versi, non c’è da stupirsi nemmeno del fatto che quella vicenda venga in vario modo attualizzata, al di là della correttezza storica. È un effetto della sua aderenza a dinamiche attuali, della sua duratura contemporaneità appunto.
Pensiamo all’uso diffuso dei 4 mori come presunto emblema dei Sardi rivoluzionari contro i baroni e contro i Piemontesi.
È un clamoroso falso storico, è ovvio. I 4 mori allora erano l’emblema del Regno di Sardegna e campeggiavano al centro del simbolo araldico dei Savoia. Nessun rivoluzionario li avrebbe mai sventolati come proprio vessillo.
Oggi ciò è possibile perché quell’emblema ha cambiato significato e viene usato in termini di rivendicazione politica, come tale di segno uguale ai moti rivoluzionari di fine Settecento.
Così come è filologicamente errato attribuire alla vicenda rivoluzionaria sarda significati “indipendentisti”, dato che allora non c’era tanto da conquistare un’indipendenza statuale in senso contemporaneo, bensì c’era da rovesciare un regime oppressivo.
Potremmo parlare forse di autodeterminazione, più che di indipendenza, ma in termini adatti a una situazione della fine dell’Ancien Régime.
Tuttavia, al lato pratico, dentro il gioco politico attuale e dentro il processo storico così come si sta sviluppando oggi, è comprensibile questa sovrapposizione.
Caso mai dovrebbe suscitare una riflessione in chi ancora non comprende o osteggia l’aspirazione all’autodeterminazione, così diffusa oggi tra i Sardi.
Insomma, è inevitabile che emergano tali paradossi, perché, come detto altre volte, i fatti evocati il 28 aprile hanno un profondo senso storico e politico e sono determinanti per capire non solo quei frangenti lontani, ma anche e soprattutto tutto ciò che ne è seguito, compreso il nostro presente.
Il senso e la portata eversiva, rivoluzionaria, del 28 aprile continuano ad essere minacciosi.
Non per il popolo, non per la stragrande maggioranza dei sardi, ma per la nostra classe dominante attuale, degna erede di coloro che duecento anni fa contrastarono o tradirono la Rivoluzione e accettarono di buon grado un ruolo di delegati coloniali, di podatari, pur di preservare o accrescere i propri privilegi, protetti e legittimati da un potere esterno.
In definitiva, se non tutte le ricorrenze storiche hanno davvero ancora un senso, alcune invece lo mantengono e lo accrescono.
Il segnale che una ricorrenza storica sia da mantenere e da preservare è il fastidio per essa manifestato dalle classi privilegiate, dai reazionari, dai fascisti, da chi intende ancora la convivenza in termini di mera competizione, di gerarchie immodificabili, di sottomissione dei più a vantaggio dei pochi, di discriminazione delle diversità, di odio razziale, di inimicizia nazionalista, di guerra e di sfruttamento.
Per lo stesso motivo non vanno messe in competizione o addirittura in antitesi ricorrenze che abbiano in comune un senso emancipativo, liberante, democratico. Vanno messe in consonanza.
Siamo in un momento storico delicato. È molto più probabile che perderemo benessere, diritti e libertà fin qui goduti, piuttosto che vederli crescere nei prossimi anni.
Le ricorrenze storiche come il 25 aprile, il 28 aprile, l’8-9 maggio, il 14 luglio, ecc. sono importanti per sé e come richiamo a non arrenderci. E, fintanto che daranno di che preoccuparsi ai padroni (o aspiranti tali), saranno da difendere e da celebrare sempre.