Uno degli elementi più pregnanti del nostro mito identitario è l’inerzia culturale. La Sardegna è diffusamente considerata la terra ferma nel tempo, uguale a se stessa attraverso i millenni, conservativa (o arretrata all’occorrenza) e resistenziale.
Tale tratto è stato assunto acriticamente, enfatizzato ed elevato a valore dall’ideologia sardista e ancora oggi è ampiamente sfruttato retoricamente, sia per vantarcene, sia per addurlo come giustificazione, sgravandoci così da responsabilità attuali e pressanti, altrimenti ineludibili.
A suo supporto si adducono come prova alcune pratiche consuete presso i Sardi, specie quelli “più veri”, quelli delle Zone Interne. Ci sono virtù e difetti considerati atavici che vengono ascritti alla presunta permanenza da secoli e secoli della stessa identica cultura, passata inalterata attraverso tutte le epoche, a dispetto delle tante “dominazioni” subite.
Da qui la teorizzazione della “costante resistenziale”: i Sardi sono sempre stati sconfitti ma mai vinti, sosteneva Giovanni Lilliu, dunque, a dispetto di tutta la malvagità dei continui conquistatori, siamo riusciti a preservare indenne la nostra identità dal tempo dei nuragici fino ad oggi.
Effettivamente è osservabile presso i Sardi una peculiarità nelle forme di socializzazione o nelle strutture sintattiche profonde (che sono elementi relazionali anch’esse, non solo grammaticali). Per esempio, l’abitudine di indagare su parentele e amicizie quando due sardi che non si conoscono si incontrano, specialmente in territorio neutro, è un tratto che riconduce a usi ancestrali.
Jared Diamond, nel suo Armi, acciaio e malattie, spiega:
Nelle società tradizionali della Nuova Guinea, quando due perfetti sconosciuti si incontravano al di fuori dei loro rispettivi villaggi iniziavano subito una lunga discussione per cercare di stabilire se avessero qualche parente o amico comune, e quindi una valida ragione per cui l’uno non dovesse uccidere l’altro.
(Parte III, cap. XIV)
Una simile scoperta sembrerebbe confermare la nostra inossidabile permanenza in un passato perenne. Ma siamo sicuri che si tratti di questo? Siamo sicuri di sapere bene come funzionano queste cose?
La collettività umana che abita in Sardegna è la medesima da alcune migliaia di anni. Negli ultimi 8000 anni ha ricevuto limitate immissioni di componenti esterne. Sporadici visitatori, famiglie, a volte gruppi più consistenti, hanno periodicamente piantato le tende sull’isola, fondendosi alquanto rapidamente con la popolazione residente. Ne rimane traccia persino oggi, in qualche antroponimo, specie nei cognomi. Pensiamo ai vari Cadalanu o Pisanu, o ai Valdes, Rodriguez, Martinez, Garzia (questi ultimi, anche di provenienza italica), o ai cognomi chiaramente italiani (e non semplicemente italianizzati all’anagrafe) di famiglie sardissime da generazioni. Questi sono apporti facilmente riscontrabili in quanto recenti, che ci dicono qualcosa su come siano andate tali faccende in Sardegna nel corso del tempo.
Il fatto che una popolazione in una porzione di territorio definita, dai confini certi, come un’isola, sia la medesima per tanto tempo crea una stratificazione culturale notevole. Niente viene buttato via dalla storia, tanto meno in una situazione in cui non si verifica per lungo tempo alcuna sostituzione totale tra comunità umane. Tutto quel che è successo in Sardegna negli ultimi dieci millenni ce lo portiamo appresso inevitabilmente, che lo sappiamo e che ci piaccia oppure no.
Il fatto di essere isolani ha avuto il suo peso. Non però nel senso – solitamente tirato in ballo a sostegno della tesi della nostra arretratezza o resistenzialità – che siamo sempre stati isolati. Isolati non lo siamo stati mai (forse un po’ di più al giorno d’oggi, in rapporto ai mezzi disponibili). L’isolamento non c’entra nulla. C’entra però la distanza geografica. La distanza geografica si traduce in “tempo”. Se gli apporti nuovi impiegavano più tempo ad arrivare in Sardegna, quelli che erano già arrivati avevano a loro volta più tempo per essere assimilati e per sedimentare. Questa relazione tra distanza e tempo di assimilazione delle diversità dovrebbe suggerirci qualcosa circa l’impatto di innovazioni rapide e massicce sul corpo vivo della popolazione o sull’impatto dei nuovi media nella società sarda contemporanea. Ma tralasciamo ora questi ulteriori aspetti della questione.
Da questo fatto discende la forte peculiarità che denota così chiaramente i Sardi agli occhi di molti stranieri (Italiani compresi). Ma è una distinzione che colpisce solo perché calata in un contesto come quello italiano, iper-nazionalista e centralista quanto a organizzazione del sapere e produzione di contenuti culturali, ostile alla diversità, persino a quella interna.
Molti tratti che noi consideriamo tipici dei sardi sono in realtà tipici dell’umanità in quanto tale e discendono semplicemente da fattori ambientali, economici, sociali, culturali accumulatisi nel tempo. A fattori uguali o simili corrispondono esiti simili. Se sentiamo familiare l’uso dei Guineani di interrogarsi sulle reciproche parentele non è perché siamo selvaggi primitivi, ma forse perché siamo tradizionalmente pochi, come loro. La demografia qui ha un ruolo decisivo. I famosi gradi di separazione tra un individuo qualsiasi e un altro, che per l’umanità in generale qualcuno ha calcolato in sei, per i sardi possono ridursi forse a tre o quattro, se non due.
Altro aspetto della faccenda è che la permanenza di usi apparentemente premoderni discende anche dall’andamento ciclico della nostra condizione politica. È un’affermazione avventurosa, lo so bene, ma ritengo che il fatto di aver periodicamente visto scemare la nostra qualificazione (e il nostro autoriconoscimento) come una collettività storica pienamente soggettivizzata, con una propria esistenza attiva nello scenario delle vicende umane, abbia fatto emergere di volta in volta a mo’ di risposta aspetti profondi della nostra stratificazione culturale pregressa.
Quando Antonio Pigliaru studiava e codificava le regole della vendetta “barbaricina” si faceva affascinare dalla vigenza di un ordinamento giuridico parallelo e concorrente rispetto a quello ufficiale. Il problema però, anche in questo caso esemplare, non era la vigenza di un ordinamento parallelo e concorrente, ma la debolezza e il disconoscimento di quello ufficiale da parte dei soggetti interessati.
Questo è un fenomeno molto contemporaneo. Non è affatto detto che le cose andassero così in epoca giudicale e nel Regno di Sardegna spagnolo, per dire. Il grado di vigenza e di efficacia dell’ordinamento giuridico formalizzato dipende dal grado di adesione ad esso della popolazione su cui insiste. Conoscendo la nostra storia contemporanea, diciamo dal Settecento ad oggi, può davvero meravigliare che i Sardi abbiano rifiutato spesso di riconoscersi nell’ordinamento giuridico ufficiale? O che, su un altro piano, abbiano assunto spesso un atteggiamento ostile verso la cosiddetta “modernizzazione”, attuata a ondate sempre più pervasive e prepotenti, negli ultimi duecento anni? Dipende dal fatto che siamo ineluttabilmente arretrati? O si tratta di una risposta pragmatica a sollecitazioni storiche complesse e difficili da metabolizzare?
Pensiamo solo a cosa abbia significato, fino a un paio di generazioni fa, l’esclusione della lingua propria dei Sardi dal novero dell’ufficialità, da qualsiasi riconoscimento formale, dall’ambito dell’istruzione, dei mass media, dei rapporti con l’autorità costituita. La resistenza culturale dipende dal fatto che siamo ancora e sempre gli antichi costruttori di nuraghi o da condizioni concrete e attuali di dipendenza e subalternità?
In definitiva, senza la pretesa di costruire una teoria compiuta, a me sembra che sulla nostra presunta resistenzialità, sulla nostra identità sempre uguale a se stessa nei secoli dei secoli, esista un enorme equivoco, che le scienze umane non sono riuscite ancora a sciogliere. Il nodo è aggrovigliato, mi rendo conto, ma proprio per questo non lo si può sbrogliare a colpi di stereotipi faciloni, né tranciare via eliminando la nostra intera stratificazione storica (come pure si è tentato di fare).
Per questo parlo di resilienza piuttosto che di resistenza. Nel corso dei secoli i Sardi hanno dovuto rispondere alle sventure contingenti in modo creativo. Ogni volta la nostra collettività storica si è riformulata sulla base delle condizioni del momento sfruttando il patrimonio culturale accumulato. I vari tempi della storia si muovono sempre uno sull’altro come strati geologici che a seconda delle sollecitazioni, si piegano, si mescolano, fanno emergere uno strato più profondo o ne accumulano altri di nuovi. In Sardegna questo meccanismo complesso è molto evidente, perché l’isola ha avuto un processo di accumulo storico costante, senza rotture drastiche.
Non è strano che alcuni elementi apparentemente antichissimi siano rispuntati fuori in epoche tarde o sopravvivano ancora oggi. Dovrebbe essere considerata una fortuna possedere questo tesoro di esperienze e di strumentazione culturale a cui attingere. Non bisognerebbe vergognarsene né farne un feticcio ideologico, ma esserne coscienti per affrontare il mondo con un po’ più di fiducia in noi stessi e con più dignità.
Vorrei evidenziare un altro elemento come concausa della “immutabilità” sarda. Il colonialismo, nel tentativo di appiattire e cancellare specificità sarde, come la lingua e la storia, sostituendole con quelle dei colonizzatori, ha creato un’illusione di integrazione nei colonizzati, che sono stati spinti a considerarsi soggetti politici attivi nel contesto culturale dei dominatori, solo per scoprire di essere in realtà considerati cittadini di seconda classe, oggetti di decisioni politiche altrui.
Da qui inevitabile il ripiegamento verso un substrato culturale arcaico che, anche perché stigmatizzato dai colonizzatori, diventa strumento di sopravvivenza individuale e comunitario di una società di esclusi.