I tempi del mondo sono diversificati, come insegnava Fernand Braudel. Spesso abbiamo la tentazione di correre appresso alla cronaca, irretiti dal sovraccarico di informazioni, riducendoci a una “corsa dei topi”, senza costrutto concreto. Bisogna sempre tenere d’occhio i processi profondi, di cui i singoli eventi sono degli inneschi o delle eruzioni superficiali. Il discorso vale a livello globale come al livello locale. Anche in Sardegna.
Le cronache sono piene di fatti e commenti ai medesimi, e va bene assumerne i contenuti con un certo discernimento, senza farsene travolgere. Può essere interessante capire chi comanderà d’ora in poi dentro il PD isolano, perché ha conseguenze ramificate, ma bisogna contestualizzare questo mero accadimento dentro il suo scenario di riferimento e valutarne il senso in termini più ampi. Così come bisogna fare con le dichiarazioni governative a proposito dell’eliminazione delle Regioni a statuto speciale o con l’evidente attrito tra il mondo del lavoro, il sindacalismo organizzato e i vecchi partiti. Tutti elementi parziali di un gioco più ampio, a sua volta inserito dentro magmatiche correnti storiche.
Non c’è solo questo nella politica sarda, chiaramente. Se il PD isolano si adegua allo strapotere autoritario e accentratore di Matteo Renzi, lo fa non senza scossoni e in una declinazione tutta sarda. La risposta del Presidente Pigliaru alle dichiarazioni anti-autonomiste della ministro Boschi sono un mero atto dovuto, puramente retorico, ma già solo per questo significativo. Così come le proteste della giunta regionale contro la decisione del governo di prolungare la servitù militare a Guardia del Moro, sull’isola maddalenina di Santo Stefano.
Cos’è dunque che si muove, anche a livello istituzionale, in Sardegna? In realtà non è una novità assoluta. I prodromi si erano visti già nella recente amministrazione Cappellacci (di cui del resto l’attuale amministrazione Pigliaru è una evidente prosecuzione, sotto altro nome) ed anche nell’esperienza della giunta Soru, specie nei primi anni. La politica sarda sta acquisendo giocoforza una connotazione più rivendicazionista verso lo stato centrale. Non senza contraddizioni, naturalmente. La giunta Pigliaru solo pochi mesi fa si era affrettata a promettere al governo “amico” di ritirarsi da tutti i contenziosi aperti con lo stato centrale e addirittura di rinunciare agli eventuali esiti positivi (per la Sardegna) dei ricorsi in itinere. Una scelta che era stata da più parti stigmatizzata, vuoi per pura strumentalizzazione politica, vuoi per sincera preoccupazione e con argomentazioni stringenti. Di pochi giorni fa la retromarcia della giunta Pigliaru, costretta a rimangiarsi il patto col governo, alla luce delle posizioni ostili (ma del tutto prevedibili) di quest’ultimo.
L’aspetto sul quale vorrei soffermarmi è il peso che sta avendo, oggi, in modo evidente, l’affermarsi della visione portata avanti dalle forze indipendentiste negli ultimi dieci anni. La maggior parte dei temi dell’agenda politica sarda, sia nei partiti maggiori, sia nei mass media e in generale in larga parte dell’opinione pubblica, rispecchiano denunce e posizioni assunte negli ultimi anni dall’indipendentismo cosiddetto moderno (ossia quello emerso dalle ceneri del primo indipendentismo, sostanzialmente defunto alla fine degli anni Novanta del secolo scorso). Beninteso, non è che il primo indipendentismo (quello che parte dagli anni Settanta e arriva fino a Sa Mesa de sos Sardos liberos) sia scomparso. Ha però dovuto far fronte alla chiusura del suo ciclo vitale e alla nascita di nuovi soggetti, in parte germinati sul suo stesso terreno, ma con il preciso intento di andare oltre, specie in termini di elaborazione teorica e di prassi.
In ogni caso, vuoi per merito diretto delle nuove formazioni indipendentiste, vuoi per circostanze concomitanti, in questi ultimi dieci anni si sono affermate idee, parole d’ordine, cornici interpretative che, seppure minoritarie nel dibattito pubblico, hanno finito per permeare di sé un comune sentire molto diffuso e per condizionare le scelte (almeno a parole) dei partiti maggiori, direttamente dipendenti da centri decisionali esterni. Basti pensare alla mobilitazione contro il nucleare del 2003 (cavalcata con successo dallo stesso Renato Soru col suo Progetto Sardegna) e a quella del 2012, o alla “vertenza entrate” (sollevata dall’indipendentismo e poi fatta propria dalla giunta Soru, sia pure per risolverla malamente), o alla questione dei trasporti, o alla crescente presa di coscienza sulle servitù militari, alle mobilitazioni locali contro le speculazioni energetiche ed estrattive, ecc. ecc.
Si è creata, negli anni, un’aspettativa di maggiore soggettività politica dell’isola, mai prima registrata dalle istituzioni. Lo stesso “vento sardista” degli anni Ottanta, benché animato da parole d’ordine spesso forti (da parte del PSdAz di Mario Melis), in realtà fu una forma di normalizzazione delle istanze più radicali che già allora stavano emergendo vistosamente. Normalizzazione che i partiti italiani (e soprattutto il PCI, in quel caso) realizzarono senza alcuno sconto (pensiamo alla chiusura totale sulla questione linguistica).
Adesso invece non c’è neanche bisogno di avere delle forze indipendentiste o fortemente autonomiste nei ruoli decisionali, per condizionare la retorica politica sarda mainstream. In questo senso, non si può certo dire che i rimasugli “sovranisti” che sostengono l’attuale maggioranza siano decisivi. Anzi, sostanzialmente fanno da tappo e da ostacolo a maggiori aperture e difendono posizioni di retroguardia, del tutto schiacciate come sono sulla propria convenienza spicciola. Eppure, tanto le contingenze storiche (la crisi che morde, i problemi che emergono in modo più evidente), quanto l’efficacia delle proposte e delle tematiche portate avanti dall’indipendentismo contemporaneo, hanno generato un approccio diverso e inedito a tutte le questini. Difficile, per chiunque governi la Sardegna oggi, fare e disfare senza problemi ciò che si aspettano i vari referenti di partito in Italia o i gruppi di interesse a cui si risponde. È come se aleggiasse, non evocato né desiderato, ma distintamente avvertito, il fantasma di possibili svolte radicali, di smottamenti rapidi e incontrollabili lungo una china al cui fondo c’è l’aperto conflitto con lo stato italiano.
I partiti italiani in Sardegna e i loro satelliti sono costretti a tener conto, prima di tutto nel proprio interesse, di un mutamento di sensibilità generalizzato. Solo l’arroccamento conservatore dell’establishment, agevolato da una legge elettorale vergognosa, ha potuto evitare per ora che tale mutamento si concretizzasse anche in una cospicua rappresentanza istituzionale. Sappiamo bene che più di 100mila voti regolarmente espressi e non tradottisi in seggi in consiglio regionale erano orientati verso istanze di maggiore autodeterminazione, fuori dagli schemi consolidati del sistema di potere sardo. A questi si somma quel 48% di astensioni che è difficile assegnare a una parte o all’altra, ma che segnala il distacco crescente dell’elettorato dai centri di controllo clientelare e dalle forze politiche maggiori. Il fatto ulteriore che il maggiore organo di stampa, l’Unione Sarda, abbia rotto un secolare argine e si stia schierando in termini indipendenti e critici verso l’apparato dominante è anch’esso piuttosto notevole.
Già altri (come Maurizio Onnis qui) hanno dato una lettura del fenomeno in corso. Io vorrei aggiungere qualche considerazione sul ruolo e sulla parte che il movimento indipendentista nel suo complesso gioca o può giocare in questa fase storica.
L’affermazione nello scenario sardo di istanze di autodeterminazione è un fatto compiuto. Non una conquista al riparo da rischi di arretramento, ma comunque un risultato robusto, non negabile. Che anche all’interno delle forze politiche italiane si manifestino posizioni orientate in questo senso, non è sempre indice di mero calcolo ipocrita; spesso si tratta di posizioni sincere, ancora incerte, non mature, ma ormai emerse alla luce del sole. Tanto più vero, questo, per chi quelle forze politiche le ha lasciate o le sta lasciando. Professare una propria identificazione o almeno una propria propensione indipendentista ormai non solo non è un tabù, ma non fa nemmeno più notizia. Non porta con sé uno stigma particolare, né ha di per sé un significato politico proprio. Serve solo a segnalare un orizzonte di riferimento e un obiettivo politico-giuridico finale.
Di conseguenza, arroccarsi a difesa di una ortodossia indipendentista, magari senza specificare bene gli orientamenti politici di fondo a cui si fa riferimento, non sembra in linea con la forza visionaria che ha alimentato la riflessione sull’autodeterminazione degli ultimi anni. Può essere una reazione comprensibile alla crescente dose di responsabilità che l’ambito indipendentista si sta trovando ad affrontare, la ricerca di un rifugio sicuro in un mare molto mosso. Ma in questo momento c’è bisogno di posizioni nuove, più coraggiose della mera testimonianza di sé che in passato poteva bastare. È necessario rispondere e offrire copertura politica alla grande voglia di autodeterminazione presente presso l’opinione pubblica sarda, spesso in modo istintivo, non formalizzato, ma evidente.
Un altro ciclo è finito. La fase nata dalla crisi dell’indipendentismo di fine secolo scorso ha a sua volta toccato un suo apice e ora minaccia di ripiegarsi su se stessa. Il rilancio della prospettiva della nostra autodeterminazione ha bisogno di nuove forze, nuove idee, di un’apertura di credito coraggiosa a quelle fasce sociali e culturali che stanno abbandonando ormeggi un tempo sicuri per avventurarsi verso un orizzonte nebuloso, ma chiaramente libero. Non serve a nulla ipotizzare ancora unità nazionali tra partiti e movimenti indipendentisti, che spesso poi sono accordi tra le rispettive dirigenze (dirigenze, a loro volta, spesso autoreferenziali). Non ha alcun peso la prospettiva di un partito nazionale sardo (che risulterebbe sulla falsariga del partito nazionale italiano di cui parla Renzi, per altro). Si tratta di idee o superate dagli eventi, o di matrice conservativa se non reazionaria (sia sul piano politico sia sul piano sociale e teorico).
Che queste posizioni siano sbagliate (pragmaticamente sbagliate) lo dimostra quanto accaduto a ridosso, durante e dopo la grande manifestazione contro le servitù militari tenutasi a Capo Frasca il 13 settembre scorso. Lì, per la prima volta, una chiamata dell’ambito indipendentista ha coinvolto associazioni e comitati e molti esponenti di formazioni non indipendentiste che però si sono riconosciuti in tutto o in parte nei motivi della mobilitazione. Le polemiche sulla maggiore o minore coerenza dei partecipanti e soprattutto l’idea che tale mobilitazione dovesse rimanere appannaggio esclusivo delle forze indipendentiste, sono sintomi significativi della miopia che può colpire la militanza indipendentista.
Ciò che serve oggi, per offrire concetti, prospettive, soluzioni a questa delicata fase di transizione, è un coinvolgimento sempre più largo della società sarda, nelle sue varie articolazioni, sui temi fin qui portati avanti dall’indipendentismo. Non per un fatto di adesione ideologica, ma perché è sempre più evidente che la salvezza della Sardegna e di chi la abita passa necessariamente da un percorso di emancipazione e di conquista della nostra soggettività storica. Non sono in gioco tanto i miti fondativi della prospettiva indipendentista, sempre così esposti alle derive nazionaliste ed etnocentriche, quanto piuttosto le ragioni storiche, pragmatiche, reali della nostra autodeterminazione. A tutto ciò si deve poter offrire un orientamento valoriale, una visione di convivenza possibile, in termini economici, sociali, giuridici. Ed anche forme organizzative originali, che non replichino, in piccolo e in peggio, le forme del partito novecentesco di matrice italiana, per altro ormai in palese declino. Non basta sventolare una bandiera (che sia dei quattro mori o dell’albero verde arborense) per designare un percorso politico. Servono proposte precise, assunzione di responsabilità dirette.
Tale impostazione deve partire dalle nostre comunità, minacciate di estinzione dal doppio centralismo, statale e regionale. Deve innestarsi nell’azione dei comitati civici, nella politica culturale locale, nei nuovi percorsi che l’economia sarda sta cercando e in qualche caso trovando, a dispetto della crisi e della retorica della paura che la accompagna. Il radicamento territoriale e sociale delle istanze di libertà, di disponibilità dei diritti civili, di salvaguardia e valorizzazione virtuosa dei beni comuni, di riappropriazione – non retorica e tecnicizzata – del nostro lungo passato (di tutto il nostro lungo passato) deve servire a fondare ambizioni di governo a un livello più alto. All’eventuale (e del tutto probabile) scontro con lo stato centrale italiano bisognerà arrivarci con le carte in regola e con una base solida su cui contare. Altrimenti ogni aspirazione all’indipendenza rischia di tradursi in un tradimento, in una rivoluzione passiva (come più volte segnalato).
Va bene dunque enfatizzare la nostra diversità culturale, difendere la nostra pluralità e soggettività linguistica, richiamare una storia che pochi conoscono e che è sempre a rischio manipolazione. Ma serve soprattutto dotarsi di una dialettica politica sugli obiettivi concreti, di valori che li animino, di una visione civica chiara, anche diversificata tra le diverse sensibilità, ma che faccia capo a un orizzonte condiviso. È una esigenza di libertà, di dispiegamento compiuto delle nostre forze culturali e sociali, oggi precluso dalla condizione di dipendenza e subalternità a cui siamo costretti. La veste giuridica che prenderà tale percorso alla sua conclusione conta molto meno dei suoi contenuti politici. Non è una gara a chi ha detto prima una cosa. Non è una gara da nessun punto di vista. È una corsa che si vince se si arriva tutti, non se si arriva primi. E deve essere democratica, partecipata, responsabile ed eticamente ed ecologicamente sostenibile. O non servirà a salvarci, ma a dare un nuovo nome alla nostra sottomissione.