Sa di’ de s’acciappa

È una bella giornata limpida di primavera, come solo a Castel di Callari se ne vedono, magari già un po’ calda, ma che importa? La città è apparentemente tranquilla, benché da mesi la tensione sia palpabile. Ognuno pare affaccendato nelle sue solite occupazioni. I bastaxus, gli scaricatori del porto, smistano colli e casse dalle navi ai magazzini. I piciocus de crobi girano servizievoli coi loro canestri da un signore appena sbarcato a una serva di casa che compra il pesce, o importunano i passanti. Gli artigiani tengono aperta la bottega, con l’orecchio teso verso il Castello. Gli sfaccendati cercano di vendersi qualche pettegolezzo per un bicchierino di quello buono. La guarnigione intanto se ne sta sulle sue, in attesa di ordini. Il viceré poltrisce, sperando di non dover prendere decisioni per le quali non è preparato.
Poi, non si sa come, all’ora di pranzo, una voce corre da Stampace alla Marina, dalla Marina a Villanova e fa il giro delle mura. Stanno arrestando qualcuno. Com’è che si chiamano? Cabras, Pintor, nomi di ottime famiglie della città, nomi di gente benvoluta. I piemontesi (maledetti siano!) tentano di soffocare ogni speranza di giustizia. Le campane suonano. Le gente esce di casa, pronta a tutto. La folla si raduna. Apre le porte tra i quartieri, si dirige decisa verso il Castello. Dov’è che li hanno rinchiusi? Nella torre di San Pancrazio, si scopre subito, l’antica galera, la nostra piccola Bastiglia. La folla tumultuante converge in quel punto. I reparti militari posti a guardia nulla possono: sono disarmati. La torre è assediata e presto presa, le porte bruciate e divelte. I prigionieri vengono finalmente liberati. Si grida alla vittoria.
Gli animi però anziché placarsi si esagitano. C’è chi grida al tradimento. Si proclama la colpevolezza del viceré e di tutti i suoi funzionari. Anzi, di tutti i piemontesi! “Buttiamoli a mare!”, grida qualcun altro. Si corre al palazzo viceregio. E la Storia finalmente si prende ciò che le spetta.
Il Palazzo oramai è conquistato. I militari impotenti. La città è in mano ai rivoltosi. La notizia già corre per le campagne verso il Capo di Sopra. Per tutto il giorno e per i giorni a venire è un continuo rimpiattino, un guardie e ladri dove le parti spesso sono invertite. Se non rispondi “cixiri” sei automaticamente uno degli “altri”. I signori, i ricchi e il vescovo in persona si votano a Sant’Efis. Che ne dirà il re?
Ma il popolo è clemente. La caccia all’uomo (e alla donna e a tutti quanti, animali domestici compresi) si risolve in un fermo invito a imbarcarsi immediatamente per la Terramanna. Pochi giorni dopo la sollevazione, due ali di folla, con una severità nello sguardo che solo la consapevolezza del giusto può dare, osservano il corteo di signori in palandrana e signore in cappello e abiti assurdi e scomodi (ma bellissimi) calcare l’acciottolato delle vie, dai loro palazzi alla Marina. Mica è vero che tutti se la svignarono in carrozza. Qualcuno tenta un ingiurio, altri lanciano maledizioni. I più saggi calmano gli animi ed evitano che si scateni la violenza. E poi gli stranieri arrivano lì, sulla banchina del porto, cupi e umiliati. E via sulle passerelle un po’ traballanti, con i signori a reggere il gomito delle signore dalle scarpe inadatte a quel genere di passeggiata.
Le navi salpano. Un grido liberatorio scaturisce dalle ugole. Quella sera e i giorni successivi si fa festa. La Sardegna è libera. La Nazione è salva. È un’ebbrezza, un’esaltazione collettiva, una sensazione di forza e di gioia condivisa. Sarà un’estate di libertà e di autogoverno, senza padroni stranieri, senza approfittatori forestieri (che ci bastano i nostri, per quello…). Non durerà, ma che importa? È un precedente. Significa che può succedere, che esiste anche questa possibilità nell’ordine delle cose. Bisognerà ricordarsene.

[Da Tutto quello che sai della Sardegna è falso, Cagliari, Arkadia, 2013]

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