Ennio Flaiano diceva: “se si spiega con un esempio, non capisco più nulla”. Però a volte gli esempi sono illuminanti. Quando parliamo di mito identitario sardo, della sua costruzione e diffusione e di come sia stato fatto proprio dal sardismo e poi dal senso comune della maggioranza dei Sardi, si riassume una vicenda complessa, che ha richiesto molti anni di tempo e il concorso di vari soggetti, a diverso titolo. Allo stesso modo, parlare di tecnicizzazione di un mito e dei suoi risvolti politici rischia di rimanere nel campo delle astrazioni, senza una dimostrazione concreta. Non è inopportuno, dunque, ricorrere a qualche pezza d’appoggio.
Mi viene in soccorso, in questo caso, un testo riesumato nella Biblioteca digitale della Regione Sardegna. Si tratta di una rivista del Touring Club italiano, “Le vie d’Italia” e nello specifico il suo n. 8 dell’anno 1937. Vi si legge un lungo articolo, scritto dallo storico (e poi politico democristiano) Raffaele Ciasca, dedicato alla Sardegna e in particolare ai grandi personaggi della storia isolana. Un testo scritto da un appassionato di cose sarde, le cui intenzioni individuali dunque non erano affatto malevole. Nondimeno, il discorso, dotto e documentato, sintetizza e esemplifica meravigliosamente le cornici concettuali e le modalità retoriche con cui la Sardegna è stata inserita dentro la mitologia nazionale (e nazionalista) italiana.
L’incipit sembra tratto da un cinegiornale dell’Istituto Luce (e sarebbe interessante frugare gli archivi del medesimo, per vedere un po’ se non salta fuori qualcosa del genere).
Emersa dal travaglio del mondo quando la Penisola ancora non era, la terra antica di Sardegna serba ancora nel volto i segni del tormento traverso il quale è passata.
Una terra aspra e selvaggia, che “nelle sue gradazioni e contraddizioni, offre visioni di biblica grandiosità o di sconfinata desolazione”. I suoi abitanti non sono da meno. Gli uomini, naturalmente barbuti, rigorosamente “austeri nella vita dura, gravi e taciturni”, ma nei cui cuori battono “ardimenti forti e generosi” e persino “impensate delicatezze”. Le donne poi, per quanto dal “corpo esile”, nascondono “un’insospettata forza, e sotto la difesa dei loro ampi e rigidi costumi tradizionali v’è un cuore che chiude spesso il segreto della gioia più intima, il dono supremo della dedizione assoluta, la maschia vigoria di cui andò famosa Eleonora d’Arborea”. Per fortuna non vengono menzionati i baffi, nel caso delle donne.
L’articolo è una disamina storica e culturale, direi quasi antropologica, svolta seguendo il filo delle biografie più eminenti della storia sarda, da Amsicora agli intellettuali organici della Perfetta Fusione e della nuova Italia unita. Nomi noti e meno noti affollano il filo del discorso, mostrando un certo studio della storiografia sarda disponibile. Le omissioni sono significative quanto le forzature storiche. La storia giudicale è rievocata in quanto resistente all’invasione aragonese, mentre della Rivoluzione sarda non c’è traccia. Anzi, i personaggi eminenti dell’epoca sarebbero precisamente i più feroci controrivoluzionari, alcuni dei quali, come Giacomo Pes di Villamarina, niente meno che feroci boia. Di quel momento storico viene rievocato anche Vincenzo Sulis, ma solo come eroico oppositore al tentativo di occupazione francese.
Un posto di rilievo naturalmente occupa Giuseppe Manno, vertice massimo ed emblema dell’intelligencija sarda ottocentesca (e oltre, a dire il vero). Sebastiano Satta e Grazia Deledda vengono citati come fulgido esempio, dato che, superando l’uso del “dialetto” a favore dell’italiano (“segno dei tempi nuovi”, evviva!), avevano riscattato una produzione letteraria sarda altrimenti povera e di stampo prettamente popolare. Grazia Deledda, naturalmente, col suo premio Nobel, aveva onorato “sé stessa, la sua isola e la patria italiana”. Del resto,
Nelle lettere e nelle arti, se la Sardegna non ha avuto per secoli grandi nomi, novera una bella schiera di cultori, che testimonia quanto possa l’amore alle occupazioni intellettuali in un paese che dalla geografia, a non dire altro, sembrava condannato a rimaner chiuso ai luminosi fulgori dell’arte, presso un popolo che, obbligato a far fronte a cento invasioni, è stato per secoli coll’arme al piede.
Le virtù dei Sardi sono “inespresse”, soffocate da “un dolore senza nome”. Un tragico destino, un mare di atavica sfiga insomma. E per fortuna, secondo l’autore, “attorno all’isola, in questi ultimi anni, c’è tutto un fervore di interessamento e di opere”. Tanto che può spingersi a sentenziare che la “vecchia Sardegna sta per finire”. In quella nuova, che sembrava allora nascere grazie all’intervento benefico del governo fascista, le vecchie virtù sarebbero rifiorite. La chiusura dell’articolo è ottimistica: “Su quest’isola, estremo baluardo nel Mediterraneo, sui suoi uomini, l’Italia può sicuramente contare”.
Il tenore della conclusione non lascia dubbi sul senso complessivo dell’articolo. La Sardegna si riscatta e trova una sua collocazione storica in quanto “oggetto” funzionale agli interessi generali dell’Italia. La cosa non deve stupire né indignare, neanche se, come viene spontaneo fare, la si considera ancora una visione del tutto attuale. Non è il punto di vista italiano, che bisogna discutere. Piuttosto occorre riflettere sul fatto che il taglio, le connotazioni e i riferimenti storici del testo in questione rappresentano ciò che dei Sardi, della nostra identità e del nostro posto nel tempo e nello spazio pensiamo noi stessi.
C’è tutto l’orizzonte culturale sardo contemporaneo, in quelle parole: l’ansia di essere accettati, la rivendicazione esagerata dei propri meriti agli occhi dell’osservatore italiano, l’enfasi posta su presunte virtù ancestrali, l’orgoglio della specialità (che è sempre una qualità relativa, mai un valore a sé stante). C’è già, quasi bell’e pronta, tutta la retorica della “costante resistenziale”. Di questo genere di manipolazioni siamo vittime da generazioni. Più precisamente, da quando la nostra potenziale classe dirigente moderna, quella che aveva guidato la Rivoluzione, venne spazzata via dalla repressione filo-sabauda.
Quando si parla di “indentità sarda” bisognerebbe sempre fare uno sforzo di riflessione su che cosa essa sia. L’articolo di Ciasca e la sua connessione al nostro mito identitario mi hanno fatto pensare a un paper dello storico indiano (dell’India) Dipesh Chakrabarty, intitolato “Postcoloniality and the Artifice of History: Who Speaks for “Indian” Pasts?”(*), in cui si affronta la questione delle cornici concettuali e degli elementi narrativi utilizzati dalla storiografia nazionalista indiana tra Otto e Novecento. Il periodo è quello, come si vede. Ed è il medesimo il fenomeno denunciato: l’assimilazione come propri, da parte della cultura colonizzata, degli stereotipi usati dalla cultura colonizzatrice, ma rovesciati di segno, assunti come valori e non come limiti. Inevitabile che un’operazione simile finisca per legittimare qualsiasi forma di folklorizzazione della cultura colonizzata o decolonizzata e alla fin fine per avvalorare il mito della superiorità del colonizzatore. Un paradosso del resto già evocato da Edward Said.
Viene alquanto spontaneo applicare tale ragionamento alla Sardegna e al sardismo (in senso lato). Quando si attribuisce al sardismo e all’autonomismo una propensione emancipativa, va ricordato il loro ruolo essenziale nella normalizzazione della condizione dipendente della Sardegna attuale (al di là di quali fossero gli intenti dei padri del sardismo politico, che comunque tutto erano tranne che indipendentisti, come si sa). Oltre a ciò, da un ragionamento su questi aspetti dovremmo anche ricavare un ammonimento alla prudenza nel valutare i tentativi di nuove mitologie, le loro fonti, il loro orizzonte di riferimento, i loro obiettivi, i loro possibili esiti pratici (fossero anche non voluti).
Una cosa è certa: liberarci del nostro mito identitario è una priorità assoluta. Per farlo è necessaria una riappropriazione lucida e onesta della nostra storia. Soprattutto della nostra storia recente. Non è facile e non è nemmeno una condizione sufficiente al nostro riscatto collettivo. Ma è senz’altro una delle condizioni necessarie.
(*) Ringrazio Alessandro Mongili per avermi suggerito la lettura di questo paper.