Democrazia e analfabetismo si conciliano male. Ma forse il problema non è la post-verità, né le bufale di Internet, ma un deliberato disegno di indebolimento culturale.
Secondo uno studio della Stanford University, piuttosto commentato sui media, i cosiddetti nativi digitali avrebbero più problemi dei non nativi a discernere tra le informazioni in cui si imbattono in Rete.
Mostrerebbero insomma una scarsa attitudine analitica e una certa incapacità di risalire alle fonti delle notizie e a verificarne la verosimiglianza e l’autenticità.
Non è un esito che possa sorprendere chi segue l’andamento delle ricerche su questi temi. Da tempo è noto che le facoltà mentali si allenano e si sviluppano con l’esercizio.
La lettura silenziosa e profonda è indispensabile per accedere al livello più complesso della comprensione (di un testo, di un problema, di una relazione di causalità, ecc.). La rapidità nell’uso di iper-testi e di dispositivi elettronici super potenti ha bisogno, per essere veramente utile, di capacità di immersione nel flusso di dati.
Tali competenze si acquistano con lo studio e l’applicazione e le si reperisce più facilmente in discipline che apparentemente non hanno a che fare con la capacità di calcolo e con gli strumenti informatici.
Come le materie umanistiche. Per esempio, la disciplina filologica e analitica imposta dallo studio del greco antico e del latino sono molto utili a chi intraprenda studi scientifici, almeno quanto lo studio e l’esercizio delle materie matematiche. Idem per chi si dedichi all’informatica (nelle sue varie branche e specializzazioni). E così via.
Il che incidentalmente fa capire quanto sia intelligente depotenziare un corso di studi come quello dei licei classici, in Italia.
L’abitudine ad affrontare problemi complessi, a cercarne i tratti distintivi ed essenziali, ad analizzarli, a connetterli e a trarne informazioni sensate va conquistata a prescindere dal corso che i propri studi o il proprio lavoro prenderà negli anni.
Si tratta di capacità di base fondamentali, tanto più quanto più il mondo e le relazioni umane diventano complicati. Capacità che vanno allenate.
Di questo dovrebbe occuparsi la scuola, appunto, come si dice sempre. Per farlo, tuttavia, la scuola necessita di aggiornamenti costanti, di personale qualificato e ben retribuito, di strutture e strumentazioni idonee. In poche parole, di investimenti.
Nel mondo dei sogni, naturalmente, non in quello reale dell’ipercapitalismo finale, dove la scuola serve ad addestrare il pensiero semplice, le mansioni meccaniche, le connessioni lineari del problem solving di base.
Enfatizzare la questione delle fake-news e della post-verità, come hanno fatto l’establishment culturale e il sistema dei mass media mainstream (specie dopo il referendum sulla Brexit e la vittoria di Trump), è solo un modo per spostare il focus dal problema di fondo a fenomeni sociali di dubbia consistenza storica.
Atteggiamento che infatti ha suscitato critiche puntuali e documentate, benché lasciate (volutamente?) ai margini del dibattito.
La notizia di un filtro anti-bufale progettato da Facebook e da applicare sperimentalmente in Germania (in vista delle prossime elezioni politiche) è ugualmente una risposta sbagliata e anzi decisamente minacciosa a un problema che ci si rifiuta di guardare dalla parte giusta.
Ma se non si affronta correttamente il problema, quest’impalcatura retorica, fintamente basata su preoccupazioni democratiche, finisce inevitabilmente per rivelarsi quello che è: una tentazione reazionaria.
La democrazia non consiste nella vigenza di regole che prevedano votazioni a scadenza fissa o nell’esistenza di istituzioni rappresentative. Questo è solo un aspetto della questione.
Non consiste nemmeno nell’applicazione delle scelte migliori basate su informazioni veritiere, come pretendono i fanatici della tecnocrazia. Questa pretesa è largamente smentita storicamente e teoricamente, anche se gode ancora di buona stampa.
Non esiste alcun meccanismo di scelta nella risoluzione di problemi complessi, di natura sociale, economica, ecc., che sia impermeabile ai rapporti di forza.
La base essenziale della democrazia è più ampia e più articolata.
È la divisione dei poteri (di tutti i poteri, compresi quello economico e quello sui mezzi di comunicazione di massa) e il loro bilanciamento.
È il pluralismo culturale e politico; la libertà di espressione; la libertà di stampa (sostanziale, non nominale, quindi con regole precise in fatto di anti-trust e di conflitti di interesse).
È l’eguaglianza formale e sostanziale dei cittadini; sono i diritti civili e sociali fatti valere concretamente e ampiamente garantiti.
È il decentramento amministrativo e larghe sfere di autonomia locale.
È la difesa dei beni comuni (materiali e immateriali); è l’accesso non condizionato ai beni e ai servizi fondamentali (cibo, acqua, spazi verdi, relazioni, salute, ecc.).
Pensare di vivere in un regime democratico solo perché di tanto in tanto si è chiamati alle urne è un’illusione pericolosa. Pensare che basti il riconoscimento nominale di qualche libertà formale per essere davvero liberi è non solo stupido ma anche pericoloso.
La complessa formula della democrazia è una conquista difficile da raggiungere e bisognosa di costante rinforzo. Non c’è nulla di meno sicuro al mondo. Basta poco a perdere tutto.
L’istruzione dei cittadini, la loro capacità di discernimento, la loro possibilità concreta di concorrere alla formazione delle decisioni pubbliche (a determinare l’agenda politica) sono elementi fondamentali della qualità democratica di una società e del suo stesso benessere materiale.
Dovremmo essere coscienti che in Italia da molti anni si lavora a stravolgere queste verità elementari e a deprivare la popolazione di anticorpi democratici. In primis quelli derivati da un adeguato grado di istruzione e di confidenza con la complessità.
In Sardegna questa politica anti-democratica ha ulteriori aggravanti. L’organizzazione del sapere in Sardegna ha una radice pesantemente discriminatoria, almeno dalla riforma universitaria del ministro Bogino (1760) in poi.
La deprivazione culturale da una parte e l’acculturazione forzata dall’altra, col risvolto del nostro mito identitario perdente, sono intervenute in profondità sul tessuto connettivo delle comunità sarde, indebolendole e rendendole subalterne.
A questo si sommano politiche di stampo coloniale (dipendenza, assistenzialismo, clientelismo, debolezza indotta del sistema economico autoctono) e carenze infrastrutturali.
Del resto i dati relativi al (basso) numero di laureati e alla (alta) dispersione scolastica sull’isola non lasciano scampo: si tratta un grave problema sociale. La cui radice però è politica.
Parlare di democrazia, in queste condizioni, suona davvero paradossale, quasi offensivo. Eppure, a dispetto di tutto questo, i cittadini esistono, esistono i loro interessi e i loro bisogni, esistono i gruppi sociali e le formazioni sociali intermedie che li organizzano, li filtrano, li rappresentano. Ed esiste la voglia di prendere parte alle decisioni che ci riguardano.
Stupirsi o addirittura indignarsi quando questa pulsione a partecipare si traduce in risultati a noi sgraditi non serve a niente. Assecondare il processo di riduzione degli spazi di democrazia, sulla base di una mal fondata diffidenza verso le masse incolte, fa il gioco del consolidamento dello status quo.
Direi che sarebbe il caso di riflettere su questi aspetti, prima di prendercela con gli “analfabeti funzionali”, con gli “ignoranti”, con i poveri (perché spesso di questo si tratta).
C’è una battaglia politica di fondo da fare, non si può partire dagli effetti deleteri di politiche sbagliate prendendocela con le loro vittime. Magari per negare validità al suffragio universale (come spesso si sente dire, tra il serio e il faceto).
È l’approccio alla questione che va mutato o l’unica post-verità che ci toccherà ingoiare, senza sapere nemmeno cosa ci sta succedendo, sarà quella confezionata su misura dall’esigua minoranza che domina il mondo.