Le contestazioni all’EXPO e le loro strumentalizzazioni sono quanto di più scontato potesse capitare nell’Italia renziana. Eppure si nota una certa verve pavloviana tanto nei commentatori da social media quanto tra quelli istituzionali. Ma è pura società dello spettacolo, in fondo.
Sul tema è stato molto efficace Franco Berardi, in una nota proprio su Facebook. Il succo del suo discorso è: manifestare in piazza per i diritti ha ancora senso, quando ormai si tratta di vita e di morte (in senso collettivo, più ancora che individuale)? E a cosa serve demonizzare la protesta violenta (ampiamente prevedibile) o anche il suo contrario, ossia sposarla fino in fondo? Non si tratta forse comunque di essere prigionieri di un copione stantio e per di più scritto da altri?
Il che, riportato alla situazione sarda, offre molti spunti di riflessione (che intanto è andata articolandosi per conto suo, sempre su Facebook). Manifestare, organizzarsi, anche in pochi, cercare di diffondere informazioni, punti di vista alternativi alla versione mainstream, ha un senso? E se sì quale?
Tutto ciò assume ulteriori connotazioni se solo lo si collega con lo scandalo giudiziario di questi giorni, quello ribattezzato senza troppa fantasia “sindacopoli”. I fatti emersi dalle cronache e dalle indagini, già gravi in sé, minacciano di essere solo la parte emersa di una metastasi più diffusa e profonda.
La cleptocrazia senza limiti che si è impossessata del mondo fa danni maggiori laddove non esistano altri fattori storici in grado di contenerla. La debolezza produttiva, sociale, culturale e politica offre terreno fertile alle sue manifestazioni peggiori, e non come eccezione contingente, bensì come costante sistemica. Ecco perché in Italia anche una cosa come un’Esposizione universale – già minata nel suo senso profondo dal cedimento al grande capitale e agli affamatori e ai distruttori del pianeta – diventa terreno di conquista per la malavita e la politica ad essa collegata. Niente di strano dunque se la corruzione rapace diventa sistema ordinario anche nella sua provincia oltremarina sarda.
Il clientelismo, il familismo e la cattiva amministrazione pubblica in Sardegna sono facce del medesimo dado. È un fenomeno storico macroscopico che ha le sue radici nel processo di adattamento dell’isola alla contemporaneità. La fantomatica modernizzazione a cui la Sardegna è stata sottoposta negli ultimi duecento anni è una parte fondamentale di questo meccanismo deleterio. La modernizzazione – che avesse le sembianze dell’editto delle chiudende, del disboscamento selvaggio, della Legge del Miliardo o del Piano di Rinascita cambia poco – è sempre stata promossa nell’interesse del progresso generale e sempre a conti fatti si è rivelata un disastro, vantaggioso solo per pochi. La condizione di dipendenza è il brodo di coltura ideale per questa malattia civile e politica.
Esistono studi appropriati sul tema (come per esempio questo, svolto da una ricercatrice sarda, per altro), ma basterebbe anche il tanto osannato (a vanvera) senso comune per capire che la cattiva amministrazione la si paga doppiamente: sia in termini etici, sia in termini pratici. Il malfunzionamento dei servizi e le carenze infrastrutturali sono un danno enorme sia sul piano economico sia su quello del libero esercizio dei diritti di cittadinanza. Su questi aspetti non si può transigere.
Meravigliarsi oggi dello scandalo giudiziario in corso è perdonabile per chi non abbia sufficienti strumenti per capire in che mondo viviamo, ma è ridicolo da parte di chi occupa posizioni di rilievo in ambito pubblico.
A dire il vero, a parte il lavoro di cronaca dei mass media (e qui, per inciso, vorrei far notare quanto sia importante avere un minimo di pluralismo dell’informazione), non è che ci sia in giro tutta questa voglia di prendere posizione, di saperne di più, di analizzare il fenomeno. Si vede che la mamma dei pesci in barile è stata particolarmente prolifica, ultimamente.
Soffriamo un po’ tutti di memoria corta nell’epoca del bombardamento di informazioni “in tempo reale”, ma mi ricordo bene i discorsi sentiti poco più di un anno fa nel corso dell’ultima campagna elettorale per la Regione. I distinguo di tenore etico e pragmatico venivano facilmente bollati come velleitari o come poco attinenti alla realtà concreta. La drammatica verità è che una parte cospicua della nostra condizione materiale precaria è dovuta proprio alla debolezza etica in campo pubblico, alle prassi clientelari, alla corruzione diffusa, alla penuria di anticorpi civili e democratici nella massa della cittadinanza.
La reticenza sul tema da parte della politica sarda istituzionale e anche dei suoi reggicoda in ambito accademico e intellettuale è evidente ma non sorprendente. Persino i più loquaci sembrano improvvisamente a corto di parole. Non so se il silenzio sia dovuto a prudenza opportunistica oppure all’aspettativa di qualcosa di peggio in procinto di emergere. Chissà, staremo a vedere.
Certo è che la portata dei problemi risulta drammaticamente crescente, al contrario delle capacità di chi pretende di essere depositario dell’unico modo possibile di affrontarli. Che poi è lo stesso che ci ha condotto in questa situazione. Se è vero – come sostengono recenti studi – che ci troviamo già dentro la sesta grande estinzione, questo genere di discorsi può apparire futile. Eppure, guarda caso, in realtà tutto si connette alla nostra incapacità di interagire col mondo in termini intelligenti, generosi, responsabili. La sesta grande estinzione non sarà dovuta a un asteroide impazzito, ma all’opera della specie umana. Non c’è da vantarcene.
Sia come sia, non vedo perché dovremmo accettare di buon grado che i Sardi ne siano una delle prime vittime sacrificali. Va bene essere stati a volte dei precursori, nel corso della nostra storia, ma in questo caso preferisco adoperarmi per la conservazione. È una questione di vita o di morte. La complicità esplicita o implicita con l’apparato di dominio che governa la Sardegna è un peccato mortale inescusabile. Chi ha una coscienza non ancora in vendita dovrebbe farsi carico di una verità dura ma che è necessario accettare. Le celebrazioni di sa Die de sa Sardigna di pochi giorni fa devono essere un monito, oltre che il ricordo di una possibilità. Serve una rivoluzione, ma questa volta che vada fino in fondo.