Il caso degli arresti all’E.On, azienda tedesca che gestisce la centrale di Fiume Santo, si intreccia con la querelle circa sa Die de sa Sardigna. Non è solo una coincidenza cronologica. C’è una stretta relazione tra le malefatte industriali e la celebrazione del 28 aprile.
La ricorrenza di Sa Die soffre l’imposizione di una cornice interpretativa composta da due facce, una coppia oppositiva di comodo: da una parte l’interpretazione sminuente, dall’altra quella nazionalista. Chi vorrebbe derubricare i moti del 28 aprile 1794 (e con essi tutta la Rivoluzione sarda) a poca cosa e chi vorrebbe farne un evento di natura nazionalista e indipendentista (Sardi vs. Piemontesi, ossia vs. Italiani).
Sono due letture speculari ed entrambe fuorvianti. I fatti del 28 aprile 1794 e tutta la stagione rivoluzionaria sarda ebbero molte implicazioni politiche e sociali, che alla luce dei documenti e delle conoscenze acquisite non è davvero possibile sminuire ancora. D’altro canto ridurli a mero conato di rivendicazione nazionale contro lo stramiero è altrettanto scorretto. Certamente l’odio verso i Piemontesi esisteva ed era trasversale a tutte le fasce sociali, per varie ragioni. Tuttavia la vera discriminante non era tanto l’etnia, quanto piuttosto il regime oppressivo vigente.
Alla fine del Settecento e poi anche ben dentro l’Ottocento non esisteva alcun possibile equivoco sulla denotazione storica, etnica, dei Sardi. Nessuno ne metteva in dubbio l’esistenza come entità collettiva, la “Nazione sarda” non era una locuzione rivendicativa, in opposizione a una situazione di disconoscimento, ma una definizione neutra, il nome di una popolazione riconosciuta nel consesso dei popoli europei e mediterranei.
Allo stesso modo non v’era alcun dubbio che il Regno di Sardegna corrispondesse alla Sardegna fisica e fosse uno stato a sé stante. A volte su questo punto di fa qualche confusione, perché i re di Sardegna erano sempre stati stranieri, prima aragonesi, poi spagnoli e infine sabaudi. Ma il Regno di Sardegna era uno stato con i suoi confini, le proprie istituzioni, le proprie leggi; lo era anche dentro la Corona aragonese (e poi spagnola). Una parte consistente dell’attrito con il governo sabaudo derivava dal disconoscimento da parte di quest’ultimo proprio di tali prerogative. Che il re di Sardegna fosse un Savoia poteva anche starci, non era tanto quella la questione determinante. I sovrani del Regno Unito erano tedeschi, quelli spagnoli erano francesi e prima ancora erano stati di origine austriaca: cose abbastanza consuete nell’Ancien Régime.
In definitiva, ciò che era in ballo nel corso della Rivoluzione sarda erano i rapporti di forza, era il regime feudale, erano le disuguaglianze sociali e politiche, era l’inadeguatezza del governo sabaudo davanti alle necessità strutturali e anche alle emergenze contingenti dell’isola. Non a caso la goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stata l’inerzia del viceré Balbiano davanti al tentativo di occupazione francese (febbraio 1793).
Ma i nemici della Rivoluzione sarda furono soprattutto, e in modo particolarmente feroce, alcuni sardi. Il rivolgimento politico non minacciava direttamente o dichiaratamente la monarchia, quanto più precisamente (specie nelle campagne) gli assetti produttivi e le gerarchie sociali. Certo, la parte più istruita e informata della borghesia sarda aveva maturato idee anche più drastiche. La penetrazione dell’illuminismo, delle idee di Rousseau, di istanze radicali è un fatto abbastanza sicuro, benché si possa dedurre più da indizi che da prove materiali. Che Angioy volesse stabilire un governo repubblicano è un fatto acquisito. In ogni caso, insieme ai Savoia o meglio ai funzionari piemontesi, il nemico era anche e soprattutto un nemico interno. In questa cornice la lettura nazionalista perde molto del suo senso.
Ovviamente l’assetto di potere vigente determinava anche i rapporti sociali e li garantiva. Tant’è vero che ben presto anche alcuni leader popolari della prima ora si votarono alla fedeltà savoiarda, divenendo accaniti repressori degli angioyani. E all’arrivo dei Savoia a Cagliari (marzo 1799) furono ben contenti di accoglierli e di manifestare loro fedeltà e deferenza. Mossa indovinata, almeno dal punto di vista della classe dominante sarda, che dopo la Rivoluzione si troverà a suo agio nel comodo ruolo di intermediaria tra la Sardegna e il centro di potere (esterno) da cui l’isola dipendeva e da cui essa, la classe dominante, era legittimata.
Questo, come più volte spiegato, rappresenta la cifra precisa degli assetti socio-politici successivi alla Rivoluzione, che poi hanno conformato la Sardegna contemporanea fino ad oggi. Il problema di fondo della Sardegna non è stato tanto un rapporto di dominio coloniale diretto con una madrepatria lontana, ma piuttosto una sorta di condizione post-coloniale ante litteram, in cui le forme giuridiche mascheravano edulcorandoli i veri rapporti di forze e la vera struttura produttiva e sociale. Lo stesso assetto autonomista è stato sostanzialmente una finzione retorica che doveva preservare tali rapporti di forza (come sottolinea lucidamente Eve Hepburn). Il discorso nazionalista, anche nella sua declinazione sardista, in questo senso è sempre stato utile a chi dominava la Sardegna in conto terzi per sgravarsi delle proprie responsabilità.
In fondo è quel che vediamo ancora oggi. La politica sarda, messa alle strette, fa in fretta a buttare la colpa sullo stato centrale. Che al governo ci sia un Cappellacci o un Pigliaru poco cambia. Quel che non cambia è il rapporto patogeno con i centri di potere e di interessi esterni che garantiscono quelli locali, la dipendenza di questi ultimi dalla legittimazione che ricevono da altri e non dalle dinamiche democratiche interne. Per la politica sarda conta infinitamente di più cosa si decide in una segreteria di partito italiana, in un grande consiglio di amministrazione, persino in qualche salotto ben frequentato di Roma o di Milano, del voto democratico dei Sardi.
Il caso dell’inquinamento a Porto Torres non fa che gettare luce su questa dinamica strutturale della storia contemporanea sarda. Capisco che a qualcuno, interessato o male informato, suoni male la continua evocazione dei nostri ultimi duecento anni come un periodo ben denotato e sostanzialmente uniforme, ma all’evidenza storica non si può sfuggire. Capisco anche che la classe intellettuale ed accademica sarda sia il larga misura organica al sistema di dominio vigente e non possa dunque esserne il contraltare critico. A maggior ragione è doveroso proporre una lettura diversa.
Così, è perfettamente comprensibile che i nostri problemi più drammatici siano sempre stati elusi o addirittura avallati, se non direttamente creati, dalla nostra classe politica. Essa ha sempre dovuto rispondere di sé non al popolo sardo ma a qualcun altro, garantendosi così evidenti vantaggi di classe.
Se l’E.On ha potuto fare quel che oggi viene alla luce, così come lo ha potuto fare la Saras, così come continuano a farlo speculatori di ogni risma; se una parte consistente del nostro territorio è stata consapevolmente destinata alla morte per inquinamento (industriale e/o militare, ma anche sociale e culturale); se le risorse della Sardegna sono sempre state messe a disposizione di chiunque tranne che dei Sardi; se non si sono mai affrontati compiutamente i problemi relativi ai nostri fattori strategici (dall’energia ai trasporti, dal patrimonio storico-archeologico a quello linguistico, ecc.) non è un caso.
La modernizzazione della Sardegna, la sua “occidentalizzazione”, ha assunto i caratteri di un’imposizione forzata di modelli produttivi e sociali del tutto estranei e anche violenti, a cui ha corrisposto una condizione politica debole e una acculturazione debilitante. Sono fenomeni ben noti e ampiamente affrontati.
Il fatto che la nostra classe politica, manifestazione pubblica di precisi e radicati interessi economici di parte, non ami la rievocazione del 28 aprile 1794 e tutte le sue connotazioni, è del tutto comprensibile. Quel che rappresenta questa data non è tanto la “cacciata dei Piemontesi” quanto piuttosto la minaccia di un rivolgimento sociale e politico che avrebbe la nostra classe dominante come prima vittima.
È inutile prendersela con i Tedeschi nel caso dell’E.On, o con gli Italiani (per lo più ignari o vittime quanto noi) in altre circostanze. Bisogna capire che la linea di faglia che divide un campo dall’altro, una prospettiva storica dall’altra, non è di natura nazionale o etnica, ma più precisamente sociale, materiale.
Naturalmente nel caso della Sardegna questo problema investe direttamente anche la sfera giuridica e istituzionale. La condizione di dipendenza politica è necessaria (anche se non sufficiente) a perpetuare la nostra sottomissione economica, sociale e culturale. Il successo politico a livello italiano di alcuni sardi non è in contraddizione con questa lettura ma anzi ne è una conferma.
Arrivare a spezzare il vincolo penalizzante della dipendenza politica sarà il coronamento di un processo di liberazione che dovrà avere il suo nucleo decisivo nell’innovazione dei modelli economici, nel mutamento dei rapporti di produzione, nel genere di relazioni sociali a cui sapremo dare vita.
Il discorso dell’autodeterminazione e dell’indipendenza politica può (e secondo me deve) essere declinato dentro questa cornice, che è una cornice propriamente emancipativa e dunque rivoluzionaria. Che non coincide affatto con quella che assume il discorso dell’indipendenza in maniera ideologica e come contrapposizione tra un generico e indistinto “noi” e un altrettanto generico e indistinto “loro”. Dall’autodeterminazione dei Sardi molti Sardi avranno parecchio da perdere. Non a caso esiste tanta ostilità verso tale prospettiva tra chi ha posizioni sociali e materiali che devono tutto alla condizione di dipendenza e subalternità.
Queste precisazioni sono indispensabili tanto per chiarire ciò che succede in questi giorni, quanto per evitare di aspirare o ancor peggio di avviare un processo di autodeterminazione solo nominale, banalmente sostitutivo di una classe padronale con un’altra. Sono i “barones” il nemico, non il re. Al re ci penseremo a suo tempo.