In Sardegna si vive dentro una distopia, ma il plot è troppo banale per essere avvincente.
Pensateci bene: è tutto troppo didascalico e prevedibile per essere interessante. Rimane solo il lato deprimente della faccenda. La pura e semplice applicazione su vasta scala della legge di Murphy: tutto quello che può andare male, lo farà.
Lasciamo stare i lutti, la cui inevitabilità non consola delle perdite ma le rende comunque elementi costitutivi dell’ordine naturale delle cose. Penso invece alle notizie prelevate dalla cronaca quotidiana a ammanniteci come se niente fosse dai mass media.
Una è quella relativa alla fallimentare operazione di convincimento messa in atto dai vertici della RAS a proposito del prossimo addio alla Sardegna della compagnia Ryanair. Pigliaru&Deiana, personaggi degni di una commedia di Ionesco, si sono fatti prendere per il naso dal governo italiano, che alla fine ha serenamente annunciato che a togliere l’imposta sui biglietti aerei, oggetto del contendere, non ci pensa proprio. Triste conferma della subalternità cialtronesca della politica sarda. Del resto il podatario può fingere di fare da tramite delle esigenze del popolo presso il padrone, ma in realtà al padrone risponde e obbedisce.
E non mi soffermo troppo sulla tristissima condizione di una leadership politica che è costretta a (fingere di) difendere istituzionalmente gli interessi privati di un soggetto economico straniero per garantire almeno in parte un diritto fondamentale ai propri amministrati, diritto che pure sarebbe chiamata a garantire di suo.
Un’altra notizia di questo giorni è l’allarme sulla ludopatia in Sardegna. Sembra che anche qui siamo per l’ennesima volta una terra da primato. Di solito succede quando i primati sono negativi. Come in questo caso. Non so se i dati siano corretti, diciamo che mi fido della fonte. Ma anche se si trattasse di approssimazioni, è sotto gli occhi di tutti quanto sia diffusa l’abitudine al gioco dalle nostre parti, fino nel più sordido tzilleri della bidda più sperduta dell’isola.
Ci sarebbero trattati sociologici da scrivere a questo proposito e ci sarebbe da fare anche qualche considerazione di natura economica (visto che le cifre in ballo sono nell’ordine delle decine di milioni all’anno). E a molti non è sfuggita la similitudine con la condizione diffusa dei nativi nordamericani delle riserve, costretti a una marginalità fatta di deprivazione, alcool, gioco d’azzardo.
È anche evidente l’assurdità di uno stato che spende più soldi pubblici per combattere gli effetti del gioco d’azzardo di quanti ne ricavi dalle imposte sul medesimo.
Qui mi limito però a sottolineare l’aspetto allegorico di questo fenomeno. Mi è già capitato di usare la metafora della tossicodipendenza, per dar conto di certe dinamiche socio-culturali che affliggono la nostra gente. La ludopatia si presta altrettanto bene. Anche in questo caso si sperperano risorse, che di solito di dice di non possedere, nella perpetuazione della dipendenza.
Perché la dipendenza è bella, è comoda, e deresponsabilizzante e questo i padroni e i colonizzatori di ogni tempo lo sanno benissimo.
Così la dipendenza privata e individuale di centinaia di persone finisce per riassumere la dipendenza collettiva di un intero popolo.
Scorgere una precisa volontà politica in questi esiti sociali e culturali non è complottismo a buon mercato ma semplice riconoscimento dell’intima coerenza narrativa della trama di cui siamo comparse.
E così la distopia è completa. Non ci manca niente. Sarebbe ora di renderci conto che si tratta di fiction e che si può anche pensare di tornare alla realtà, o quanto meno inventarci una storia migliore.
Ovviamente, sperarlo soltanto non basta. Per inventare storie ci vuole fantasia, creatività, impegno e una certa disciplina. Da qualche parte bisognerà tirarli fuori.