La politica sarda a un bivio, tra conservazione brutale e innovazione necessaria.
In Sardegna fervono i lavori in vista della prossima tornata elettorale regionale. A due anni dalla scadenza “naturale” della legislatura non sono così intempestivi come possono sembrare.
Si ha l’impressione che i gruppi di potere che dominano oggi la scena percepiscano con una certa chiarezza la propria debolezza politica e cerchino di restare a galla con ogni mezzo.
Il pericolo per loro è che si formi un fronte alternativo dal peso e dalla forza non contenibili nemmeno con le alchimie delle legge elettorale vigente o con una riforma peggiorativa (che pure è del tutto lecito attendersi).
Non si tratta, com’è evidente, del Movimento 5 stelle, che in Sardegna per adesso non costituisce un fattore decisivo. E che comunque sarebbe il “nemico” preferito dall’establishment al potere.
Sto parlando di qualcos’altro, ancora di là da venire, ma i cui prodromi si cominciano a intravvedere.
L’establishment al potere deve impedire il consolidarsi di questo variegato fronte sardo autonomo, ma al contempo non può accelerare troppo la fine della legislatura regionale.
Innanzi tutto deve attendere gli esiti delle dinamiche politiche a livello italiano, da cui in larga misura dipendono le sorti personali dei suoi esponenti.
Inoltre, nessuno degli attuali consiglieri regionali abbandonerà volentieri la propria poltrona, specie se è alto il rischio di perderla per sempre e senza adeguato contraccambio.
Saranno i leader delle varie fazioni alla fine a stabilire cosa va fatto e a selezionare i salvati e i dannati a seconda delle fedeltà e delle convenienze di parte.
Descrizione troppo cruda? È vero. Ma cosa c’è di accettabile e decoroso, in fondo, nella politica sarda di oggi?
In Sardegna un governo regionale può restare senza il proprio titolare per settimane, senza due assessori per mesi, e sembra che questo non abbia alcuna rilevanza.
Stiamo parlando di un luogo in cui – tanto per dire – un’importante strada extraurbana subisce un danno grave e rimane chiusa per mesi, salvo poi tornare improvvisamente al centro delle attenzioni politiche, ma solo perché deve passarci il Giro d’Italia.
Un’isola tenuta in ostaggio da un sistema di trasporti punitivo in cui però si terrà il cosiddetto G7 dei trasporti, senza che questo suoni come un paradosso offensivo a nessuno. Anzi, chi la amministra – in conto terzi – se lo rivende come una grande opportunità.
Un’isola grande, con una storia lunga e significativa, un patrimonio culturale ricco e unico, bellezze invidiate, risorse materiali notevoli è oscurata, impoverita, marginalizzata. La sua popolazione convinta di essere mantenuta da altri, per propria incapacità, dunque sempre bisognosa di tale sostegno (inesistente).
Sostegno per altro non solo inesistente, ma che spesso si trasforma magicamente in un sostegno della Sardegna allo Stato italiano (come in questo caso significativo).
La classe politica sarda evidentemente riflette e garantisce (nel proprio interesse) questa condizione storica.
Ciò che servirebbe da adesso ai prossimi anni è un mutamento di rotta piuttosto netto. Se non per altro, quanto meno per scongiurare gli esiti più disastrosi che ormai sono lì all’orizzonte.
Non serve tanto una soluzione magica e subitanea, una “rivoluzione d’ottobre”. Oddio, a volte lo scoramento è tale che un pensierino a una soluzione leninista ci scappa. Ma mancano tutti i presupposti anche minimi per una cosa del genere.
Più probabile, se è per questo, una bella rivoluzione passiva, che mutui temi e linguaggio dall’ambito più radicale a disposizione (quello indipendentista) e li pieghi a un disegno di pura conservazione delle gerarchie sociali e politiche.
Ci stanno già lavorando, non dubitatene.
Dato che le cose stanno così, ne consegue che per cominciare a cambiarle un po’ bisognerebbe dare vita a un’offerta politica alternativa. Radicalmente alternativa. Ma praticabile e seria.
Offerta politica che comunque possa essere efficace dentro gli stessi meccanismi del “gioco del trono” oggi in corso. Non c’è il tempo e nemmeno la possibilità concreta, in questo momento, di rovesciare il tavolo e cambiare gioco.
Dunque, manteniamoci dentro un orizzonte pragmatico. Come si fa a costruire un percorso alternativo con possibilità di successo?
Se ne sta parlando, in queste settimane, ed è importante che si faccia. Ci sono varie iniziative che sembrano convergere, almeno in termini oggettivi, se non per volontà delle parti coinvolte, verso un medesimo esito.
Vero è che c’è ancora un certo scetticismo, in giro, specie negli ambiti che fin qui non hanno mai veramente maturato la consapevolezza del disastro sardo e delle sue cause storiche. Ambiti sociali che non hanno mai aderito alla prospettiva di un mutamento politico radicale.
Si tratta di per lo più della vasta platea di cittadini a lungo fidelizzati verso le proposte politiche dominanti – i partiti italiani e le loro filiali sarde – che oggi si sente spaesata, senza punti di riferimento. Sono quelli che alimentano l’astensione. Non da soli, s’intende.
Del fenomeno astensionismo fa parte anche una variegata componente sociale, di estrazione medio-bassa o bassa (ossia gli esclusi, specie il sottoproletariato urbano), che ormai ha perso qualsiasi fiducia nella politica.
In realtà questa componente sociale ha perso fiducia nei politici e nei partiti dominanti, ma per varie ragioni identifica con essi la politica in quanto tale.
È un errore, ma non c’è da scandalizzarsi. Si preferisce non votare, dato che sembra che a farlo non ci si guadagni niente. Ed è vero, ma non nei termini e per le ragioni che spesso questi astenuti “per dispetto” adducono.
Fuori dagli schieramenti dominanti ci sono gli indipendentisti. Una galassia di soggetti e di individui molto più ampia di quanto dicano i numeri delle poche organizzazioni che cercano di dar loro voce.
Le organizzazioni indipendentiste vere, riconoscibili, con regole, iscritti e strutturazioni interne, sono davvero poche, quattro o cinque al più.
La leggenda della loro enorme frammentazione è dovuta al fatto che esistono moltissimi indipendentisti che non partecipano ad alcuna organizzazione esistente, aspettando che nasca quella fatta su misura per loro. Ed anche al proliferare di sigle e aggregazioni il più delle volte virtuali, in qualche caso nate proprio allo scopo di frammentare e indebolire il fronte comune.
Quella della frammentazione dell’indipendentismo e della necessità della sua riunione sotto un’unica bandiera è una sorta di maledizione, più che un problema politico storicamente consistente. A volte è uno stratagemma di comodo, buono per distrarre forze e attenzioni in momenti delicati.
Gli indipendentisti sardi rappresentano le stesse pulsioni, gli stessi ideali, le stesse prospettive rappresentate in qualsiasi arco politico nazionale. Dalle simpatie fasciste e/o leghiste, passando per conservatori, neoliberisti, liberali, qualunquisti, fino al marxismo (nelle sue diverse declinazioni). È inevitabile.
La stupidata colossale che l’indipendentismo sardo non debba essere né di destra né di sinistra (refrain tipicamente di destra, per altro) fa perdere solo tempo. Anche qui, non è escluso che in qualche caso venga tirata fuori proprio a questo scopo.
Alla pari dell’altro ritornello sulla necessità di “primarie”. Mistificazione più sottile questa, più furba, ma evidentemente finalizzata al sabotaggio, se messa avanti come condizione decisiva, in questa fase.
Intendiamoci, è del tutto legittimo e anzi necessario discutere della natura delle organizzazioni indipendentiste, delle evoluzioni in corso, del perché fin qui non siano mai riuscite a intercettare la pur grande domanda di autogoverno e di auto-identificazione presente nel popolo sardo, ecc.
Questi però sono problemi profondi ma puramente speculativi, posti su un altro piano rispetto all’azione politica vera e propria. Non possono essere anteposti alla necessità di offrire oggi, entro breve, agli elettori sardi una alternativa credibile ai soliti partiti coloniali e ai loro satelliti locali.
Anche vincolare a condizioni astratte, o ad antipatie personali, l’adesione a un percorso politico condiviso è un lusso che non possiamo permetterci.
Se la domanda di nuova politica è forte, in Sardegna, l’offerta corrispondente non può che essere una risposta plurale, collettiva, democratica, dinamica.
Una risposta di questo tipo può coagularsi non tanto sulle petizioni di principio o sui temi astratti e ideologici. Tanto meno sulle fughe in avanti. Su quella strada non si arriverà mai da nessuna parte.
Del resto, non si parte da zero. Nella scorsa campagna elettorale c’è già stato un tentativo di questo genere: quello di Sardegna Possibile.
Un tentativo limitato da fattori restrittivi oggettivi, come il poco tempo a disposizione, la mancanza di denaro (alla quale si era sopperito in parte con l’autofinanziamento), l’impossibilità pratica di avviare un reale confronto con altre forze potenzialmente vicine.
Ma la risposta dell’elettorato c’era stata ed anche in misura obiettivamente importante, se si pensa che la coalizione aveva ottenuto circa il 7% dei voti validi. E questo pur essendo formata da due liste nate per l’occasione e da un giovane partito indipendentista alla sua prima vera prova elettorale.
Di solito si attribuiscono all’esperienza di Sardegna Possibile – spesso in mala fede – difetti ed errori che non ci sono stati o che non hanno avuto alcun peso determinante. Si tratta di guardare alla cosa con uno sguardo spassionato.
L’esperimento, pure evidentemente riuscito, a dispetto dei detrattori (interessati), aveva però mostrato alcune debolezze al suo interno, ulteriori rispetto ai fattori restrittivi esterni.
Una era la poco fluida relazione tra la componente indipendentista e le altre. In questo caso avevano prevalso ingenuità politiche forse inevitabili. La necessità dell’auto-identificazione era entrata in conflitto con il riconoscimento di forti valori condivisi con le altre componenti.
Per lo stesso motivo era mancata anche la presa di coscienza sul significato del percorso fatto e sulle sue potenzialità.
La stessa rapidità dell’operazione non aveva lasciato maturare dei meccanismi di selezione e ricambio della leadership che in un’organizzazione magari plurale ma più strutturata e duratura sarebbero stati fisiologici.
In ogni caso quella di SP è stata una dimostrazione lampante di quale sia la forza di una domanda di politica diversa e migliore nella società sarda, in tutti i territori. È una lezione che va tenuta presente.
Nel processo di aggregazione in corso la questione della leadership, se pure inevitabile, ha in questo momento uno scarso peso. È più importante definire alcune condizioni preliminari.
Come, per esempio, la chiusura verso qualsiasi ipotesi di collegamento con i partiti italiani e i loro associati ed anche verso le forze e i soggetti che hanno avuto responsabilità di governo e hanno già dato prova di sé.
Si potrebbero fare eccezioni solo per partiti sardi, a patto che rinuncino a qualsiasi velleità egemonica, a pretese di leadership “automatica”.
Un’altra condizione riguarda alcuni limiti valoriali da cui non si può prescindere, come il rifiuto del razzismo, del leghismo, delle varie forme di fascismo.
Dopo di che, si tratta di concentrarsi sulle priorità, sui temi, su un programma di cose da fare.
Non si devono assumere obiettivi troppo generali e futuribili, il confronto non verte sulla proclamazione di indipendenza o altre finalità strategiche di questo tipo.
Né – almeno sulle prime – sarà possibile porre come finalità immediata una rinegoziazione dei rapporti giuridici e politici con lo stato italiano (compresa la tanto invocata, a volte come azione di disturbo, Zona Franca).
Il ridisegno giuridico e politico della relazione tra Sardegna e Stato italiano è un obiettivo necessario ma complesso, che richiede una forza politica e una evidenza di condizioni oggettive (socio-economiche e culturali) oggi inesistenti.
Affinché tali questioni possano entrare nell’agenda politica reale, uscendo dall’empireo delle utopie, serve un lavoro preliminare che potrebbe essere appunto uno degli scopi di un ampio fronte come quello che si prospetta.
I nodi da sciogliere del resto sono tanti e impegnativi. Sul fronte dei trasporti (interni ed esterni), sul fronte della produzione e distribuzione dell’energia, sul fronte della gestione della sanità pubblica, sul turismo, la scuola e l’università, la questione linguistica, la politica culturale, sul comparto strategico della produzione agroalimentare.
Su questi temi si deve concentrare la ricerca di soluzioni, partendo dal coinvolgimento delle categorie interessate, non più chiamate a delegare ad altri la loro sorte.
Attingendo anche alle competenze e alle esperienze dalla nostra diaspora, organizzata e non. Si tratta di una risorsa preziosa da troppo tempo sottovalutata, fino a qualche tempo fa anestetizzata con dosi massicce di finanziamenti regionali, oggi semplicemente ignorata.
Non dimentichiamo poi la galassia di associazioni e di organizzazioni spontanee, dal folklore al volontariato. Un patrimonio usato quasi sempre come bacino clientelare, ma sottostimato quanto ad apporto culturale e sociale.
A questa prospettiva di autodeterminazione concreta manca, è vero, il supporto convinto dell’intellettualità sarda. Salvo rarissime eccezioni, si tratta di un ambiente abituato alla cooptazione da parte del potere politico dominante, sia sul versante accademico, sia su quello della produzione letteraria e artistica.
Così come è difficile contare su una stampa libera e indipendente, nonché su un ambito sindacale coraggioso e battagliero, sganciato dai partiti dominanti e da una visuale strettamente corporativa e di corto respiro.
Tuttavia, sta forse scricchiolando il rapporto di favore tra i centri clientelari più robusti e alcuni comparti produttivi.
Sta emergendo una borghesia imprenditoriale parzialmente nuova, sull’isola, desiderosa di affrancarsi da vincoli parassitari, dai meccanismi soffocanti del ricatto e dei favoritismi politici. Non so quantificarne peso e influenza, ma potrebbe avere un ruolo importante nei prossimi anni.
Il soffocante e ottuso centralismo regionale sta facendo emergere per reazione una riflessione più articolata e profonda che nel passato nei territori più marginalizzati e nei piccoli comuni (che sono la maggioranza, per altro, nell’isola).
La Sardegna non è priva di anticorpi democratici, né manca di una storia di lotte e di resistenza ai soprusi. Si tratta di enfatizzare i tratti più costruttivi, proattivi, della nostra collettività storica, di recuperare la memoria delle nostre vicende del passato e costruirci una nostra auto-rappresentazione nel tempo e nello spazio meno subalterna e tossica. Sono cose già dette e ridette. Ma non di meno sempre urgenti.
Una buona dose di generosità e di pazienza, qualche passo indietro dei tanti ego in gioco, saranno ingredienti indispensabili in questo nuovo percorso. L’importanza delle questioni da affrontare deve prevalere sul protagonismo soggettivo.
Non c’è da fare affidamento nelle ricette del passato, o aspettare conversioni dell’ultim’ora da parte di reprobi recidivi. In Sardegna si sa tutto di tutti, non ci vuole la NSA per sapere chi è un voltagabbana opportunista e chi no, per conoscere le azioni e le intenzioni di chicchessia.
Se non ci si attarda in questioni pretestuose e non si cade nelle trappole più evidenti, è possibile che si riesca a far convergere su un nucleo tematico forte e su obiettivi politici credibili un numero consistente di forze e di soggetti, da cui poi emergerà una leadership riconosciuta.
Tale percorso dovrà essere fondamentalmente di natura elettorale e avere prima di tutto il respiro di una legislatura. Inutile e potenzialmente dannoso pretendere di più.
Potrà però essere il trampolino per un ulteriore salto di qualità e per la riorganizzazione su basi più stabili di un insieme di forze oggi disperse.
Se prenderà piede e darà esiti concreti, potrà e dovrà scaturirne una nuova mappa politica della Sardegna, con forze organizzate autonome, basate sull’isola, a distribuirsi lo spettro politico da destra a sinistra.
Se tutto questo sembra difficile è perché è difficile davvero. Ma non impossibile. E comunque necessario.
Il lavoro insieme è un cemento migliore dei confronti dialettici, magari veicolati da media impersonali.
In questo senso sono da salutare con la giusta considerazione i tanti episodi di incontro e discussione di queste settimane, la Cunferèntzia aberta sulla questione linguistica tenutasi a Nuoro, gli incontri che sta svolgendo l’ex direttore dell’Unione Sarda Anthony Muroni in giro per la Sardegna, il percorso di convergenza di alcune forze indipendentiste, il rilancio dell’azione del comitato per il NO al referendum del 4 dicembre scorso, la condivisione di obiettivi e azioni dei comitati locali in lotta, le mobilitazioni dei comuni in risposta alle emergenze meteorologiche, ecc.
Esempi eterogenei, non necessariamente collegati tra loro, ma che lasciano intravvedere una possibilità politica più ampia di quella offerta dal panorama istituzionale. Casi che quanto meno mostrano la vera capacità collaborativa e la generosità della nostra gente.
Non possiamo permetterci di lasciare la Sardegna nelle mani in cui è stata negli ultimi vent’anni (o settanta o centocinquanta), né di aspettare chissà quale intervento salvifico dall’esterno (che non ci sarà mai).
Certo è che le scuse sono finite e anche le scappatoie. È un processo in corso da alcuni anni e ormai le sue coordinate si stanno definendo. Ognuno potrà e dovrà fare la sua parte.
Davvero un gran bel pezzo!