In queste settimane si avvicendano alcuni anniversari significativi: quello della nascita di Antonio Gramsci (Ales, 22 gennaio 1891), quello della morte di Giovanni Maria Angioy (Parigi, 22 febbraio 1808) e quello della morte di Emilio Lussu (Roma, 5 marzo 1975). Accade tutti gli anni, ovviamente. La significatività di queste ricorrenze sta non solo e non tanto nella statura dei personaggi a cui si riferiscono, ma soprattutto nella loro rimozione dall’agenda pubblica sarda, sia politica sia mediatica.
L’opinione pubblica e l’immaginario collettivo hanno inevitabilmente bisogno di punti di riferimento. Essi variano in base a diversi fattori, ma in generale sono i processi egemonici a decretare i riferimenti più diffusi per l’intero corpo sociale, sono i soggetti che dominano la produzione dei contenuti e i mass media che li veicolano a stabilire chi e cosa debba essere assunto come esempio o come simbolo. Quali sono dunque i punti di riferimento diffusi e conclamati, certificati da ricorrenze pubbliche, in Sardegna?
È interessante constatare come i tre personaggi menzionati, pure così diversi tra loro, siano sostanzialmente evitati dalla classe dirigente sarda, dalle istituzioni, dall’ambito intellettuale. Hanno un posto marginale anche nella toponomastica. Qualche via è dedicata dedicata loro, nei nostri comuni, ma a ben guardare è niente rispetto alla toponomastica savoiarda e risorgimentale.
Giovanni Maria Angioy è senza dubbio uno dei personaggi più significativi della nostra storia e continua a chiamarci in causa per via della portata che la sua vicenda ha avuto per la Sardegna degli ultimi duecento anni, compreso il nostro presente. Eppure è di fatto assente dall’immaginario collettivo e non viene mai citato né evocato nel discorso pubblico mainstream.
Antonio Gramsci viene solitamente percepito in Sardegna come uno dei padri del Partito comunista italiano e associato al paese di Ales (dove nacque), benché fosse di Ghilarza. Poco altro si sa e si dice di lui. Il fatto che fosse sardo e che il fatto di essere sardo per lui stesso fosse determinante (come riconosce un osservatore lucido e disinteressato quale Eric Hobsbawm) non gli è mai valso come motivo per godere di un trattamento particolare nel discorso pubblico isolano, spesso così generoso con fatti o personaggi di ben minore spessore solo perché appunto sardi. La sostanziale rimozione del patrimonio di pensiero gramsciano dal dibattito culturale e politico sardo discende da quella operata nel dibattito culturale e politico italiano, di cui il nostro è per lo più un’appendice provinciale.
Emilio Lussu poi è una specie di figlio di nessuno. Troppo irreprensibile dal punto di vista etico, troppo severo, duro, restio all’accomodamento. Troppo di sinistra per molti, troppo sardista per altri, troppo poco indipendentista per altri ancora. Nemmeno il suo talento narrativo basta a imporlo come riferimento culturale. La complessità della sua parabola biografica e intellettuale ne fa un oggetto poco incasellabile in schemi semplicistici. Più facile evitarlo che confrontarcisi.
Alla fine, ciò che accomuna Angioy, Gramsci e Lussu è il fatto di costituire, ognuno per la sua parte e da un certo punto di vista, una nemesi per l’attuale classe dirigente sarda. La quale non ha l’intraprendenza e lo spirito innovatore di Angioy, non ha la lucidità politica, la statura intellettuale e morale e la generosità umana di Gramsci e non è nemmeno lontana parente della fermezza, della forza d’animo, dell’intransigenza etica e politica di Lussu.
Non può stupire dunque che, se si ignorano questi tre personaggi noti e in qualche modo già storicizzati, non ci si sia ricordati di Angelo Caria, leader indipendentista scomparso il 24 febbraio 1996, a 48 anni. Una mente lucida e una personalità generosa come poche altre in tutto quel decennio. La sua attualità – al netto di qualche distanza lessicale, forse – è fin troppo esemplificativa della nostra inerzia storica. Come se in vent’anni niente fose cambiato se non in peggio.
Le istituzioni sarde sono sempre solerti nel partecipare e finanziare ogni ricorrenza ufficiale (dalla Giornata dell’unità nazionale e delle forze armate, al Giorno del ricordo, alla festa delle Repubblica, ecc.), così come hanno amato le celebrazioni per il 151esimo anniversario dell’unificazione italiana, nel 2011, e non si fanno mai scappare la minima ricorrenza relativa ai personaggi risorgimentali o sabaudi. Si fanno persino un vanto della sardità di un personaggio piuttosto equivoco come Francesco Cossiga e ricordo ancora con un certo stupore la commemorazione di Armando Corona, noto Armandino, in Consiglio regionale, il 30 giugno 2010. Le nostre istituzioni, o meglio, i soggetti e le consorterie che le occupano, amano molto meno dedicare occasioni di ricordo e celebrazioni a fatti e personaggi significativi della nostra storia e della nostra cultura, soprattutto se potenzialmente evocativi di una emancipazione sociale e/o politica. È un fatto evidente. E non è un caso.